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BIBLIOTECA SCELTA
POETI DELL’ETÀ MEDIA
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DALLA STAMPERIA DI CRAPELET
Rt't DE VA'.GIRARD, 9
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POETI ITALIANI
DELL’ ETÀ MEDIA
ossia
SCELTA E SAGGI DI POESIE
DAI TEMPI DEL BOCCACCIO AL CADERE DEL SECOLO XVIII
PER CL'RA
1)1 TERENZIO M AMI A M
AGGIUSTAVI
INA SI' A PREFAZIONE
PARIGI
BAVSR7, UBR33RIA EUROPEA
3, QIIAI MALAQUAIS , All PREMIER ÉTAUE
PII I.S LE POST DEA A RTD
A
1848
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PREFAZIONE.
$ I
La presente Raccolta fa parte d’ un’ altra molto maggiore con la
quale tener dee proporzione ed accordo. Perciò non si maravigli il
lettore se qui dal poema del Mondo creato in fuori , egli desidera
i versi dell’ Ariosto e del Tasso, c non legge alcuna rima di ottime
poetesse, nè saggio veruno di componimenti drammatici. Tutto ciò
viengli offerto distintamente in altri volumi di questa Biblioteca
scelta. E nondimeno la dovizia del nostro Parnaso è tale che pur
sottratti que’ larghi tesori, ne rimangono altri d’insigne bellezza e di
gran valsente. In questi splende sopratulto una sfoggiala varietà,
invidiabile a molle letterature straniere, e la quale a noi è piaciuto
di far più visibile ordinando il libro per generi e specie di poesia.
Ben sappiamo che ancora in tal forma di distribuzione e di ordina-
mento accadono molte inconvenienze , perchè sovente le specie sono
distinte e sceverate dall’abito estrinseco e accidentale anziché dal-
P intrinseco e sostanziale. E per modo d' esempio ei si vedrà in
questo libro che i componimenti morali , in luogo di mostrarsi tutti
adunati nella classe lor peculiare, vengono ripartiti in più d'unn,
dappoiché la diversità grande e palpabile della forma ci ha mossi a
porne parecchj fra le poesie pindariche ed oraziane ed altri fra le
morali propriamente denominate. Però di tal difetto sentiamo dovere
più presto avvertire i lettori che chiedere scusa e indulgenza; con-
ciossiaché non conosciamo maniera alcuna d’ordinamento in cui
non s’ incontrino alquanti svantaggi e disconci , ed esse tutte sono
trovate meglio per comodo della memoria e come mezzi di para-
gone, che qual genuino ritratto delle vere differenze e disgregazioni
delle cose. In ciascuna specie poi di poetare da noi registrata, i
componimenti (come detta il senso naturale) si succedono secondo
i tempi degli autori, il che fa scorgere con massima agevolezza
qualmente la materia medesima, c non di rado li stessi concetti , col
variare dei tempi variino la significazione e l’ aspetto e , più che al-
tro, il modo particolare con cui sono espressi.
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I!
PREFAZIONE.
§ »'•
Ma per quello che s’ appartiene a tutta insieme la collezione dei ge-
neri , e in ciascuno d’ essi alla scelta dei nomi e per ciascun nome alla
scelta dei versi , noi vogliamo con alquante parole renderne ragione al
lettoree definire un po’ per minuto le considerazioni e i rispetti diversi
con cui l’abbiamo condotta. In prima sarebbe stato nel piacer nostro,
di non escludere dalla Raccolta o niunao pochissime di quelle com-
posizioni a cui sia toccato di riscuoterelode assai generale e durevole.
<'hè per verità primo giudice naturale do’ suoi poeti è il popolo in
mezzo di cui quelli cantano , c rarissimo accade che nelle rime ap-
plaudite comunemente e non troppo fugacemente, una qualche note-
vol bellezza non sia riposta o d’ immagine o d'affetto o di elocuzione.
Ne’ difetti medesimi loro ( quando avviene che n’abbiano e sieno
frequenti e più che leggieri) appare uno sfoggio di fantasia e d’in-
gegno e un siffatto abuso dell’ arte, per giungere al quale fa bisogno
aver sortito facoltà gagliarde e non ordinarie, il che à veduto l’Ita-
lia singolarmente nelle poesie del Marino. Ma dovendo la Collezione
nostra capir tutta in un sol volume , e cionondimeno dar saggio del
poetare di quattro secoli , a noi è convenuto cogliere unicamente
qualche porzione del più bel fiore e scicgliere e vagliare eziandio
nel buono e nell’ ottimo
Non ostante cotale necessità, abbiani procaccialo di porre in
vista tutte le varietà di stile un poco notabili e persino ogni
combinazione o nuova o difficile così di metro come di rime,
benché in ciò volemmo restare assai parchi, potendosi di leg-
gieri scambiare la novità con la bizzaria e la stravaganza. Oltre-
ché torna a gran follia l’andare in accatto di maggiori malagevo-
lezze ed angustie in un' arte già per sé medesima la più malagevole
di quante ne esercita l’ uomo. Il mondo , innanzi ogni cosa , chiede
bella poesia c maravigliasi volentieri delle difficoltà occorse per via
e con felicità superato, ma non di quelle che il poeta fabbrica per
ostentazione e capriccio; il bello é sempre difficile, ma mollo manca
che l’ inversa proposizione sempre si avveri. Certo è poi che quando
i poeti fanno studio e apparato di tal sorta di bravura, annunziano
quasi sempre la decadenza deH’arte. Ma v’à eziandio certi popoli
d’ingegno sottile e abbondante d’arguzie a’ quali simili ricercatezze
vengono facilmente in piacere. E sembra che ciò incontri per ap-
punto negli Arabi , la cui poesia sfoggiò molto presto in lavori strani
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PREFAZIONE. \J - 111
di ritmo, in immaginctle e in bisticci non guari disformi da quei
triti ornamenti di meandri e trafori che girano per le pareti e le
volte degli alcazari. Dagli Arabi si travasò il mal gusto ne’ Catalani
e ne’ Provenzali , e una vena non troppo scarsa ne fu derivata ne’
primi nostri verseggiatori. Dante egli pure non se ne astenne affatto,
e noi stupiamo in pensare che a quel genio sovrano venisse scritta
la canzone lambiccatissima della Pietra. Sa ognuno che nel seicento,
con lo scadere dell’arte, ricomparvero quelle freddure e mattie, e
ogni cosa fu piena di acrostici, d’ anagrammi, d’allitterazioni e
altrettali sccmpiezze. Ma per buona ventura cotesta sorta vanissima
di pedanteria non sembra ai moderni pericolosa, e dico ai moderni
italiani , perchè appresso gli stranieri non ne mancano csempj , e
molti ànno letto in un vivente poeta francese di gran nomea certi
capricci di metri e di rime i quali dimostrano come in lui siensi ve-
nuti rinnovando tutti gli umori e le vertigini dei seiccnlisti. E nem-
manco ci pare immune dalle stranezze di cui parliamo quel conce-
pimento del Goethe di ordire la tragedia del Fausto con questa
singoiar legge che ogni scena fosse dettata in metro diverso ed una
altresì in nuda prosa, onde potesse affermarsi che niuna maniera
del verseggiare ed anzi dello scrivere umano (per quanto ne è ca-
pace il tedesco idioma) mancasse a quel dramma ; nuova maniera c
poco assai naturale e graziosa di porgere idea e figura del pan-
teismo.
§ IH.
Ma tornando alla nostra Scelta, qui ne cade acconcio il notare che
quantunque gl’ Italiani mostrinsi oggidì molto sazj c fastidili del
sonetto , come di forma vieta e troppo dai mediocri ingegni abu-
sata, nientedimeno, esso deve occupare non picciola parte d’una
Raccolta la qual sia fedele rappresentati ice delle più vecchie e radicato
consuetudini del nostro Parnaso. Noi peraltro arbitriamo di avere
trascelto di quella specie i più belli e più celebrati componimenti , e
alcuni pochi eziandio che brillano di falsa luce , ma pur son piaciuti
troppo universalmente e per troppo tempo, come il sonetto famoso
del Maggi : Sciogli, Eurilta , dal lido ; e sta qui ad esempio di quel
sentir manierato e di quello stile lezioso che proseguì a farsi am-
mirare dai medesimi restauratori delle Lettere classiche, e della sem-
plicità antica, come stimarono di essere il Crcscimbcni ed i suoi col-
leghi c Mecenati. In fine facemmo luogo a parecchj sonetti solo
b
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IV
PREFAZIONE.
perchè dimostrano una foggia nuova e particolare nel genere ; e di
questi sono i Mattaccini del Caro, i Polifemici del Casaregi e gli
altri che stimammo bene di domandare sonetti Istorici,
§ iv.
A noi sembrò parimente buon senno di accogliere in questo libro
ogni composizione in cui fosse un cominciamento ed un saggio,
tuttoché imperfetto, d’ alcun nuovo abito di poesia, stato in pro-
cesso di tempo con arte più fina e con maggior felicità coltivato.
Così ci à parso di dover registrare due odi del Tasso seniore, per-
chè mostrano aperto il primo introdursi nella lirica nostra volgare
d'una imitazione più stretta d’ Orazio c de’ latini elegiaci. Con la
medesima considerazione debbe accettarsi lo squarcio non breve
che diamo della Tcseìde del Boccaccio , e qualche altro dettato forse
manchevole e rozzo , ma primitivo ed esemplare. Per lo contrario,
qualunque poeta che poco o nulla del proprio aggiunse alle altrui
invenzioni, ovvero non seppe con bel prodigio dcU’arlc innovare e
ringiovanire le cose antiche, fu da noi ragionevolmente escluso c
taciutone il nome. Questo à fatto che nella poesia Pastorale (per
venire a un caso specificato) da Bernardino Baldi si passi tosto c
senza alcun interponimento ai sonetti del Mcnzini e dello Zappi , nè
incontrisi altra composizione di moderni bucolici ; stantechè quei
sonetti sono il sol fiore campestre (a così domandarlo) che spuntò
leggiadro e odoroso nell’Arcadia romana, benché vi si radunassero
infiniti verseggiatori, nè d’altro per ordinario vi si discorresse clic
di greggi c capanne. Leggansi pure , fatta innanzi provvisione
d’eroica pazienza, l’ egloghe, gl’ idillj e le canzonette alla Nice quivi
recitale per lunghi anni , e crediamo che niuno si richiamerà della
. nostra sentenza ; e per via d’ esempio , leggasi il Veronese Pompei ,
principale di quella schiera, e dicasi con ischiettezza se bene gli
competevà il grido e la fama che mosse di sè con le sue fredde cd
affettale canzoni.
§ v.
Convenientissimo è poi , e quasi non occorre avvertirlo , che ab-
biamo anteposto sempre le composizioni più succose e istruttive
alle meno; quindi l’eleganza sola mai non ci à bastato per titolo di
ammissione ; o per lo manco, à dovuto essa sfolgorare d’ una grazia,
e d’ una venustà esemplare e perfetta. Ciononostante gli è affatto
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PREFAZIONE.
V
impossibile che buona parte della poesia italiana dell’ età media , e
quella segnatamente dei tempi più bassi , non iscompaja da questo
lato a paragone della inglese ed anche talvolta della francese. Ma
non doveva altrimenti accadere laddove al pensierc umano furono
sì di buon'ora appiccati gravissimi piombi e fabbricate mille catene ,
e dove agli affetti profondi e gagliardi , appena spuntavano, si vo-
lean recise tutte le barbe. Ma coloro che dimentichi di queste mi-
sere condizioni d’Italia entrano a spiegare la troppa mollezza e la
ridondanza del nostro Parnaso riferendone le cagioni al clima vo-
luttuoso, alla soverchia facilità del comporre e al predominio del
material mondo sullo spirituale, c della forma sull'idea, scordano o
disconoscono a torto non solo la poesia intera dei Latini padri no-
stri , ma la sacra epopeja di Dante, della quale si convicn dire, e con
molto maggior fondamento, quello che de’ poemi d’Omero afferma-
vano i Greci, starvi cioè incluso tutto il senno ed il sapere della
civiltà antica. Chò anzi per quella poca di cognizione la quale pen-
siamo di avere attinta dai libri e dall’esperienza intorno alla tempera
degl’ingegni e all’ indole delle nazioni, diremo assai francamente
che in niun paese quanto in Italia puossi veder meglio commista ed
uniffcala la idea con la forma c il profondo sentire col vivissimo im-
maginare, e in niuno veder associato con più saldi legami la scienza e
l’ intuizione, equclto che da' filosofi si suol domandare mondo subbie!-
tivo e mondo obbiettivo ; conciossiachò principal carattere del genio
italiano è la lega intima e l’equilibrio delle opposte facoltà ; laddove
ncINorte la potenza astrattiva c speculativa predomina e fassi tiranna;
ed anche agl’lnglesij popolo di mente elevata e caldissima, accade
troppo sovente di trasformare in psicologia la lirica c la drammatica;
nè pel grande studio che anno posto più volte nel greco, nel latino,
e pcranche nell’italiano, sonosi condotti a sentire ed a possedere le
bellezze e gli arlifìej più fini ed occulti della simmetria, della propor-
zione, della dignità, del decoro c della compiuta e continua conve-
nevolezza, ed a toccar l’ eccellenza suprema dell’ eleganza e dell’ atti-
cismo ; o ciò almeno si può asserire senza ombra di dubbio , che non
mai tali doli sonosi lor fatte connaturali c spontanee.
Principalmente abbiamo curato di scegliere qucllcrime che inten-
dono alla educazione civile, e ne infiammano ad amare la patria e con
egregie opere glorlficartàTlUa tali rime per isventura non riescono le
più numerose e le più celebrate ; e per atto d' esempio , noi pigliamo
dall’ Alamauni, degno poeta e degnissimo cittadino, un sonetto poli-
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VI PREFAZIONE.
tico che in niuna Raccolta abbiamo incontralo e da nessuno l’abbiam
sentito mai menzionare^ cionondimeno, per la politezza dello stile
e maggiormente assai per la magnanimità del concetto, merita di
gire innanzi a moltissimi altri stati prescelti e applauditi, non ostante
la frivolezza del lor subbietto, meritevole per lo manco di silenzio c
dimenticanza. Quante lodi invece non si udirono faro e quante ri-
stampe non si annoverano delle ottave di quel medesimo Fiorentino
sulla morte di ÌN' a re isso cambiato in fiore?
§ VI.
Questa noncuranza de’ lettori per la Civile poesia scusa in gran
parte i poeti e significa la ragione pcrchò cantassero eglino così di
rado le cose italiane e poco piangessero le nostre sventure, poco
s’infiammassero de’ nostri lunghi e affannosi desidcrj. Non può nè
deve il poeta scompagnarsi mai troppo dalle opinioni e dai sentimenti
comuni dell’ età sua; chòdaquesti principalmente move l’estro suo,
di questi accende e innamora le moltitudini; d’ogni altro pensiero
ed affetto, ove li possieda e li senta egli solo, avrà pochi intendi-
tori , pochissimi lodatori , c la favella delle Muse languc c muor sulle
labbra se non suona ad orecchie benevole e a cuori profondamente
commossi. Altro volte avviene che i concetti e le passioni civili
• quantunque non tacciano dentro al petto di molti , nientedimeno
mal si adattano alla poesia, perchè non consolati da alcuna spe-
ranza nè infuocati da sdegno generoso c potente, nè promossi e no-
bilitati da successi gloriosi e da splendide svenirne. Tale, a nostro
giudicio, fu il caso de’ poeti italiani dagli ultimi anni del secolo
dccimoquinlo sino al Parini e a Vittorio Alfieri. Questo disperare
. della salute pubblica e veder la patria non pure infelice e serva degli
stranieri , ma prostrata c invilita c fatta quasi sprcgievolc agli occhi
proprj, indusse altresì la persuasione che non s’ ascondesse nella
poesia un’arte educatrice del popolo e un organo de’ più efficaci per
iscaldarlo a sentimenti di grandezza morale c politica, ma fosse in
quel cambio una industria gentile e un grazioso intrattenimento per
consolarsi dei mali comuni, scuotendone via il pensicre, ricreandosi
con fantasie inoltiformi e leggiadro, trasportando lutto l’animo per
entro un mondo affatto ideale e porgendo pascolo alle affezioni private
e luce ed appariscenza a molli accidenti della vita ordinaria. Tal de-
viare della poesia dall’ ufficio suo gravissimo di prima c solenne arte
civile, è abito già vecchio assai c comune, oso dire, a tutte le nuovo
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PREFAZIONE.
VII
letterature. Imperocché* non si vede che altrove la cosa abbia proce-
duto meglio che a casa nostra. La prepotente fortuna c grandezza degli
Spagnuoli a’ tempi di Carlo V e di Filippo II appena à suggerito ai
lirici loro qualche ode, e uno o due drammi al Lopez e al Caldcron,
mentre diluviavano da ogni bandaio egloghe e le rcdonditlas, i sonetti
« le canzoni alla petrarchesca. Nell' Arai/ enti a, medesimo, nota un
buon critico casigliano, se v’à qualcosa di ben descritto, ciò sono
gl’ Indiani e non gli Spagnuoli. In Inghilterra il Milton fierissimo re-
pubblicano c segretario eloquente del gran Cromvetlo, à quasi sempre
poetato di cose mistiche e teologiche e nulla v’à di politico, nulla
«l’inglese e di patrio, né nel Paradiso perduto, né in altri suoi canti.
In fine chi s’indurrebbe a pensare, qualora il fatto certo e patente
non l’insegnasse, che in Francia, innanzi al Voltaire, mai non cor-
resse alla mente d' alcun insigne drammatico di porre in iscena un
caso e un gesto di patria istoria ; nò per altro i nipoti di Carlo Magno
e i soldati di Luigi XIV dovessero impietosirsi e spandere lacrime
se non per le nuore di Priamo e le sventure della casa d’Atreo?
§ VII.
Ma ciò menerebbe tropp’ oltre il discorso, e però tornando a fare
rassegna delle considerazioni che ojutarono a compilare il presente
libro, per ultimo noteremo che ci à parso bene, quante volte l’am-
piezza soverchia del componimento non l’ impediva , darlo ai lettori
nella sua interezza; e però eziandio in fatto di poemi avranno essi
tutto intero il Mondo crealo del Tasso c 1 ' Anyelcide del Valvasone;
avranno le Stanze del Poliziano, le Api del Ruccllai, il Podere del
Tansillo, la Poetica del Menzini, V Invito del Mascheroni; e oltre a
queste dannosi loro molto composizioni non brevi , come le Ottave
del Martelli , il Celeo del Baldi , il Ditirambo del Redi e simili altre.
Dove poi ci è stato forza di troncare il dettalo e produrre di soli
frammenti, abbiam procacciato con diligenza che fossero tali da
chiudere in sé medesimi una parte compiuta e perfetta dell’ opera
onde sono levati; e talvolta abbiamo fatto seguire l'uno all’altro
parecchj brani, in tutti insieme i quali un sol pensiere e un solo di-
segno si vien ripigliando dall'autore. Così del poema del Fortiguerri
furono tolti ed uniti que’ brani dove il carattere mollo strambo e
molto vero di Ferautle, è si maestrevolmente ritratto e spiegato. La
qual cosa abbiamo voluta non pure a vantaggio e onor de’ poeti,
quanto a soddisfazione dei leggitori. A’ poeti torna molte volto assai
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Vili
PERFAZtO.NE.
bene che delle opere loro vengan mostrate unicamente le parli me-
glio condotte; e Virgilio medesimo desiderò di essere tramandato
ai posteri come il torso del Belvedere, il qual fa stupire ognuno delle
rimaste bellezze c fa inlìnilamenlc rimpiangere ciò che ò perduto;
laonde (e questo sia detto per incidenza) riuscirà sempre a gloria
grande c invidiata d’Italia che la Gerusalemme del Tasso compaja
tanto più bella c mirabile quanto più in lei si contempla c considera
intenlivamenlc la perfezione del tutto. Ma ne’ leggitori è certo biso-
gno intellettuale di cogliere l’unità dei concetti c delle composi-
zioni , c lor sembra nell’ opere d’arte di non gustare così pienamente
come desiderano il bello in ciascuna parte diffuso, qualora non sia
paragonato c giudicato insieme col tutto.
§ Vili.
Ma chiederà forse taluno perchè in questa nostra scelta sia rice-
vuto per intero il Mondo creato del Tasso, dove in sul principiare
dicemmo che sì le rime di lui e sì quelle dell’ Ariosto ne sarebbero
escluse. Similmente si chiederà la ragione perchè diasi intera \'An-
geleide del Valvasone conosciuta da pochi e da pochi lodata, e in
egual modo parerà strana la preferenza nostra per qualche altro
nome c scrittura. Noi primamente diciamo, in risguardo del Tasso,
che d’un poeta tragrande siccome egli è, questa Biblioteca del Bau-
dry dee di necessità contenere le opere più solenni. E di fatto la Geru-
salemme sia nel volume de’ Quattro Poeti Maggiori; c in quella ri-
stampa che d’esso volume s’adempirà fra non mollo, compariranno
aggiunte le liriche più celebrate del sommo epico. Nel volume poi
del Teatro scelto italiano, altra ripartizione di essa Biblioteca, leg-
gerannosi V Aminta ed il Torrismondo. A compiere pertanto la col-
lezione dei capolavori del Tasso accadeva di dar luogo in questa
Raccolta al Mondo crealo, poesia nobilissima c, con fermezza il di-
ciamo, degna di più alta fama che forse non gode. Sono nel Mondo
creato rivestiti d’abito spendessimo i più rumorosi sistemi della
metafisica antica e della teodicea cristiana, insieme con tutto ciò
che di vario e dotto c di più immaginoso e poetico suggerivano le
storie naturali d'Eliano, d’ Aristotele, di Teofrasto, di Plinio, di
Dioscoride. Che se gran parte e forse anche la maggiore di quelle
dottrine è venuta meno, debbesi ridurre a mente che ciò non à posto
in dimenticanza e ncmmanco à scemato gloria a Lucrezio ed al suo
poema; conciossiachè ogni discreto lettore procaccia di situar l’in-
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PREFAZIONE.
IX
tellelto nelle condizioni dei tempi e nell’ordine delle cognizioni in
cui scriveva il poeta. Oltre a di che, quella magnificenza continua di
pensieri e di stile che appare nel Mondo crealo, e quell’aura biblica
insieme c platonica che spira in ciascuna pagina con tanta solennità
e con si vera caldezza di sentimento, sono pregi che sopravivono
al mutare delle opinioni; e d'altra parte compensano più che assai
qualche negligenza di elocuzione , e la poca varietà e lo scarso arti-
ficio nella testura dello sciolto, il quale pur nondimeno se a petto a
quello del Caro riesce monotono c languido, lasciasi infinitamente
addietro lo sciolto del Trissino c dell’ Alamanni. Noi non faremo
discorso mollo differente per YAngeleide del Valvasonc, la qual re-
putiamo senza paura d’inganno, una gemma delle più rare e lucenti
del nostro antico Parnaso. E di fermo, a guardare con diligenza,
dopo l’ Ariosto e il Tasso, in qual mai poema del cinquecento trovasi
una maggiore altezza e pellegrinila di pensieri e (come dicesi mo-
dernamente) una più spiccala originalità? Forse che lo stile non
vince di franchezza e di robustezza pressoché tutti i contemporanei?
Certo, il Valvasoneè meno forbito ed armonioso del Tansillo, meno
fluido del Tasso seniore, meno corretto, proprio e limato de’ più
corretti c limati rimatori toscani; ma non per ciò si capisce come
questa minor perfezione di Torma, abbia potuto oscurare nella opi-
nione de’ raccoglitori e de’ critici il gran pregio dell’invenzione.
Che il Milton siasi giovato de\V Angeleide non so, quantunque fra i
dnc poemi si vengan trovando molti e singolari riscontri che non è
facile a credere casuali ; ma questo io so bene che a rispetto della
guerra degli angeli episodicamente introdotta nel Paradiso perduto,
ilValvasone non perde nulla ad esser letto dopo l’Inglese e con
quello essere paragonato ; il che non avviene del sicuro nè per
l' Adamo dell’ Andreini nè per la Strage degl' Innocenti del cavaliere
Marino, due componimenti che dicesi aver suggerito a Milton pa-
rccchj pensieri e T ideal grandezza del suo Lucifero.
§ IX.
Quanto è poi a qualche altra più breve composizione prescelta
da noi ed avuta in pregio contro forse il giudicio de’ passati racco-
glitori , diremo assai volentieri che a noi non par bella quell’ardi-
tezza troppo frequente ne’ moderni scrittori di conlradirc alla sen-
tenza comune; imperocché ciò si compie assai volte per desiderio
di parer singolare e onde si ammiri il senno acutissimo c coraggioso
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X
PREFAZIONE.
del critico. Ma d’altra parte quando la virtù prepotente dell’iniimo
senso nc persuade e nc sforza, c un esame attento, ripetuto ed illu-
minato ne riconduce c conferma nel fatto giudicio, a noi non sem-
bra lodevole l’ostinarsi a deferire o per timidezza o per inopportuna
modestia alla opinione dei più. La quale poi non molto di rado
manlicnsi viva per solo vigore dell’abito e per quella innata pigrizia
degl’ intelletti di recarsi a indagare il vero da sé medesimi. Se per-
tanto in questa Raccolta s’imbatteranno i lettori in alcune rime che
il pubblico non à curate o non tenute per ottime, ciò è proceduto non
da voglia puerile di profferire nuovi e inaspettati giudicj , ma uni-
camente dall’amore di verità e da quell’ufficio gravissimo che sem-
bra incombere agli studiosi di riparare dal canto loro agli oltraggi
e capricci della Fortuna , la quale si mescliia più forse che non si
crede, nella distribuzione della celebrità e nel prospero o sventurato
successo dei libri.
§ X.
Con questi rispetti e considerazioni abbiam noi condotto c ordi-
nato il presente volume, onde sia specchio veritiero benché com-
pendioso della poesia italiana dell’età media-, nel che fare ci siamo
giovati pochissimo del giudicio de’ nostri migliori critici e precet-
tisti; che anzi in leggendoli ordinatamente e secondo i tempi, ci
venne osservato (cosa che per addietro non ben sapevamo) la critica
letteraria incominciata in Italia con Dante essere morta col Tasso e
gli amici suoi; c come cadde con quel mirabile intelletto la nostra
supremazia nel ministero delle Muse, così venne meno la vera filo-
sofia estetica ; e il nuovo dell’arte non fu capito, l’antico fu dalla
pedanteria svisato c agghiadato. L’arte critica antica ebbe ultimi
promulgatoci due grandi ingegni , il Muratori e il Gravina. Della cri-
tica nata dipoi con le nuove speculazioni e con le nuove forme di
poesia, non conosciamo in Italia alcun degno scrittore e rappresen-
talore. Ai tempi del Tasso, l’autorità per certo era di soverchio pre-
valente e le poetiche tiranneggiavano; ma chi ben considera la
sostanza degli scritti polemici del cinquecento e nota quelli segna-
tamente dettali a proposito della Gerusalemme, dee confessare che
appresso de’ letterati mai la notizia de’ classici non fu così vasta e
così famigliare, nò le dottrine grammaticali più affinate c compiute,
nò la filologia greca e latina più profonda c diffusa; c mai nella in-
telligenza e nell’ interpretamenlo degli antichi gran precettori non
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PREFAZIONE.
XI
fu spiegato altrettanto acume, larghezza, erudizione, luce di filo-
sofia, senso squisito d’ogni eleganza.
Nè sembra inutile affatto per risuscitare la buona critica , il porre
d' innanzi agli occhj un volume in cui voltando non molte facce si
possa scorgere e comparare il vario andamento che ebbe in Italia la
volgar poesia dal Boccaccio infino al Varano ed al Cozzi. E perchè
intorno ai pregi di lei, come intorno ai difetti, sono i pareri diffe-
rentissimi nel nostro secolo , mancando per intero la comunanza dei
documenti e del gusto, essendo le tradizioni interrotte c dimenti-
cate, e dominando (massime nella mente de’ giovani) le estetiche
oltramontane, io non so indovinare affatto ciò che i lettori di questo
libro sieno per sentire e per giudicare del suo contenuto. Quindi mi
arbitro di qui esporre in brevi parole il criterio dcGnito ed univer-
sale ch’io n’ò cavato, riconducendo ogni cosa a pochi principj de-
dotti (a quel che mi pare) dalle originali fonti della storia e della
filosofia.
§ XI.
La poesia canta o 1* ampie e l’altre passioni umane, e ciò che versa I
sulla moralità delle nostre opere, ovvero canta le armi e le gesle ,
civili o politiche d’uno o di più eroi , come d’ una o di più nazioni ,
ovvero canta la religione e le cose oltramondanc c celesti. A tali .
subbietti di pocmPè di lirichè*3evesi , per creder mio, aggiunger la
scienza, la quale in mente de’ poeti acquista vaghezza di colori e di
dffìjffi , e con ciò scende dalle cattedre e divicn nudrimcnto e ricrea-
mcnlo del popolo. L’ ingegno poetico , in versificare ciascuno di quei
subbietti, tende a spiegare una novità, un’altezza e una leggiadria
suprema di concetto, di sentimento, di fantasia e di stile. Dove man-
casse l’una di tali eccellenze, l’arte sarebbe diffettosa e quindi in-
crescevole. Di presente noi diciamo che la riunione c composizione
migliore e più nuova di tutte quelle materie trattabili c la sintesi
altresì più perfetta del pensiero, della immaginazione, dell’ affetto c
della elocuzione, è senza contrasto apparita in Dante Alighieri. Ne’ ,
poemi d’Omero, la passione profonda d’amore, ed in generale quel
sentir delicato e molteplice che il progredito incivilimento pro-
muove, è piuttosto in germe ed in facoltà che altramente. In essi del
pari , è deficienza della vita meditativa e interiore, c a lato a molta c
finissima scienza pratica, quella positiva c speculativa dei dotti non
vi si scorge. La fantasia v’è ammiranda, c nell’ Iliade segnatamente
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XII
PREFAZIONE.
fa sbalordire, ma s’avvolge tra cose meno difficili a rivestire di splen-
dide immagini , perche tutte di lor natura son figurale c bello di pri-
mitiva bellezza. ,ln fine lo stile omerico usa per istrumenlo il vaghis-
simo di tutti gl' idiomi c s’adorna della semplicità maestosa de’ tempi
eroici , ma non ancora conosce la metà dei parlili e degli arUiìcj
onde si ottiene la copia la varietà, il numero c l’eleganza.
Dopo CfnICro nessun poeta , per mio giudicio, può alzarsi a compe-
tere con l’ Alighieri, salvo Guglielmo Shakspearo, gloria massima
dell' Inghilterra. E per fermo, ne’ drammi di lui l’animo e la vita
umana vengon ritratti così al vero c scandagliati c disaminali così
nel profondo, che mai noi saranno di più. Ma le condizioni peculiari
della drammatica, c l’ indole propria degl'ingegni settentrionali im-
pedirono a Shakspearo di raggiungere quella perfetta unione di
subbictli c di facoltà onde facciamo discorso. E veramente nelle
composizioni sue la religione si mostra sol di lontano e molto di
rado, e tra le specie diverse e delicatissime d'amore ivi entro signi-
ficate, manca quella eccelsa c spiritualissima di cui si scaldò l’amante
di Beatrice. Il sapere positivo e speculativo similmente vi fa difetto,
e la natura esteriore v’c sì poco descritta quanto poco si lascian di-
stinguere i paesaggi e le architetture nel fondo de’ quadri storiati.
In fine, la elocuzione che sempre è viva e spontanea c insuperabile
sempre di proprietà c d’energia, diviene alcune volte negletta c pro-
saica nè va esente dai falsi tropi c dalle scurrilità.
Nel tutto insieme poi de’ drammi shakspiriani desiderasi quel cor-
retto c finito, quella proporzione c armonia, quella sobrietà c scel-
tezza conlinua, che solo al Genio d’ alcuni popoli meridionali è dato
sentire ed effettuare con piena felicità.
§ XII.
Toccato un poco dei subbietti della poesia , e numerate le qualità
c le doti che principalmente le si appartengono, seguita il conside-
rare la persona medesima del poeta, le condizioni c lo stato della
sua mente c le attinenze di lui con la ragione dei tempi , della civiltà
e del popolo in mezzo a cui vive ; le quali cose noteremo singolar-
mente ne’ lor gradi supremi c nelle intime opposizioni. Conciossia-
cbè il miracolo della poesia consiste principalmente nell’ esercitare
insieme quelle virtù dell’ingegno che sembrano in discordanza o in
confiitlazione, c nell' esercitarle altresì con intensione massima
d’energia.
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PREFAZIONE.
XIII
Diciamo adunque che talvolta il poeta è dall’ispirazione allacciato
e padroneggiato sì forte, da non saper bene sottomettersi all’arte ed
alla meditazione. Da simile sovrabbondanza d’ istinto e scarsità di
riflessione e di scienza, derivano i canti primitivi delle nazioni nei
quali è tanta rozzezza, negligenza c imperizia, quanta inimitabile
semplicità, efficacia e caldezza. Altre volte, e molto più tardi assai
di quelle età iniziatrici ed eroiche, il troppo incivilirsi dei po-
poli aumentando di soverchio l’osservazione e la critica c aflinan-
dovisi l’ arte ogni giorno di più , per effetto medesimo dell’ eser-
cizio c dell’ esperienza e per desiderio di novità, mena il poeta a
scordar forse troppo l’aurea semplicità degli antichi , il sincero
aspetto della natura e i veri e spontanei moli dell’animo. Queste
differenze chi ben le guarda e chi le assume in gradi e aspetti di-
versi , fanno superiore e inferiore ad un tempo Virgilio ad Omero , e
sovrappongono poi ambidue agli epici lutti della media grecità e
latinità. 11 prodigio dell'umano ingegno consiste, senza dubbio, a
tener il mezzo di tali due termini, o a dir più chiaro, consiste a
mantener viva la fiamma pura e spontanea delle antiche ispirazioni ,
e aggiungere a ciò tutto il meglio che inducono dentro il cuore e
dentro i pensieri , la riflessione e speculazione , la critica c l’arte, il
sapere , l’uso e l’esperienza ollremodo cresciuti , l'istruzione c i me-
todi propagati cd assottigliati. Ora, Dante, al mio giudicare, acco-
sta e concilia per appunto in maniera portentosa cotali estremi ; ed
egli è il sommo poeta (come direbbero i metafisici) intuitivo e rifles-
sivo. Ancora, su questo doppio carattere dell’ intuizione e della ri-
flessione , egli è da notare che l’una esprime più volonlieri la natura
universale e comune, c l’altra invece la propria e individuale.
Quando un popolo intero si fa poeta, e ciò è a dire, quando in lui
signoreggiano profonde e comuni credenze cd affetti, in guisa ch’ei
si raccoglie con lo spirito e vivesi tutto o nelle rammemoranze glo-
riose della sua storia o nelle speranze e promesse magnifiche del-
l’avvenire, colui il quale si consacra peculiarmente alle Muse non è
più quivi clic un interprete e un banditore delle ispirazioni comuni ,
e sostiene officio simile a quel degli araldi che in nome e con le pa-
role di lutti favellano ; se non che il poeta trova più felice , più calda
e meglio ornala significazione di ciò che il popolo intero pensa ,
ricorda e desidera. Quando per lo contrario non v’è più vera citta-
dinanza, e le opinioni e gli affetti comuni son dileguati in gran
parte, e ad essi succedono a grado a grado sentimenti e cogitazioni
I
I
XIV
PREFAZIONE.
0 affatto particolari c proprie o d’ una porzione soltanto di popolo ,
e che nientedimeno la coltura dell' intelletto c dell'arte non cade ma
ai propaga e si riforbisce ; allora sorge una poesia o troppo indivi-
duale e affatto fantastica, o troppo boriosa e accademica, ignota e
inaccessibile al volgo, più elegante che passionata, più dotta ed
arguta, ebe vasta, efficace ed originale. Dopo ciò, egli divien mani-
festo che quella mente fortunata, la qual sa ritrarre ed anzi scolpire
1 pensieri varj, gl’ istinti c le passioni speciali del secol suo, e ri-
flette come specchio lucente l’indole e le istituzioni tutte quante
della vita sociale e politica di cui partecipa, quella mente, io dico,
alla quale avviene per tutto questo di dilettare e commovere cosi
bene il volgo come i patrizj , i dotti come gl’ illetterati , e che cio-
nondimeno imprime in ciascuna pagina il suggello dell'animo pro-
prio e i concetti , le opinioni e lo dottrine sue personali , a segno che
il poetare di lei risplcnda d’una novità nè prima nè dopo uguagliata,
cotal mente sovrana raggiunge del sicuro l’ ultima perfezione della
poetica, e l’arte sua similissima alla natura, offre a un tempo me-
desimo la suprema bellezza individuale ed universale. E qui pure io
non m’ imbatto in altro divino ingegno in cui si ravvisi attuata la
grande eccellenza di cui parliamo , eccetto Dante Alighieri. Da ul-
timo accade soventi volte che all’animo del poeta non sia tutta pre-
sente la solennità e importanza del suo magistero e dei fini morali e
civili a cui dee voltarlo. Ma colui per lo certo accostasi in ciò alla
perfezione dell’arte, il qual sente di lei cosi intera la dignità, l’al-
tezza, la proficuità c la morale bellezza che la fa istrumento efficace
di educazione pubblica e veicolo di sapienza; c tanto vuol con esso
> istruire quanto dilettare, c chiama sè stesso sacerdote del vero e
della rettitudine, e canta quasi profeta per mezzo al popolo c tra-
manda alle più lontane generazioni la fiamma de’ suoi magnanimi
affetti e la luce de' suoi apotegmi. E qui di nuovo a chi mai può
tornar difficile il confessare che Dante abbia a rispetto di ciò supe-
rato tutti i poeti del mondo ?
S XIII.
A raccogliere la sostanza del fin qui detto, noi primamente con-
cluderemo che il compiuto e l’ottimo della poesia consisto in rac-
chiudere dentro ai poemi con vaga e proporzionata unità di compo-
sizione tutto quanto il visibile ed il pensabile umano perciò che in
ambedue è più bello e più commovente ; e consiste inoltre a ritrarre
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PREFAZIONE. XV
cotesto subbietto amplissimo c universale con la maggiore novità e
la maggior leggiadria di concepimento, di fantasia, d'affetto e d’elo-
cuzione che possa mai conseguirsi. Il concepimento così nel com-
plesso come nelle sentenze particolari, dee riuscir sostanzioso ed
inaspettato e pieno di recondita dottrina e saggezza; 1’affelto dee
correre, quanto è possibile, per tutti i gradi e le differenze, e toc-
care il sommo della tenerezza e compassione e il sommo della terri-
bilità. Dee l'immaginazione abbracciare lo spirituale e il corporeo,
il mondano e il sopramoudano , talché in compagnia (IcTTaffello e
con la scienza della vita e della natura, descriva e rappresenti le
| meraviglie esteriori, i secreti dell’ animo e le visioni della Fede. In
fine tulli tre insieme, il concepimento, l’immaginazione e l’ affetto
debbono far consuonare la massima idealità con la massima concre-
tezza, onde ogni cosa peculiare riveli per virtù di poesia uno splen-
dido universale e sia al tempo medesimo un ritratto c un archetipo.
Noi fermammo dopo di ciò che ad attingere tal perfezione era
spedicnle sortire un abito d’ intelligenza sì privilegiato c divino da
poter collegare con una intuizione arcana e vivissima la meditazione
e la scienza, c con la impetuosità e caldezza dell’estro, il freddo e
squisito finimento dell’arte. Di costa poi alla descrizione ed enume-
razione di queste doti e attributi , a noi fu lecito di pronunziare che
tulle appaiono impresse c tutte operanti nella Divina Commedia
meglio che in qualunque altro poema, e la quale è però da conside-
rarsi come il più alto prototipo dell’eccellenza poetica, qualora vo-
glia la meute dall’astrazione scendere al fatto e considerar nel con-
creto quel massimo accostamento all’ idea che sino a qui son riuscite
di adempiere le Lettere umane. Noi fermammo eziandio che debbo il
sommo poeta parlare ai cuore cali’ intelletto d’ ogni ragion di lettori,
e farsi specchio tersissimo del comune sentire, c serbare ciò nondi-
meno ben rilevata e ben contornata la effìgie del proprio animo e
della propria natura. In fine ricercasi dall’ ottimo poeta che piena-
mente concepisca la grandezza e magnificenza degli ufficj e de’ fini
suoi, e che a questi venga di continuo concordala e proporzionala
la scelta materia.
§ XIV.
Con la scorta di tali considerazioni e la vista di tal modello a noi
basterà, perchè si colga la ragion poetica vera dell’età media ita-
liana, il venire accennando per ordine, prima le tendenze morali e
c
MI
PREFAZIONE.
civili, c le condizioni qualitative de’ tempi ; appresso , l’ elezione dei
subbietti e il carattere mentale degli scrittori. Ogni rimanente sari»
supplito dalla perspicacia ed erudizione dei leggitori, i quali reche-
ranno pure agevolmente ai principj medesimi le osservazioni e i
giudicj espressi da noi nell'antcrior parte di questo discorso.
§ XV.
Nello spegnersi del secolo xr, quando le Lettere e la poesia volgare
incominciarono a risorgere e rifiorire, un elemento vi si accoppiò
non nuovo ma notabilmente cresciuto, e ciò fu lo studio e l’amore
grande della classica erudizione, e un ossequio e un’ammirazione
forse soverchia per gli scrittori greci c latini. Ma si badi , ebe guar-
dandosi al tutto insieme della volgar poesia , dal primo comparir
suo nella corte di Federico, a questi nostri presenti giorni, ci si
vedrà manifesto che il culto degl’ Italiani inverso le Lettere greche c
latine fu , di rado assai , intermesso , c sempre fra noi è stato a gran
pezza più fervoroso, più tenace e più famigliare che appresso qua-
lunque altro popolo; non rinasce adunque c non prospera esso in
Italia per malta superstizione o per cagioni transitorie ed acciden-
tali, ma conserva e profonda le ultime sue radici nel sentir proprio
c costitutivo della mente c dell’animo nostro. Tal cullo à fatto in-
fra l’altre cose che, a rispetto dell’ eleganza c dell* nMfIÌÌtir]]f>i mai non
siamo stati dalle nazioni moderne, non che superati, manemmanco
raggiunti; e pure in questi ultimi tempi in cui la poesia inglese c
tedesca sembra soverchiare la nostra, per novità e veemenza di
pensamenti e di alletti , nella sola Italia è tuttora ricoverato il per-
fetto buon gusto c il senso delicatissimo della greca venustà; c quivi
ancora qualche dettator fortunato procaccia d’intingere la sua penna
nell’oro di Virgilio. Nò già per questo vogliam negare che più d’una
volta lo studio c la imitazione dei capolavori antichi , non abbiano
ne’ nostri scemato novità e spontaneità, involte le lor fantasie nelle
viete immagini mitologiche ; dato allo stile freddezza ed affettazione.
Solo desideriamo che si rifletta gli studj classici (come suolsioggi
domandarli) essere stali a ciò più presto occasione e concomitauza
di quello, clic cagione prossima ed efficiente. Mai la notizia e medi-
tazione dell’eccellenza antica nona nociuto agl’ingegni veramente
grandi in secolo pur grande c animoso. Dante non mandava egli
alla memoria lutto Virgilio , c noi chiamava dottore e maestro suo?
Chi più versato nella latinità del Petrarca, che di quella fu primo c
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D
PREFAZIONE. XVII
solenne ristoratore? Di Lettere greche e latine si nudri il Buccaefiio
fin da fanciullo, e in compagnia d’esse compiè la vita; le quali cose
non impedirono che Dante, in ogni suo scritto, e il Petrarca nel
Canzoniere e ne* Trionfi, e il Boccaccio nel Novelliere, nella Fiam-
metta, nel Corbaccio c in qualcun’ altra prosa non sien riusciti ori-
ginalissimi. Quelli pertanto i quali osan dire che la illustrazione c
scoperta di molti volumi antichi succeduta nel secolo xv, c l'ardore
vivissimo recato allora nella filologia greca e latina, tornò in somma
sventura per lo svolgimento libero ed originale delle Lettere nostre
volgari, scambiano troppo le cagioni apparenti c fortuite con le
reali ed intrinseche. Di fatto, egli 6 da ricordare che ne’ tempi me-
desimi di Lorenzo de’ Medici , due impulsi ricevette la poesia ita-
liana, e per due strade efiverse prese cammino; l'una fulle aperta
dal Poliziano , l’altra dal bizzarro ingegno del Pulci. Ora, in costui
non trovasi egli somma novità e franchezza di poetare e tanto spirilo
di rivolta contra tutti i documenti dei rettori antichi, quanto il suo
Uargutle ne mostra con tra le cose piu sante? E quella serie lunghis-
sima di poemi cavallereschi che dal Ciriffo Calvaneo scende giù fino
al Ricciardetto, non si scosta pur tutta nella sostanza e nelle forme
dal poetar greco e latino? Nel Furioso medesimo quanti sono i
luoghi dove l’ Ariosto apertamente imita e copiagli antichi? Non
son molti del sicuro , e non tali giammai che tolgano a quel poema
il pieno carattere di novità e noi facciano differentissimo dalla poe-
sia classica. Ciò nondimeno , perchè ai tempi del Pulci il gran moto
repubblicano rallentavasi da ogni banda, e gl' intelletti più culti e
più ardili cessavano dall' infiammarsi dei sentimenti e delle passioni
comuni ; però accadde che il Pulci impresse nella volgar poesia un
carattere, nuovo bensì, ma troppo diverso da quello clic abbiain
notato nell’ Alighieri. Ben si vede da ogni pagina del Morgante che
il Pulci è poeta di corte e fa dell’arte sua un nobile ed elegante
trastullo. Egli ricrea le scelte brigate fiorentine con le avventure ca-
valleresche, e a quelle anime voluttuose ed argute, c spoglie oggimai
delle credenze c passioni gagliarde dei padri , egli sa soddisfare con
la sottile ironia e la beffa leggiadra c dissimulala; c mentre il comune
interesse e la dignità delle plebi s’ affievolisce, egli compiace allo
spirito individuale de’patrizj e de’ doviziosi mercatanti, i quali scor-
dando quasi la patria espregiando la modestia del vivere repubblicano,
avvisavano nei casi de’ paladini quel che possa l’audacia, la forza e
J’ accorgimento d’un uomo per giungere alla potenza e al dominio.
XVIII
PREFAZIONE.
§ XVI.
D'altra parto, il Poliziano nelle ottave della Giostra incominciò
un verseggiare raffinatissimo, c quasi a dire , aristocratico e signo-
rile; tutto impregnalo di latino e di greco, anzi greco e latiuo
espresso in eleganti voci italiane; il quale più non è accostevole al
popolo , e vive d’arte e d’ingegno più assai che d’inspirazione. Vede
ognuno pel semplice paragone dei fatti , quanto mai dissomiglino in
fra di loro i versi del Poliziano o quelli del Pulci ; c solo in ciò si
raffrontano che per ambedue la poesia dantesca sì grande, sì ma-
schia, sì nazionale, è tenuta in disparte.
§ XVII.
Nella stessa corte de’ Medici , ed anzi nelle rime stesse di Lorenzo
il Magnifico, rinacque il petrarcheggiare , genere di poesia che, de-
rivato in parte dai Provenzali, fecesi proprio d'Italia, e durovvi , si
può dire, per cinque secoli; conciossiachò ad Eustachio Manfredi,
ben si compete il nome e la lode di ottimo petrarchista. E però le
Muse vereconde e soavi , ma stanche cd esauste degli amanti pla-
tonici, mandarono in sul finire il canto del cigno , dettando a quel
gentil Bolognese la immortale canzone ; Donna, negli occhi vostri.
Certo in tal foggia di poetare riapparsa nel cadere del quattrocento
in compagnia dell’ altre da noi ricordate , la imitazione divenne più
ancor manifesta c servile , e (come gli accade pur sempre) andò co-
piando il peggiore; nè studiossi di ricalcare eziandio in ciò le orme
dantesche, e partecipare a quella passione ingenua quanto profonda,
e a quel candore e a quella semplicità efficace di stile che adorna di
grazia ineffabile tulio quanto il Canzoniere del gran Ghibellino. Ma
qui pur noteremo che simile imitazione non procedò per nulla dal
soverchio amore dell’ antichi là e dal troppo sfogliare greci c latini
volumi ; bensì ebbe luogo c si dilatò per difetto ( di poi sempre cre-
sciuto) d'un’alta poesia comune cd intuitiva. E ncmmanco è da
credere che il gir sonettando alla petrarchesca sia tanto durato in
Italia, e tanto siasi divulgato per cagioni accidentaric, o per sola
povertà d’ingegno e aridezza di vena. Il cuore tra noi sente assai di
leggieri la voglia impaziente di significare in versi gli affetti gentili
ond’ è mosso ; e per quale anima non passò più o meno intensivo il
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PREFAZIONE.
XIX
gentil fuoco d’amore? e nello spegnersi della vita civile, e nel cre-
scere da ogni banda l'ozio lascivo dei ricchi e dei culli , la galan-
teria non fu rassegnata forse tra le nostre precipue occupazioni ?
D’altra parte quel mantello e quei veli che dal Petrarca ricevè in ,
dono l’Amore, il quale s’aggirava tutto nudo fra i Greci , diè a cia-
scuno facoltà di pubblicamente parlare de’ proprj a fletti salvo il pu- 1
dorè, la convenienza e la dignità; ed anzi procacciando alle amate
donne bella e incolpevole fama. Oltre a ciò , quel platonizzare del
Petrarca confacevasi molto bene con l’altra condizione essenziale e
qualitativa della mente italiana, che è di cercare in qualunque cosa
la bellezza squisita e non qual s’incontra comunemente, o si può
immaginare da ingegni materiali e bizzarri, ma qual dee risultare
dalla perfezione, c comporre un modo eccelso di leggiadria che
segni l’ultimo termine dell'idealità, e però conduca il pensiero per
lo mondo invisibile degli archetipi , e svegli nel cuore le più sublimi
aspirazioni ond' esso è capace. La qual tendenza degl'italiani com-
parisce dispiegata e manifestissima in tutte le arti , crea la maggior
meraviglia delle tavole di Michelangelo e di Raffaello , c a noi con-
serva, pure in questi nostri miseri tempi (sia qui notato per inci-
dente), il privilegio della scoltura, come d’ un’arte solenne che di
necessità porla seco sceltezza c nobiltà tragrande e perfetta di con-
cepimento e di forma.
§ XVIII.
In quello scorcio adunque di secolo tre maniere distinte di poetare
vennero iniziate o rifatte, e furono la romanzesca del Pulci , la clas-
sica del Poliziano e la petrarchesca; e di queste in principal modo I t
si rivesti la susseguente letteratura , eccetto alcune nuove specie di
lirica delle quali farem parola più avanti. Per vero , alcuni altri com-
ponimenti furono dettali in quella rinascenza medicea che raddur
non si possono nè al genere petrarchesco , nè al classico , nè al ro-
manzesco , come certe ballate e canzoni pastorali , come la Beca del
Pulci e la Nencia del Magnifico, e alcuni Rispetti e pochi altri simili
scherzi ed amenità che erano pure le bellissime creazioni e gemme
vere del nostro Parnaso, vaghi fiori d’ ingegno pieni di verità e sem-
plicità, pieni di greca fragranza e di popolari concetti e passioni.
Q nitidi beata la nostra letteratura , se quei fare naturale , affettuoso
«splendido, tanto di evidenza e di grazia natia, fosse stato introdotto
in materie più vaste e più nobili !
— ■*■— — DigifeecfTfy Google
XX
PREFAZIONE.
S XIX.
Ma ripigliando il breve confronto impreso da noi tra i poeti volgari
deH’clà media e il prototipo sublime dell’arte che ci fornisce la Di-
vina Commedia, noi non esiteremo a dire che la poesia dantesca
tentò di risorgere in parte col Tasso, e propriamente a rispetto della
gravila c solennità dei pensieri e dei documenti, e per quell’ufficio
suo d’esprimere c invigorire le comuni aspirazioni e gli alleiti eroici
d’ un’ età e d’una nazione, e di toccare i fini più alti e più profitte-
voli dcH’epopeia, e insomma riuscire in tutto una poesia civile , re-
ligiosa e sapiente. A niuno è nascosto che da Paolo IV in poi , la
Religione vesti in Italia un abito di severità e un rigor di dottrine,
tanLo più stretto e geloso, quanto l’eresia cresceva all’intorno in
Europa e radicavasi forte in Germania , in Inghilterra , in Isvizzcra e
in altre regioni settentrionali. Nè già debbe credersi che in quel
torno di tempo l’ortodossia cattolica non acquistasse veramente
maggiore intensione di fede e di sentimento nella parte più pia e
meno infralita degl’ Italiani. A questi doleva eziandio assaissimo ve-
der declinare ogni giorno la forza e l’autorità teocratica , della quale
stando la sede e lo splendor principale appresso di noi , tutta la pa-
tria comune riscuotevano lustro e potenza ; e maggiormente parea
necessario di conservare c consolidare quel principio d’ autorità, in
quanto che in Italia tutte le altre vie di potere c di predominio si
dileguavano. Col desiderio poi di ritirare inverso alle origini sue il
papato , procedevano di pari passo altri sentimenti c principj , dai
quali si procacciava di fieramente resistere ad ogni spirito d'innova-
zione e rimettere in fiore antiche opinioni e istituti. E come le demo-
crazie in Italia erano tutte crollate e solo perduravano le aristocrazie,
e i baroni moltiplicavano; così entrò nel cuore di molli il pensiere
che alle plebi dovea stringersi forte il freno c ogni cosa dovea spe-
rarsi dalla saggezza degli ottimati e dei principi. Oltre a ciò, nel co-
mune pericolo s’ erano, come ognun sa, concordati alla meglio
l’imperatore c il pontefice; del che era nato che mentre in Italia
spegnevasi di più in più il vigor popolare e le franchigie repubbli-
cane , sembravano crescere per lo contrario e spander radice i privi-
legi feudali e una specie ambigua di cavalleria principesca e corti-
giana. L’autorità poi che sforzavasi di risorgere da tutte parti e
soffocare le novità temerarie, tiranneggiava non pur la scienza sulle
cattedre, ma eziandio l’arte nelle accademie, curvandola sotto il
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PREFAZIONE.
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peso delle teoriche e dei precetti ; e il cullo inverso i capolavori an-
tichi tanto più s'accostava a superstizione , quanto l'Italia nel suo
rapido declinare tenea più preziose e più venerande le ricordanze
del suo passato.
Di tali tutte cose fu rappresentalore fedele il Tasso, anima pia e
generosa, ma in cui (non so dir come) nulla v’era di popolare.
Quindi egli s’infervorò della maestà teocratica dei pontefici e aderì
alla nuova cavalleria cortigiana e feudale; quindi pure accettò coi'
zelo e con osservanza scrupolosa l’ortodossia cattolica, e nella vita
intellettuale come nella civile, fu dall’autorità dei metodi e degli
esempi signoreggialo. Da ciò prese nud ri mento e moto il divino
estro suo e uscirono le maraviglie della Gerusalemme . Pieno ancora
la fantasia della battaglia di Lepanto , e sperando che un’ altro Marco
Antonio Colonna rinnovasse con più ragione quel simulacro degli
antichi trionfi che poco innanzi avea rallegrate le vie di Roma, dettò
quel poema non senza fiducia di persuadere i principi della cristia-
nità a desistere dalle loro discordie e ripetere con più senno e virtù
le gesta eroiche delle crociate ; adempiendo ogni cosa sotto il gran
patrocinio del padre e pastore comune dei popoli , benedicente in
Valicano alle sacre bandiere. Ancora confidavasi d’innamorare e
principi e gentiluomini di quei costumi cavallereschi e magnanimi ,
de’ quali fin dall' infanzia s’era venuto componendo in mente una
norma e un idolo così difforme dal vero come pien di vaghezza e
d’appariscenza , ed a cui pretendeva di dar fondamento scientifico
con un misto di dottrine platoniche e aristoteliche, come da più
d’uno de’ dialoghi suoi si raccoglie. Insomma, a’ dì nostri, in cui
abbonda più la invenzione dei nomi che delle cose, verrebbe in
Francia ed in Inghilterra denominato gran poeta conservatore.
§ XX.
Nel Tasso poi sono tutti i pregi c tutta quanta la luce e magnifi-
cenza della poesia classica, e spiccano altresì in lui alcuni attributi
speciali del genio italiano in ordine al bello. In perpetuo si ammirerà
nella Liberata ciò che l’ arte , i precetti e la dottrina possono fare ,
ajutati e avvivali da una stupenda natura poetica. Quivi toccò il
sommo eziandio quel maestoso decoro e quella sceltezza e nobiltà di
composizione e di forma propria degl’ Italiani , più forse ancora che
J de’ Greci medesimi , e la quale può riputarsi che in noi proceda per
abito e per tradizione della grandezza romana, e per quel severo ed
e..
PREFAZIONE.
XXII
illustre di concetti e di sentimenti che nelle scuole di Pittagora trova
i principj suoi remotissimi. Ugualmente nel Tasso à piena sod-
disfazione quel desiderio continuo dell'ingegno italiano che nel-
l’ opere d’arte apparisca da ogni lato e in qualunque cosa l’unità e
l'armonia , la convenienza c la forbitezza. Ma d'altra parte non è nei
poemi suoi la novità e la creazione altissima della Divina^Cammedia,
non la energia tanto semplice quanto vera e terribile degli alletti e
del lor linguaggio , non la concisa evidenza delle descrizioni che fa
dello stile dantesco una perpetua scultura e cesellatura. Mancavi
1 ; similmente quella continua contemperanza del reale con l’ideale, e
del proprio e individuo col comune ed universsd& Ma l’amore so-
verchio dello scelto e dello squisito, la obbedienza non sempre legit-
tima alle prescrizioni dei retori, il comporre freddo e compassato,
e con in mente modelli troppo discosti dalla natura e per troppa
dignità c magnificenza uniformi , comincialo aveano a predominare
in Italia pure innanzi del Tasso , e venivano ammanierando eziandio
le scuole di Raffaello e di Michelangelo. Sotto quelle esagerazioni e
quei pesi affogò la drammatica, e si falsificò in buona parte il teatro
stesso pastorale ove fin da prima comparve gran novità o gran leg-
giadria , ma tutta fondala sopra l’ idea di tempi e di uomini che mai
non furono, e a cui le volgari opinioni negando fede, toglievano
verosimiglianza. Dai pastori di Virgilio già troppo azzimati, ebbero
nascimento quelli di Sanazzaro, c tutta la bucolica nostra italiana,
se tu n’eccettui il Baldi, fu elegante, ma fattizia; c del certo non
meritava che gli stranieri , massime gli Spagnuoli , si sbracciassero
ad imitarla.
§ XXI.
Dicemmo che allato alla scuola latinizzante e accademica del Po-
liziano e del Sanazzaro , aprissi quella del Pulci , tutta libertà e
scioltezza; c da lui cominciò la serie de’ poeti romanzeschi, i quali
attingendo ai racconti c alle tradizioni straniere , e trattando materie
alienissime dalle storie e dai costumi italiani, seppero ciò nondi-
meno, per sola virtù d’ingegno, produrre poemi invidiabili a quelle
nazioni nel cui seno la cavalleria era sorta e fiorita. Ma se in costoro
move gran maraviglia la somma bravura e 4’ inesauribile fecondità
della fantasia, dall’altra parte, come notammo, sono da deplorare
■ le poco gravi e civili tendenze dell’arte, le quali, più si procede
oltre nei tempi, e più lasciansi riconoscere, talché infine c’imbat-
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PREFAZIONE. XXIII
tiamo nel Ricciardetto, ove la Musa non vuole altro fare che ridere
e piacevolmente burlarsi degli uomini e forse anche un poco del
Cielo. Splende fra essi come gran Sole l’ Ariosto, se forse non è da
dire che egli non appartiene ad alcuna scuola ed è unico piuttosto
che primo. Ma paragonando il Furioso all’ idea dell' ottima poesia qui
sopra delineata e di cui dicemmo essere Dante un ritratto maravi-
gfiosamente condotto e il più prossimo all’ originale, a noi sembra
di poter sentenziare che ritraendo l’occhio dai fini solenni e sapienti
dell’arte, c divisando in essa non più che l’intento immediato di
mover diletto ed esprimere ogni ragione di bello , quel poema cele-
bratissimo s'accosta meglio di tutte l’altre composizioni italiane ai
pregi della Divina Commedia. Se non che, l’ Ariosto significò la
commedia umana quale la veggiamo rappresentarsi nel mondo, lad-
dove Dante fece primo subbietlo suo il sopramondano , e in esso
figurò e simboleggiò le cose terrene. E come il gran Fiorentino nelle
fogge variatissime de’ tormenti e delle espiazioni dipinse i variatis-
simi aspetti delle indoli e delle passioni , il simile adempiva l’ Ariosto
sotto il velo dei portenti magici e delle strane avventure. Ma certo
qual narrazione di fatti umani riuscirà più vasta, più immaginosa e
più moltiforme di quella dell’ Orlando furioso? Quivi sono guerre
tra più nazioni, nascimenti e ruine di molti regni, conflitto sangui-
noso di religione e di culto, infinita diversità c singolarità di co-
stumi, e tutto il Ponente e il Levante per larga scena e strepitoso
teatro di colali imprese e catastrofi. Quivi sono dipinte la vita pri-
vata e la pubblica, le corti e le capanne, i castelli ed i romitaggi ;
quivi s'intrecciano gradevolmente la cronica , la novella e la storia ,
e ciò che il dramma à di patetico, l’epopeia di maestoso, il ro-
manzo di fantastico. Però io credo veramente che sieno pochi gli
aspetti e gli accidenti dell’eslerior natura, poche le colleganze c
gl’inviluppi dei casi , poche infine le differenze e le tempre dei ca-
ratteri e degli appetiti che nel Furioso non abbian luogo , c tutte con
tnagislerio insigne ed inarrivabile vi vengou ritratte. Quivi è pure
la evidenza, la sicurezza c la incantevole flessibilità del pennello
dantesco e quella intuizione immediata e lucente della verità e bel-
lezza di tutte le cose che dalla inspirazione si origina e qualifica
peculiarmente il sommo poeta. Quivi per ultimo è quella difficile
significazione dell’ universale e comune nel particolare e nel proprio,
sicché in ogni personaggio ariostesco appare ben definita e spiccata
una forma esemplare e una speciale e vivente individualità ; e mentre
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XXIV
PREFAZIONE.
il sopranalurale i raccende di tanto la realità e ai spazia in un infinito
fantastico , il complesso degli accidenti e il parlare e operare degli
uomini procede con tale verità e naturalezza che fa verisimile l’im-
possibile. Ma nella Divina Commedia la intuizione si mesebia in
guisa stupenda con la più viva coscienza di sé medesima e con la
profonda e incessante meditazione. Del pari , nella Divina Commedia
con la rappresentazione, può dirsi, di tutto il crealo e con la imma-
gine fedele del secolo e della civiltà in mezzo a cui fu dettata , sem-
pre vi si scorge l' orma c lo stampo , a cosi domandarlo , dell’ animo
e del genio dantesco, e tutta la persona del gran Ghibellino vi sta
improntata. Nel Furioso, la fantasia par sottomettere a se ogni cosa
e, come avviene singolarmente appresso di -Omero, l’arte vi giace
nascosta, e , a volte, piglia l'aspetto della negligenza e della srego^
lajezia; c similmente, la persona e il carattere del poeta rimanvi
occulto e ignorato , salvo che un poco il rivelano le narrazioni e
descrizioni non sempre caste , e quel leggier sorriso e quella blanda
ironia che per tutto il poema si sparge e vince in grazia e in dissimu-
lazione il cantor del Morgan te.
§ XXII.
Non credo che in veruna straniera letteratura possa come nella
nostra volgare annoverarsi una sequela così sterminata di poemi
eroici e di romanzeschi , parecchj de’ quali brillerebbero di gran
luce, ove fossero soli e non li soverchiasse la troppa chiarezza di
Dante, dell’ Ariosto e del Tasso. Nè reputo presuntuoso il dire che
per esempio la Croce racquietata del Brecciolini o il Conquisto di
fìranata di Girolamo Graziani , sostengono bene assai il paragone o
con l’ Araucana dell’ Ercilla o coi medesimi Lusiadi ai quali anno
accresciuta non poca fama le sventure e le virtù del poeta; e per
simile, io giudico che l 'Amadigi del Tasso il vecchio o 1’ Orlando
innamorato del Berni, non temono di gareggiare con la Regina Fata
di Spenser e con quanto di meglio in tal genere ànno prodotto
l' altre nazioni. Ma non è da tacere che in quasi lutti questi nostri
poemi riconoscesi agevolmente o l’uno o l’altro dei tipi che nel
Furioso e nella Gerusalemme ricevettero perfezione , od a cui poca
giunta di novità e poche profonde mutazioni si fecero dagl’ingegni
posteriori ; c ne’ poemi eroici singolarmente a niuno è riuscito di ben
cansare i difetti del Tasso, molli in quel cambio li esagerarono.
I>eesi peraltro sceverare da tutti essi il Trissino , al quale molti anni
PRKFAZIONE. XXV
avanli del cantore di Goffredo, venne desiderio di schiudere agl’ita-
liani la via illustre e regia dell’epopea, c trattar materie più conve-
nienti alla dignità e sapienza delle Muse. Fu il Trissùytjngegno
austero c animoso, ma freddo ed inelegante, e cosi alla cicca passio-
nato della semplicità e maestà omerica da non ravvisare che i carat-
teri della poesia primitiva sono in qualunque altro tempo inimitabili
affali", e clic gli uomini e i casi da Omero descritti toccavano il
sovraumano e il divino, dove quelli descritti nella Italia liberata
non d'altro sentivano che d’una civiltà tutta guasta ed intenebrata.
Nè la scelta medesima del subbictto fu secondo ch’egli pensava,
molto italiana e molto civile; c piacendogli ad ogni modo di poetare
della liberazione d’Italia, come a lui Vicentino non venne in me-
moria la lega lombarda? Ma già colai tema (quale ne sia stata mai
la cagione) a niun poeta illustre italiano affacciossi al pensiero nè
prima nè dopo il Trissino e il Tasso , e solo ne’ volumi del Muratori
incontrasi qualche antico verseggiatore che ne cantò rozzamente e
con depravato latino ; tanto poco gli affetti ed i pensamenti nostri
attuali somigliano a quelli de’ nostri avi.
§ XXIII.
Dal Tasso in poi le sorti d’Italia ruinarono ancor maggiormente,
0 a pai-lare più esalto, col processo del tempo la piaga del comune ser-
vaggio sentir faccvasi più profonda e inguaribile, c T universale stem-
peramento degli animi palesavasi di più in più nel tenore del vivere
e nella novità dei costumi. Ogni grande c generoso affetto era muto, e
1 popoli procacciavano di ripararsi da tutte specie di tirannidi, ineb-
riandosi di piaceri e brigando e bamboleggiando tra frivole occu-
pazioni di teatri , di giostre, di novcndali , di paramenti e di pompe.
E ciò non pertanto è così scolpila e naturala negl’italiani la forma
del bello e così continuo il desiderio di imitarlo c d’ esprimerlo, che
l’arte non si estingueva, ma bene si corrompeva. L’ immoderata
fantasia suppliva ai fiacchi pensieri; l’ affettazione c la bizzarria, al-
l’ingenua c subita ispirazione, l’abbondanza lutulenta c verbosa,
all’antica sobrietà, i colori vistosi ed il liscio, alli schietti e parchi
ornamenti del vero. Ognuno à in mente che caposchiera e maestro
di tal sorta di poetare fu principalmente il Stango? al quale peraltro
non è da imputare colpa maggiore che dell’ aver lusingato e secon-
dato più che troppo il suo secolo ; e a dir più giusto, egli riuscì per
appunto strepitosamente grande e famoso, perch’ebbe natura con-
XXVI
PREFAZIONE.
venientissima a quella specie di tempi e di gusto ; conciossiachè si
avvera nella letteratura il medesimo che Macchiavello viene inse-
gnando a rispetto della poliiica. Scusabile mi si fa il Marino, e scu-
sabili gl’italiani, quand’io considero lo stato di lor nazione sotto
il crudele dominio degli Spagnuoli , e fieramente mi sdegno con
questi medesimi che nella patria lo'-o ancor sì potente e sì fortunata,
plaudivano a que’ delirj e incensavano il Congora, meno ingegnoso
assai del Marino e di lui più strano e affettato. In fine gioverà il
-ricordare che all’Italia serva, scaduta c dilapidala, rimaneva pur
tanto ancora di prevalenza iutcllcttualc appresso l’allrc nazioni, che
de’ trionfi più insigni e delle lodi più sperticate del cavalier Marino
furono autori i Francesi, e per lungo tempo assai nessuno de’ lor
poeti seppe al tutto purgarsi della letteraria corruzione venuta d’ oltre
Alpe; testimonio lo stesso Cornelio, alto e robustissimo ingegno, ma
nel cui stile nondimeno avria dovuto il Boileau ritrovare assai spesso
di quel medesimo talco del quale parcvangli luccicare i versi del
Tasso.
§ XXIV.
Dal Marino incominciò a propagarsi nel mondo una poesia fan-
tastica e meramente coloritrice la quale cerca l’arte solo per l’arte,
Tassi specchio indifferente al falso ed al vero, alle cose buone ed alle
malvage, alle vane c giocose come alle grandi e distruttive; sente
tutti gli affetti, c nessuno con profondità, c nell’ essere suo natu-
ralo, canta di Adone, come di Erode e così delle favole greche come
delle bibliche narrazioni. In tal guisa quella poesia dantesca da noi
contemplala c alla quale convien sempre tornare con l’occhio della
mente, se prima del Marino già compariva incompiuta e dispersa ,
e con l’ Ariosto risorgeva solo in alcune sue doti , e col Tasso nelle
intenzioni finali e nella dignità ed elevazione platonica, ei si può
dire che nel poema dell’alerone più non lasciava riconoscere alcuna
propria sembianza.
§ XXV.
Durò questo corrompi mento ddl’ arte dal chiudersi del cinque-
cento a tutto quasi il secolo mi. E ciò nondimeno fiorirono in tale
intervallo tre ingegni eminenti che mantennero alla lirica nostra una
facile maggioranza su quella d’altre nazioni. Ognuno, io penso, à
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PREFAZIONE.
XXVII
nominato ad una con me il Cbiabrera, il Filicajaed il Cuidi. Dal aolo
Gbiabrera fu l’Italia regalata di tre nuove corone poetiche; cbè ve-
ramente nelle sue mani nacque e grandeggiò prima la canzone pin-
darica, poi la canzone anacreontica e inline il sermone oraziano;
nè mal s’apporrebbe colui che attribuisse al Chiabrera eziandio la
rinnovazione del Ditirambo. Intelletto ardito, inventivo e gagliardo,
serbatosi integro del gusto e severo dell’animo, fece nelle odi sue
ripullulare quel tanto di poesia civile che i tempi e le sventure d' Ita-
lia gli concedevano. Per tutto dove sorgeano faville di valore ita-
liano, o speranze d’italiana gloria accorreva quello spirito generoso
con le ghirlande degl’inni , senza mai parteggiare per una provincia
o per un governo, ma invitando ogni gente della Penisola a ricor-
darsi ne’lor fatti c consiglj del comune sangue latino. Egli Ligure,
e accollo c onorato da un popolo, che avea combattuto a Cbiozza ed
a Malamocco, spandeva lodi magnifiche sui Veneziani morti nelle
guerre contro al Turco; e mentre l’Europa e gran porzione altresì
dell' Italia stavasi indifferente a guardare quella lotta sproporzionata
e sanguinosissima in cui l'infelice Venezia scemava ogni anno di
forzo, di tesoro, d’autorità, di dominio, l’anima gentile del Savonese
la consolava co’ suoi versi degni mollo spesso del cedro.
§ XXVI.
Il Eillcaja venne a tempi ancor più infelici, c quando più non era
possibile di discuoprire ne’ suoi Fiorentini un segno e un vestigio
pure dell’antica fierezza repubblicana. Ma il senso del bene morale e
la pietà religiosa fervevano cosi profondi nell’animo suo che basta-
rono a farlo poeta. E mai nè in questa nostra patria , nè fuori sonosi
udite canzoni così ben temperate di splendore pindarico c di maestà
scritturale come quelle del Filicaja ; onde costui veracemente avrebbe
toccate le ultime cime della lirica nostra dove all’ impeto del senti-
mento e alla bellezza e sublimila del concetto si conformassero sem-
pre la purità e l’eleganza del dire. Nel Guidi poi , che è il terzo deno-
minati, si ripetè un fatto veduto a quando a quando in Italia e il
quale le straniere letterature poco o nulla conoscono, io voglio dire
una mente in cui la invenzione e la vaghezza dei pensieri è scarsa e «
non trapassa i termini del mediocre, e quella dello stile è grandis-
sima e raggiunge la perfezione; o veramente nel Guidi allato a con-
cetti ed a sentimenti spesso comuni e rettorici , splende una forma
non superabile di novità, di bellezza e magnificenza. E d’altra parte
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XXVIII
PREFAZIONE.
che poteva egli un pocla costretto a voltare in versi le latine omelie
di Clemente XI e a cantare le leggi dei pastori d’ Arcadia? Abitava in
Roma, e delle ruinc romane pasceva continuo gli occhi , c da questa
vera e sola grandezza che avea dinanzi, trasse le immagini c i pen-
samenti migliori c più vigorosi. Ma la decadenza trista ed irreparabile
del pontificato non volea vedere o pur non poteva ; di quindi quel
suo fare iperbolico e quel suo vestir di gran nomi e di gran parole
le picciole cose. Certo, se ad Alessandro Guidi fosse toccato di vivere
in seno di una nazione forte e gloriosa, non ostante la poca fecon-
dila e vastità de’ pensieri , io non so bene a qual grado di eccellenza
non sarebbe salila la lirica sua , perche costui propriamente sorli da
natura l’os magna sonaturum, e ce ne porge sicura caparra la sua
canzone alla Fortuna.
Di Fulvio Testi è quasi ingiuria tacere ed è pericolo gravo lodarlo.
Copia di pensieri più che novità ; grandezza che dà nel turgido ;
audacia e forza che si piacciono nell’ ostentazione; un comporre
11*8 l’ oraziano ed il chiabrcresco , ma non come quelli castigato c
continuamente condotto dal buon giudicio e dall’ ottimo gusto. Di-
leltaronlo le maltczzc del Marino , anzi , dal lato dello stile, fu il
Marino medesimo con maggior polso, ma con minore invenzione, ed
ebbe comuni altresì col maestro suo la fluidezza del verso c la riso-
nanza del ritmo, non sufficienti sempre a nascondere il fraseggiare
negletto e prosaico.
§ xxvii.
L’Italia in sul cominciare del settecento affrancandosi in parte del
giogo straniero per lo sgombramento degli Spagnuoli ebbe destino
mcn doloroso e concepì speranza del meglio; appresso, nell’altra
metà di quel secolo ebbe principi riformatori, ingegni tragrandi in
iscienza e in politica, e vide in Roma una restaurazione assennala
del gusto antico in tutte Farti del disegno. Ma l’ effetto di ciò ap-
parve assai tardi e assai lentamente nella poesia ; onde conosccsi
«■li’ ella non precorre il moto civile dei popoli e piuttosto ò l’ ut-
limo fruito che il primo fiore delle pubbliche miglioranze ; nè
queste si fanno materia di poetica inspirazione che quando menano
seco l'abbondanza e l’impeto degli affetti, e quando i pensieri e le
teoriche che le accompagnano, sono di qualità da facilmente vestire
le forme dell’arte. Ma comunque ciò sia, questo rimane pur vero
che fino all’ ultimo scorcio del secolo andato il nostro Parnaso
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PREFAZIONE. XXIX
risuonò più che mai di ciancc canore, e per intero venne occupato
da quello stile or ampolloso e scorretto , or lascivo e burlevole , ma
sempre fiacco, verboso e pedestre di cui rende immagine piena Jn-
nocenzio Frugoni ; e dal culto della semplicità ed eleganza antica
risuscitato in Roma per opera del Winckolman , del Milizia , del
Mengs, del Battoni e d' altri valenti scrittori c disegnatori, cavarono
i poeti sol questo di viepiù pazzeggiare c straniarsi con la mitologia
greca, e di dar nome d'anacreontiche alle lor canzonette prosaiche
e piene di smancerie. Della energia, proprietà e sapienza dantesca
neppure un aspetto e un vestigio; ed anzi fu scritto e fu sindacato >
contro la Divina Commedia, ove, trattone qualche brano, ogni rima-
nente, si giunse a dire, dee reputarsi nojoso e barbaro.
A tanto orgoglio di giudicio c tanta umiltà e grettezza di opere
affermeremo noi essere contrappeso più che bastevole la gloria di
Metastasio? Incertissima è la sentenza, e in qualunque modo si pro-
ferisca, la lascivia e la frivolezza dell’ arte non ricevono alcuna smen-
tita da quel poeta Cesareo. E a chi ormai non dispiace la effemmi-
nata sua Musa? a chi non rincrescono quegli croi cascanti di vezzi
e quei Greci e Romani trasformati così sovente in Filocopi c in Ca-
loandri? Eppure, il buon Gravina avea fin dall’ infanzia menato il
Trapassi a bere alle ingenue fonti della drammatica antica. Ma il
dilicato giovinetto, conforme in tutto alla muliebre natura dei
tempi , piuttosto che imparare da Sofocle a emendare Bacine e
Quinault , aggiunse le proprie alle molte loro svenevolezze. E nep-
pure quando si alzò a cantare di Temistocle , di Attilio Regolo e di
Cotono, seppe purgar la scena degli amoretti e dei madrigali;
miglior esempio aveagli dato Apostolo Zeno.
§ XXYI1I.
Ma come i sensi religiosi in quel che anno di più sublime e di più
scritturale fecero del Filicaja un poeta grande , col quale il secolo
decimoscltimo tanto bene si compiè quanto male fu cominciato dai
Marinisti; del pari nell’ età susseguente le inezie anacreontiche, le
pastorali melensaggiui e i dispregi contro Dante, trovarono fine per
opera d’un ingegno altamente religioso ed austero, il quale in
mezzo alla licenza delle opinioni e alla mollezza e fatuità de’ costumi,
parve in yero infiammato da una fantasia e da una indegnazione pro-
fetica. A me suonerà sempre caro cd insigne il nome di Alfonso Va-
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XXX
PREFAZIONE.
reno, perchè da lui segnatamente , a quello che io giudico, s'iniziò
IT corso della poesia moderna italiana ; e forse la patria non gli si
t, mostra ricordevole e grata quanto dovrebbe. Chi trovasse non poca
similitudine tra la mente del Varano e quella del Young, credo che
male non si apporrebbe. Anime pie e stoiche ambidue, e dischiuse
non pertanto agli affetti gentili , diffondono ne’ lor versi un religioso
terrore e un’ascetica melanconia che nell’ Inglese riescono cupi , in-
consolati e monotoni , e nell’ Italiano s’allegrano spesso alla vista del
nostro bel sole, c dai pensieri del sepolcro volano con gran fede
alla pace e serenità della gloria- immortale.
Varano poi insieme col Gozzi restituì alla Divina Commedia il
debito culto ; il Gozzi con li scritti polemici , egli con la virtù dcl-
l’ esempio ; ed ebbe arbitrio di dire a Dante ciò che questi a Virgilio :
Tu se' lo mio maestro e il mio autore. Se non che il cantore delle vi-
sioni chiuse e conchiuse l’ intero universo nel sentimento della pietà
e nei misteri del dogma, e non bene seppe imitare del suo modello
la nervosa brevità e parsimonia , la varietà inesauribile e la pere-
grina eleganza.
Ma le nostre considerazioni debbonsi tutte fermare alla soglia ove
à termino l’età media e la moderna incomincia. Il Parini stereo ci
sembra travalicarlo c sentir l’aura de’ nuovi studj e del nuovo se-
colo; ond’egli non vuol serbare d’antico se non la grazia del greco
idioma e la dignità del romano , e quella inflessibile alterezza edrit-
tura dell’animo che non obbedisce c non piega di là dall’onesto nè
ai principi nè ai demagoghi.
TERENZIO MAMIANt.
Genoa, 1848.
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POETI
DELL’ETÀ MEDIA.
POEMI EROICI.
BOCCACCIO.
Nel decimo r uflcio funerale
Fanno gli greci re a’ morti loro :
E Teaeo chiama chi «anta dimoro
Poi Arcila a Teaeo racconta quale
Dopo la morte sua del suo tesoro
Il testamento sia; e poi con ploro
Quasi con Palemon fece altrettale :
Poscia presente Emilia seco stesso
Del suo morir si duole , e poi con lei :
Ed elio dopo lui , porgendo ad esso
Gli stremi baci con dolenti omei :
Quindi a Mercurio lita, e piagno appresso,
Po’ l'alma rende agl’immortali Iddei.
TESEIDE.
ARGOMENTO.
0 mal d’Arcita dice easer mortale:
Il gran nido di Leda ogni bellezza
In molte luci di si dimostrava,
E già propinqua a sua maggior cortezza
Tacitamente la notte n’andava,
Forse due ore vicina alla terza
Dove il suo mezzo cerchio già toccava :
Quando di corte 1 regi si partirò.
Ed agli lor oslier proprj rcddiro.
Degna di pira, ciascheduno disse
A’ suoi : Mentre la gente si riposa
Piani al teatro grande ve ne andate ,
E quivi con silenzio ne aspettate.
I morti corpi degli nostri amici
Tutti con diligenza troverete.
Ed acciò che non sian forse mondici
D’ onor di sepoltura , laverete
Lor tutti quanti ; e roghi fate lici ,
Nc’ qua’ con degno onor li metterete :
Po’ venuti saren , ma chetamente
Si tuo! far ciò , che noi senta la gente.
Ed acciocché per lor non s* impedisse
La lieta festa della nuova sposa ,
Anzi che più della notte sen gisse.
Prese con loro ciascheduna cosa
1
2 POEMI
Mosscrsl allor co' lumi I servidori,
E ’n verso il gran lealro se ne andaro ;
E, come avieri comandato i signori,
Gli morti corpi tutti ritrovaro,
E que' con odoriferi licori ,
E con lagrime ancor molto lavaro :
Po' fatte pire per sè a ciascheduno ,
Sopra catana X ej»c poser uno.
Vennero i re, die la turba dolente
Con tristo suono fu apparecchiata,
Ed intorniarla tutta con lor gente ;
E po’ eh' egli ehbcr ciascuna onorata
E d'arme c di grillande c di lucente
Porpora, fu la tromba comandata
A sonar, e a dar v occ a’ tristi guai
E dolenti, clic quivi erano assai
Allora i regi adimorati un poco
Dentro alle pire fatte, con dolore
Al morto suo ciascuno accese il foco ,
E poi a Giove stigio ognun di core
Fe’ sagrificio, acciocché pio in buon loco
Ponesse quelli che per lor valore
Erano 11 giorno morti combattendo ,
L* anima loro per altrui offerendo.
I grossi fuochi e grandi e ben ardenti
Consumar tosto i corpi lor donati ;
I qua' da ognuno delle greche genti
Pietosamente fur mortificati :
E ricolte le ceneri cadenti.
In vasi furo» messe , apparecchiali
Con mano pia , c con dolente verso ,
Durando ancora assai del tempo perso.
E quante Niobe appresso a Sipiiooe
Allorché i figli di Latona fero
Vendetta della sua alta orazione,
Ne portò urne, ed ivi in sasso vero
Si trasmutò, cotanti è openione
Che quiii al tempio del gran Marte altero
Segnati glsscr del nome di quelli,
Le ceneri de’ qual fur messe in dii.
Poi ritornaro agli lasciati ostieri,
Siccome bisognosi di riposo ^
Ed a dormire i regi c i cavalieri,
E qualunque altro, il tempo tenebroso,
Tutti quanti ne giro volentieri.
Infine al nuovo giorno luminoso :
Quindi levati a corte ritornaro,
Dove Teseo levato già trovaro.
Tutti gli Greci i quali avicn difetto
Eran con somma cura medicati ,
E lor donato soiazzo e diletto,
E ne' bisogni lor bene adagiati :
Talché di morte c d’ ogni altro sospetto
EROICI.
Furon in pochi giorni liberali;
E come prima si rifecer sani
I cittadin così come gli strani.
Ma solo Arcita non potè guarire,
Tanto era rotto dentro pel cadere :
Fevvi Teseo il grande lscliion venire
D’Epidauro ad Arcita per vedere,
II qual si mise segreto a sentire
Del mal die Arcita in sè potesse avere ;
E sanza fallo egli si avvide tosto
Come Arcita di dentro era disposto.
Perchè a Teseo rispose di presente
In colai guisa : Nobile signore,
li vostro Arcita è morto veramente,
Nè luogo ci ha di medico valore :
Giove potrebòe in vita solamente
Servarlo, se volesse, ci»’ e’ maggiore
Cihe la Natura, e puote adoperare
Assai più clic Natura non può fare.
Ma lasciando a’ miracoli il lor loco ,
10 dico ch'Kscuiapio non varrebbe
Pier sanità di lui molto, nò poco;
Nè ’l chiaro Apollo ancora, che tutta ebbe
L’ arte con seco, e seppe ii ghiaccio c ’I foco
R I* umido e ’l calore , e clic potrebbe
tàascun’crba, o radice : però eh’ esso,
Per lungo c per traverso è dentro fesso.
Dunque fatica per sua guarigione
Sarie perduta, per quel eli' io uc senta :
Fategli festa e consolazione,
Sicché ne vada f anima contenta
11 più si può air eterna prigione,
Dove ogni luce Dite tiene spenta ,
E dove noi pur dietro a lui ne andremo
Quando di qua più viver non potremo.
Molto colai parlar dolse a Teseo,
Perciocché Arcita sommamente amava ;
Ed a chi questo udiva il simil feo,
Perciocché ognuno alte cose sperava
Della sua vita, sc’l superno Iddco
Vivere In parte antica lo lasciava ;
Nè sapevan di ciò nulla die farsi ,
Se non ciascun di Giove lamentarsi.
Adunque dascun giorno peggiorando ,
Il buon Arcita in sè si fu accorto
Che ’l suo valore in tutto già mancando ,
E che sanza alcun fallo egli era morto :
Nè di ciò trarre il potè ragionando
Alcun giammai, dandogli conforto :
Perchè volle di sè dò che potesse
Disporre , sol che al buon Teseo piacesse.
E fello a sè sanza indugio chiamare,
E cominciò con lagrime in ver lui
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V .£■*'
TESEIDE.
Pietosamente In tal guisa a parlare :
0 nobile signor caro, di cui
Mille Tolte morendo meritare
Vorrei l’ onor, del qual degno non fui ,
Piè potrei mai , lo mi veggio venire
Al passo, il qual nessuno può fuggire.
Al qual si regno , eh’ i’ ne son contento :
Piè vado mal pensando che l’ amore ,
Il qual m’ ha dato già Unto tormento
Per la giovane donna , che nel core
Ancora, come mai per donna sento,
Lascio infinito , e te , caro signore ,
Al quale, appresso lei più distava
Servir, che a Giove , e più mi dilettava.
Ma più non posso , e farlo mi conviene :
Perch’Io ti prego, per ultimo dono.
Se lungamente Iddio tl guardi Atene,
Che, poi del mondo dipartito sono,
E sarò gito a riguardar le pene
De’ miseri che priegan per perdono ,
Quel che dirò tu faccia sia fornito.
Se tu da Marte sia sempre esaudito.
Signor, tu sai che poi che di Creonte
Il giusto Marte tl diè la vittoria
Ch’io t’era con lui uscito a fronte,
E preso fui prigion, della tua gloria
Piccola parte, e certo non isponte,
E Palemone ancor, come a memoria
Esser ti debbe, I qua’ Testi guardare.
Forse temendo di nostro operare.
Mai poiché quindi fummo liberati,
Per tua bontà e per tua cortesia,
1 nostri ben , donde eravam privati ,
G fur renduli. ed ogni baronia.
Come tl piacque, avemmo, ed onorati
Fummo come eravam giammai in pria.
De’ quali a Paiemon tutu mia sorte ,
Ti prego doni , dopo la mia morte.
Similemcnte ancor t’è manifesto
Quanto amor m’abbia per Emilia stretto;
Il quale al tuo servigio sol per questo
Ad esser venni , e quello , che sospetto
Esser doveami, non mi fu molesto;
Anzi con fè serviva e con diletto ;
Nè credo mai ti trovassi ’ngannato
Di cosa, che di me ti sia fidato.
Esso insegnommi a divenir umile :
Esso mi fé’ ancor sanza paura :
Esso mi fé’ grazioso e gentile ;
Esso la fede mia fe’ santa e pura ;
Esso a me dimostrò che mai a vile
I’ non avessi nulla creatura :
Esso mi fe’ cortese cd ubidiente :
<" -,
Esso mi fe’ valoroso e servente.
Tanto mi diede Amor di pronto ardire.
Che sotto nome istran nelle tue mani
Mi misi a rischio di dover morire :
E certo a ciò non mi furon villani
Gl’ Iddi! , anzi facevan ben seguire
I miei pensieri intieri e tutti sani :
Nè mi vergogno punto che ’n tuo onore
Io tl sia stato lungo servitore.
Febo si fece servitor di Aitimelo,
Mosso dalla medesima cagione
Ched io mi mossi , e cosi dolce e quieto
Servi, ch’egli ebbe la sua intenzione :
E certo eh* io ’1 seguiva mansueto ,
S’ egli non fosse stato Palemone ,
Nè dubito che ciò che disiava
M’avessi dato, t’Io mi palesava.
Or cosi va, e non si può stornare
Ciò eh’ è già stato ; ond’ io sono a tal punto
Qual tu mi vedi , e sentomi scemare
Ognor la vita , e già quasi consunto
Del tutto son, nè mi posso aiutare :
A lai partito m’ba or Amor giunto,
A cui ho lo servito il tempo mio
Con pura fede e con sommo disio.
Nè ’i merito di ciò che io attendea
Goder non posso , benché mi sia dato ,
Veggio di me che ciascun Fato avea.
Che cosi fosse, in sè diliberalo,
E che dei mio servir vuole eh’ io stea
Contento, che per merito onoralo
Istato sia della data vittoria,
Cir ella a’ futuri fie sempre in memoria.
Ed io perciò clic più non posso arante,
Voglio aver questo per mio guidardone :
E quel che fu cosi com’ lo amante ,
E la sua vita ha messa In condizione
Di morte, e di periglio simigliatile
A me, io dico del buon Palemone,
Deli’ amar suo per merito riceva
La donna ch’io per me aver doveva.
Io te ne prego per quella salute
Che tu a lui ed a me parimente
Donasti già, per la tua gran virtute
Nota agl’ Iddii ed all’ umana gente ,
E per l’ opere tue, che conosciute
Sono e saranno al mondo dentalmente,
E per la fede la qual ti portai ,
Mentre nel tuo servigio dimorai.
Questa mi Ga tra l’ ombre alma letizia ,
Che Palemone , cui mollo amo , sia
Tratto per me d’ amorosa tristizia ,
Possedendo egli ciò che più disia :
POEMI EROICI.
Pensando ancora ch'egli abbia dovizia
Di ciò eh' egli ama , per tua cortesia ,
Almeno Emilia mentre sarà in vita ,
Vedendo lui, avrà a mente Ardta.
E questo detto, forte sospirando
Tacque, cogli occhi alla terra abbassali,
Tacito seco stesso lagrimando ,
Ni quelli ardiva di tener levati :
Onde Teseo un poco attese, c quando
Vide eh’ e’ suoi parlari eran posati ,
Quasi piangendo , assai di lui pietoso ,
Disse cosi con viso lagrimoso :
Tolgan gl’ Iddìi , Arcita , amico caro ,
Che Lachesls il 1)1 poco tirato
Ancora tronchi, e cessi questo amaro
Dolor da me, sed lo i'iio meritato,
Che non si dia a tua vita riparo;
E gii In ciò Alimelo ha pensato
Insieme con Ischion , c si faranno ,
Che vivo e sano a noi ti renderanno.
Ma pur se degl'iddìi fosse piacere
Di torti a me , che più che luce t’ amo ,
A forza , ciò non ci convien volere ,
Perocché noi sforzargli non possiamo :
Ciò che m' hai detto puoi certo sapere ,
Che poi ti place, siccome te 'I bramo,
E saura fallo tutto e’ tìe fornito
Se tu venisti a si fatto partito.
Ma tu come si forte ti sgomenti.
Pensando clic cosi notabil cosa,
Com'è Emilia, che farie contenti
Qualunque Dii, di sé tanto amorosa
Si fa vedere, e' suoi ocelli lucenti
Pur te disian con vista lagrimosa,
Essa eh’ è tua? deh prendi pur conforto ,
Chè ancor verrai a grazioso porto.
Ben ci ha da render altro guldardone
Delle fatiche da lui sostenute,
1' dico al tuo amico Palemone,
Del quale a me domandi la salute:
Sol che tu sani, io ho opinione
DI porvi ’n parte, per vostra virtute,
Dove di voi tra voi ancor sarete
Contenti si, clic lieti virerete.
Arcita a questo nulla rispondea,
SI lo stringea l'angoscia dell' amore,
Ed il suo stato assai ben eonoscca,
Posto che gli conforti del signore
Divoto udisse quanto più polca :
E già l’ ambascia s’ appressava al core
Della misera morte; onde si volse
In altra parte , ed a Teseo si tolse.
E poi ch'egli fu alquanto dimorato
Sanza mostrare o dire alcuna cosa,
Com'era prima si fu rivoltato,
E ’n voce rotta assai ed angosciosa
Prega che Palemon gli sie chiamato
Anzi eh' e’ lasci està vita noiosa :
Il qual gli venne sanza dimorare
Con altri molti per lui visitare.
Il qual po' vide innanzi a sé venuto ,
E rimirato l'ebbe lungamente
Con luce aguta, quasi conosciuto
Pria non l’ avesse, con voce dolente
Disse : Palemone, egli è voluto
Nel del die qui più i’ non ne stia niente:
Però innanzi il mio tristo partire
Veder ti volli , toccare c si udire.
Tanto n' ha sempre avversati Giunone,
Che del seme di Cadmo solo Arcita
N’è conosciuto, e tu, o Palemone:
Or mi conviene angosciosa partita
Da le parente amico e compagnone
Far; po’ le place ancora alla mia vita
Essere invidiosa, chè potrà
Pur contentarla, s’ella lo volea.
In quella entrata, eh’ io doveva fare.
Ad esser degli suoi raccomandato
Fa ella il mondo lieto a me lasciare.
Per congiungermi a’ nostri primi andati :
Or m’avess’ella pur lasciato entrare
Per tre giornate ne’ suol disiati
Luoghi , ed appresso in pace avrei sofferto
Ch'ella m’avesse morto, ovver deserto.
Non l' è piaciuto, ed io non posso avanti:
Dunque tu solo , che a me se’ rimaso
Del sangue altiero degli avoli tanti
Quando verranne il doloroso caso
Ch’io lascierò la vita c I tristi pianti.
Gli occhi, la bocca e l'anelante naso,
Priegoli che mi chiuda, e faccia ch’io
Tosto trapassi d' Acheronte 11 rio.
E perchè tu, siccom’io, amato
Hai lungamente Emilia graziosa,
lo ito Teseo a mio poter pregato
Che la ti doni per eterna sposa:
Fregoli che da tc non sia negato,
Perchè tu sappi clic di me piatosa
Ella sia stata , ed a me porti amore ,
Ch’ella ha suo dover fatto e suo onore.
E giuroti per quel mondo dolente ,
Al qual io vado sanza ritornata,
Che , a dir vero , giammai al mio vivente
Di lei nluna cosa l' ho levata,
Se non forse alcun bacio solamente;
Sicché tal è qual tu te 1' bai amala :
TESEIDE.
Onde 11 prego, per tua cortesia.
Che lu la premia c che cara U sia.
E lei con quell' amor che tu solevi
Portarle più che a nulla creatura ,
S' egli era vero ciò che mi dicevi ,
Onora e guarda, e si d’oprar procura,
Che ’l tuo valore usato si rilevi
A ricrear la nostra faina oscura ,
Per lo dolente seme eh' è gii spento,
S'a rilevarlo non dai argomento.
Certo questa è manifesta cagione
Che daschedun dell’ operato affanno
Ricever debbe degno guiderdone :
Dunque sari per merito del danno
Che hai già avuto, c disconsolazione ,
Cora' io lo so, e molti ancor lo sanno,
Ricever lei , che credo più clic ’l regno
Di Giove l'avrai cara, e Senne degno.
E s'clla forse, per la morte mia,
Piatosa desse alcuna lagrimctta,
Si la raccheta che contenta sia ;
Perocché la sua vista leggiadretla
Fati’ ha l’ anima mia di lei si pia ,
Che ’l rìso suo più me che lei diletta,
E cosi ’l pianto suo più me contrista:
Onde io mi cambio com’è la sua vista.
In questa guisa, se l’anima sente
Po’ la morte del corpo alcuna cosa
Di queste qua’, tra la turba dolente
Andrà con più di ardire c men dogliosa :
E questo detto , più oltre niente
Allora disse : donde con piatosa
Sembianza e voce appresso Palcmone
Incominciò cosi fatto sermone:
0 luce eterna, orrevole splendore
Del nostro sangue, poderoso Arcita,
S’eglì non è in te spento il valore
l'salo, aiuta la tua cara vita
Con conforto, sperando che ’l Signore
Del ciel soccorre a chi sè stesso aita :
Nè far ragione che in giovine etadc
Antropos ora pigli polestade.
Cessi n gl' Iddìi che io 1' ultimo sia
DI tanto sangue , se tu te ne vai ,
Nè ebed Emilia mai diventi mia :
Tu 1* acquistasti , e tu per tua l' avrai ;
Nè 1* uffizio che chiedi fatto fia
Colla mia man , per mia voglia giammai ,
Ma la tua prole c tu gli chiuderete
A me, che sopra me vivi sarete.
Arcita disse : E’ fte come io t' ho detto :
Il che se awien , ti prego quanl’ lo posso,
Che ’1 mio disio in ciò mandi ad elTclto ,
E questo sia , ogni altro affar rimosso :
Cosi disio, cosi mi Se diletto,
Cosi d' ogni gravezza sarò scosso :
E quinci tacquon tutti due piangendo,
E chi ivi stava ancor pianger facendo.
A colai pianto Ippolita piacente
Vi sopravvenne ed Emilia con lei;
E quando vidon si platosamente
Pianger gii Achìvi c gli duci dlrcel,
D’ Arcita dubitarono, e dolente
Ciascuna domandò li re lcrnei :
Cheti era ciò che i due Teban plangeano,
E tutti loro ancor pianger faceano.
E fu lor detto : onde ognuna di loro
Più ad Arcita si fecero appresso,
E cominciaron , sanza alcun dimoro ,
A ragionar di più cose con esso.
Ed a dargli conforto con costoro
Insieme, ch'cran il venuti adesso;
Ed egli alquanto prese d'allegrezza.
Poiché d’Emilia vide la bellezza.
E poi eh’ Arcita 1’ ebbe rimirata
Con occhio attento, siccome potea.
Ed ebbe bene in sè considerata
La gran bellezza che la donna avea,
Cominciò con sembianza trasmutata
A parlare in tal guisa qual potea,
Premessi avanti dolenti sospiri ,
Caldo ciascun d' amorosi disiri :
Piangerai amor nel doloroso core
I A , onde morte a forza il vuol cacciare ;
Nè vi può star, nè uscirne può egli fuore,
Siedi’ io lo sento In me rammaricare
Con pianti, e con parole di dolore
Accese più che non potrei narrare :
In forma che di sè mi fa platoso.
Ed ohimè , lasso , oltre 11 dover noioso.
Gli spiriti vi sono, e assai sovente
Mostrano a lui l’angelica llgura,
Per la qual esso nel core è possente ,
Dicendo : Deh fia tal nostra sciagura,
Che ci convenga teco Insiemementc
Abbandonar si nobll creatura?
Esso risponde lor, e si gli abbraccia.
Dicendo : Si , die morte me ne caccia.
Io me ne vo coll' anima smarrita ,
La qual io presi col piacer di quella
Che da voi è nel mondo più gradita;
Dunque nelle sue man ricevami ella
Quando farò la dogliosa partita
Dalla presente vita taplnella :
E questo detto , forte lagrimando ,
Abbassò gli occhi In terra sospirando.
6 POEMI
Queste parole gii angelici aspetti
Di quelle donne conturbaron molto,
E con dolore offendevano I petti
Dilleati , in maniera che nel volto
Si parie loro : e ben sentlano i detti
Quali erano , e che fosse in lor raccolto ,
E ben f occulta morte conoscano
Nel viso a lui che già veniva meno.
Perchè Emilia disse : 0 signor mio ,
Poscia che tu del viver ti disperi ,
Deh di me , lassa , come fard lo ?
1' ne verrò con teoo volentieri ;
E già questo appetisce il mio disio :
Perch’ lo non che fuor di te mi speri :
Tu solo eri il mio ben , tu la mia gioia ,
E sansa te non spero altro che noia.
A cui rispose Ardta : Delia amica.
Prendi conforto del mio trapassare.
Non prender nel tuo animo fatica.
Ma per amor di me di confortare
Ti piacda : se giammai cosa eh’ io dica
Intendi nel futuro adoperare,
I’ ho trovalo, a tua consolazione.
Modo assai degno e con giusta ragione.
Palemon caro e stretto mio parente
Non mcn di me t' ha lungamente amata ,
E per lo suo valor veracemente
£ più degno di me die tu isposata
Gli sia; e questo vede tutta gente)
Chè posto die vittoria a me donata
Fosse l’altr’ier, non fu già dirittura.
Ma solo fu la sua disavventura.
Di che gl’ Iddìi errarono, e per certo
Credetter lui alare, e me alaro;
Ma po’ che ’1 loro error fu discoperto ,
Ciò che avien fatto indietro ritornalo,
E me recaro a cosi fatto merlo;
Il qual or piango con dolore amaro ,
Acciocché tu ti rimanessi ad esso.
Coni’ essi avien diliberato appresso.
Ed io che tu sia sua me ne contento
Più che d'altrui, poicb'esser non puoi mia :
Ferma in lui dunque il tuo intendimento ,
E quel pensa di far ch'egli disia;
Ed io son certo eh' ogni piadmento
Di te per lui sempre operato Ha :
Egli £ gentile, bello e grazioso.
Con lui avrai diletto e si riposo.
Io muoio, c già mi sento intorno al core
Quella freddezza ebe suole arrecare
Con seco morte ; ed ogni mio valore
Sanza alcun dubbio i'mi sento a mancare,
Però quel che ti dico, per amore
EROICI.
Farai ; po’ più non posso teco stare :
I Fati t' hanno riserbata a lui :
Me' sarai sua , non saresti d' altrui.
Ma non pertanto l'anima dolente.
Che se ne va per lo tuo amor piangendo ,
TI raccomando, e pregoti che a mente
Ti sia tutt’ ora , mentre eh' lo vivendo ,
Qui starà sotto del bel del lucente ,
A te contenta la verrò caendo :
Io me ne vo , nè so se tu verrai
Là dove 1* sla, eh’i’ tl riveggia mal.
Gli ultimi bad solamente aspetto
Da te , o cara sposa , I qua' mi del ;
Tl prego molto ; questo sol diletto
In vita ornai attendo , ond’ Io gire!
Isconsolato con sommo dispetto ,
Se non avessi , e ma’ non oserei
Gli occhi levar tra’ morti Innamorali ,
Ma sempre gli terrei fra lor bassati.
Fatti erano 1 begli occhi rilucenti
D' Emilia due fontane tagrimando ,
E fuor gittando sospiri cocenti ,
Del suo Arcita il parlare ascoltando :
E ben vedeva per chiari argomenti
Che , com' egli dlcca , venia mancando ;
Perch’ella in boce rotta ed angosciosa
Cosi rispose tutta lagrimosa :
O caro sposo a me più che la vita ,
Non verso te sono crucciati 1 DII :
lo sola son cagion di tua partita :
10 nocevole sono a' tuoi disii.
Gl’ Iddei vecchia Ira incontro a me nutrita
Han ne' lor petti , come già sentii ,
I qua' del tutto lo mio matrimonio
Negano , ed 1’ ne veggio testimonio.
11 gran Teseo m’avca serbata a Acate,
Col quale giovinetta lo mi crescea :
Belio era e fresco nella nuova etate,
E nelli primi amori assai placea
A me : ma la mal nata cruddtate ,
Che ha contro il nostro sangue Citerea ,
Nel tolse, già al maritar vicina,
Bcncbed io fossi ancora assai fantina.
Questa non sazia dd primo operare
Contra di me, or te veggendo mio,
Slmilemeute mi tl vuol levare :
Adunque non l' uedde altri che io ;
Io , lassa , colpa son del tuo passare :
11 mio augurio tristo e '1 mio disio
Ti noccioo, lassa, ed lo rimango in pene
Ed in tormento , non qual si contiene.
0 mè 1 sopra di me ne andasse l' ira
Ched altri nuoce, per la mia bclleiza :
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TESEIDE.
Che colpa ci ha colui che me disira ,
Se la spietata Vener mi dispreizai
Perchè ora coutra te diventa dira 7
Perchè or In te discopre sua fierezza ?
Maledetta sia l' ora eh’ io fui nata ,
Ed a te prima fui appalesata.
E bello Arcita mio , sanza ragione
Orfoss’io morta il di che in questo mondo
Venni , poi ti doveva esser cagione
Di morte , e torli di stalo giocondo :
Donde giammai sentir consolazione
Non credo in me , ma sempre di prorondo
Cor mi dorrò dopo la tua partita.
Se dietro a te rimarrò, caro Arcita.
Ora conosco i dolorosi ardori
Che oscuri mi mostrò l’altr’ ier Diana :
Or so qual fosse P aria che di fuori
N’ usci con vista c con voce profana ,
E quel che della fiamma li furori
A me mostravan con mente non sana :
Chè se allora conosciuti gii avessi ,
Non credo come stai , tu ora stessi.
lo mi sarei dolorosa parata
A te allora che al teatro ne gisti ,
E di pìatà d'amore colorata
Avrei voltati gli tuoi passi tristi ,
E la dolente battaglia (sturbata.
Per la qual morte per me ora acquisti :
Ma io non gli conobbi ; anzi sperai
Tutto ’l contrario di ciò che tu bai.
Or più non posso ; onde morrò dogliosa ;
Nè so veder chi di morir mi tiene.
Vedendo, o sposo, tua vita angosciosa
Istar per me , ed in cotante pene ;
Oh me disventurata, dolorosa.
Quanto mal vidi , e tu si ancora Atene ,
E quanto mal per te mi riguardasti
Il giorno che di me t’innamorasti.
Ohimè che I fiori , I quali allor coglieva,
E ’l canto , anzi fu pianto , eh* io cantava ,
Erinni , o lassa , tutto ciò moveva ;
Ed io il sentii , che talora tremava
Pallida , e la caglon non conosceva ,
Nè le future cose immaginava :
Or le conosco , chè son nel periglio ,
Nè posso porre ad esse alcun consiglio.
Ed ora , caro sposo , mi comandi
Che tu mancato , i' prenda Palemone 1
Certo le tue parole mi son grandi ,
E debbo quelle per ogni ragione
Servar , più che gli eccelsi c venerandi
Iddìi ch'ora m’oOendon, nè cagione
Non a’ hanno; ed io cosi le scrveraggio
In quella guisa ched io ti diraggio.
Io so che Palemon m' ha tanto amata
Quant' uom gentil nessuna donna amasse ;
Di che io non gli voglio essere ingrata ,
Ed eziandio se Giove il comandasse ;
Chiaro conosco che a chiunque data
Fossi, sed esso di grazia abbondasse
D’ ogni vivente , eh' io nei priverei ,
Tanto gli augurj miei conosco rei.
E s' or a te son io cagion di morte
E ad Agate fui, l'aver nociuto
Al mondo tanto assai gravosa sorte
M' è a pensar ; nè quinci spero aiuto
Che possa sostener mia vita forte ,
Che poi Io spirto suo sarà partilo
Che dietro a te , per soperchio dolore ,
lo non venga seguendone il tuo amore.
E se pur fia la mia disavventura
Di vivere oltre a te, non vo' donare
A Palemone della mia sciagura,
Là dove esso per fedele amare
Ila meritato; ma sola mia cura
Ne’ boschi Ile Diana seguitare ,
E ne’ suoi tempj vergine vestita
Serverò sempre mal celibe vita.
E se Teseo vorrà pur ched i' sia
D' alcuno isposa, agli nimici sui
Mi mandi , acciò che la sciagura mia
Ad essi noccia, e sia utile a lui :
Palemone è poi tal , che s’ e’ desia
D'avere isposa, troverà egli altrui
Che gii sarà più non sare' 1’ felice :
Ciò manifesto puro 11 cor mi dice.
Gli stremi baci , omè , gii qua' dolente
MI cerchi, ti darò volonterosa,
E prenderogli ancora parimente
A mio poter, dopo gli qua’ mai cosa
Non fia eh’ lo baci più certanamente :
E la mia bocca sempre come sposa
Dì te co’ baci , che le donerai ,
Guarderò, mentre in vita sarò mai.
E quinci quasi furiosa fatta.
Piangendo con altissimo romore,
Sopra lui corse in guisa d’una matta,
Dicendo : Caro e dolce mio signore.
Ecco colei che per te fie disfatta.
Ecco colei che per te trista more.
Prendi gli baci estremi , dopo 1 quali
Credo finire i miei eterni mali.
E pose 11 viso suo In su quel d’ Arcita ,
Pallido già per la morte vicina.
Nè ’l toccò prima , eh’ ella tramortita
In su la faccia cadde risupina :
Diqitized
g POEMI
Ma poi appresso si fu risentila,
Piangendo cominciò : Orni' tapina,
Son questi i baci i quali io aspettava
Da Arcita, il qual vie più die me amava?
Alle nemiche mie cotal baciare,
0 disputali Iddìi, sia riserbato.
Arcita, che nei elei esser gli pare ,
li bianco collo teneva abbracciato ,
Dicendo : Mal non credo mal andare ,
Tal viso essendo al mio ora accostato :
Qualora piace ornai all’ alto Giove ,
Di questa vita mi tramuti altrove.
Quivi era si gran pianto c si doglioso
Di donne, di signori c d'altra gente.
Che vedean questo ; onde ciascun piatoso
Era assai più elio di stretto parente :
Che non si crede si fosse noioso
Allor che Febo si mostrò dolente ,
Tornando addietro nel tempo che Atreo
Mangiar i figli ai suo Tieste fco.
Ed essa allora , siccom' esso volle ,
E come volle Ippolita, drizzossl,
E sé e lui aveva tutto molle
Di lagrimari da’ begli occhi mossi ,
Nè più nè men come il Menalo colle
Quando che per Ariete riscaldossi,
E consumala sua veste nevosa.
Mostrò la faccia sua tutta guazzosa.
E quel di lutto quanto si posare,
Sanza più rinnovare altro dolore;
Benché nel cor l’avessono si amaro,
Quanto potea esser più a tulle l’ore :
E con parole assai riconfortare
Emilia c Arcita , e ’l corrotto furore
Lor temperare con soavi detti ,
Lena rendendo a* disolati petti.
Nove fiate s' era dimostrato
li Sole, ed altrettante sotto l'onde
D'Esperia s’era col carro tulfato,
Po' si mutare le cose gioconde
Per lo cader d’ Arcita in tristo stato,
Quando nel tempo che tutto nasconde,
D’Emilia avendo il di I baci avuti.
Parlò Arcita a' suoi più conosciuti :
Amici cari, lo me ne vo di certo,
Perchè a Mercurio vorrei pur litare.
Acciò ched esso, per si fatto merlo.
In luogo ameno piacciagli portare
Lo spirto mio, po’ che gli Qa offerto;
E vorrei questo domattina fare :
Però vittime degue ed olocausti
Ne parccchiate a lui decenti e fausti.
Palemon eh’ era a questo dir presente
EROICI.
Come quel che da lui non si partia ,
Fe' apprestar tutto ciò Immantenente
Ched a cotal mesticr si convenla ;
E sangue e latte nuovo di bidente
Gregge, ed armenti, quali all’ara pia
Si richiedcan di cosi fatto Iddio,
Per adempire d’ Arcita il disio.
Il giorno venne oscuro e nuboloso,
E questi Febo s’avea messo avanti
Al viso, acciocché al morire angustioso
D' Arcita non vedesse i tristi pianti
D'Emilia bella, de' qua’ assai piatoso
Si mostrò il giorno , gli suoi luminanti
Raggi celando in fra le nebbie iscure,
Vedendo chiaro le cose future.
Allora l'ara fu apparecchiata,
E' fuochi accesi, e gl’incensi donati,
E ciascun’ altra offerta a ciò portata,
E' sacerdoti versi ebber cantati
Con voce assai tra l' altre trasmutata ,
E fumi furon tutti a’ cieli andati :
Arcita piano cominciò egli a dire
In guisa tal che si potette udire :
0 caro Iddio di Proserplna figlio ,
A cui l’ anime sta di là portare
De’ corpi , e quelle , secondo il consiglio
Che da te prendi , le puoi allegrare ;
Piacciati trarnil di questo periglio
Soavemente per le tue sante are ,
Le quali ancora calde per me sono,
Chè a te su quelle offersi eletto dono.
E quinci mene tra l' anime pie.
Le qua’ sono in Eliso , mi trasporta ;
Chè se tu miri ben l’ opere mie.
Non hanno fatto me dell'aura morta
Degno , siccome furon 1’ alme rie
De' miei maggiori , a qua’ crudele scorta
Fece Giunone adirata con loro,
Con ragion giusta a lor donando ploro.
Io non uccisi il sagrato serpente
Alialo a Marte ne’ campi dlrcei,
Come fe' Cadmo della nostra gente
Avol primario ; nè nell! baccci
Sagriflci tolsi fieramente
La vita ai mio figlluoi, come colei
Che dopo li danno riconobbe il fallo,
Nè potè poi con lagrime emendano.
Nè siccome Semclc in ver Giunone
Mai operai , nè si come Atamante
Contra la prole divenni fellone :
Nè uccisi il padre mio , e non amante
Della mia madre fui, la nazione
Nel sen materno indietro ritornante
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TESEIDE.
Siccome Edippo ; ni i miei fratri uccisi ,
Nè mai regno occupai , nè mal commisi.
Nè di Creonte 1‘ aspra crudeltate
Mi piacque mai , nè mai altrui )' usai :
E s' arme furon giè per me pigliate
Incontro a Pale mori , male operai ,
Ed io ben ho le pene meritate :
Ma certo i’ non le aerei prese giammai ,
Sed esso non mi avesse a ciò recato ;
Pere li’ era siccom' io innamorato.
Dunque tra neri spiriti non deggio,
Piatoso Iddio, a quel eh' io creda, andare :
lo del elei non son degno, ed io noi cheggio,
M è negli Elisi caro sol di stare :
Di ciò ti prego , e di ciò ti riclieggio ,
Sed esser può che tu mel debba fare :
So che’l farai, se, come suo', se’ pio,
E come credo , venerando Iddio.
Detto eh' ebbe cosi , con più dogliosa
Voce parole mosse , dove stava
Ippolita ed Emilia valorosa,
E i greci re e ciascuno l' ascoltava ,
E Palcmon con anima angosciosa
Tanto del tristo caso gli pesava :
Ed esso con parola vinta e trista
Disse cosi con dolorosa vista :
Or mancherà la vita , ora il valore
D'Arcita finirà, ora avrà fine
V acerbo inespugnabile suo amore ;
Ora vedrà d’ Acheronte vicine
la: triste ripe , ora saprà il furore
Delle nere ombre, misere tapine;
Ora se ne va Arcita Innamoralo
Del mondo a forza isbandito c cacciato.
Oh lasso me, che l’età giovinetta
Lascio si tosto , alla quale sperava
Ancor mostrar dov'è virtù perfetta;
Tale speranza l’ardir mi mostrava :
Oraè che troppo la Morte s' affretta ,
E più che in nessun altro in me è prava :
In me si sforza , in ver me la sua ira
Mostra quant' ella puotc c mi martira :
Dov'è, Arcila, la tua forza fuggita?
Dove son l'armi già cotanto amate?
Come non le hai , per la dolente vita
Dalla morte rampare, ora pigliate?
Oimè ch’ella s' è tutta smarrita,
Nè più potricn da me esser guidate :
Perchè ornai io me le rendo , o lasso ,
E per piò non poter oltre trapasso.
.0 bella Emilia, del mio cor disio,
0 bella Emilia, da me sola amata,
0 dolce Emilia , cuor del corpo mio ,
Ora sarai da me abbandonata :
Oimè lasso , non so mai quale Iddio
In ciò mi noccia con voglia turbata :
Chè per te sola m'è noia il morire,
Per te non sarò mai sanza languire.
Deh che farò io allora che vedere
Più non potrottl , donna valorosa ?
Seconda morte non potrò lo avere ,
Benché la cheggia per men dolorosa :
Nè so ancora che luogo mi tenere
Debba di là nella vita dubbiosa :
Ma se con Giove sanza te mi stessi.
Non credo che giammai gioia n'avessi.
Dunque angoscia n'avrò dovunque irag-
Sempre sanza di te, mia luce chiara: [gio
Nè egli mi sarà il secondo viaggio
A qui tornar concesso, o donna cara,
Come Pcleo dal suo slgnoraggio
Già mel concesse , allora ched amara
Vita traeva in Egina, lontano
Dal suo voler, bella donna , sovrano.
Lagrime sempre ed amari sospiri
Ornai attende l’ anima dolente
Per giunta, lasso, alli nuovi martìri.
Ch’avrò io forse ili tra la morta gente;
Gli qua' tanti non fien, che i mici distri
DI te veder faccian cessar niente :
Ma sempre te nell'eterna fornace
Per donna chiamerò della mia pace.
Oimè dove lascio io i cari amici ?
Dove le feste ed il sommo diletto?
Ove I cavalli , ornai fatti mendlcl
Del lor signore? ove quel ben perfetto
Che amor mi dava , qualora i pudici
Occhi d’ Emilia vedeva e l’ aspetto ?
Ed ove lascio Palemon grazioso
Meco d'amor parimente focoso?
E Pcritoo ancor, cui similmente
Più che la vita con ragione amava?
Ove li regi , c l' altra buona gente
Che loro a’ miei servigi seguitava?
Ove Teseo, nobll signor possente,
Che più che caro frate! mi onorava?
Or dove lascio li reverendo Egeo ?
Dove il mio caro c buon signor Peleo?
Certo gli lascio dove rimanere ,
S’ esser potesse , vorrei volentieri ,
In giuoco, In festa, in riso ed in piacere.
Con principi , con donne c cavalieri :
Sicché del rimaner di lor mestieri
Non m'è dolermi; ma sol mi son fieli
Gli aspri pensier, clic a me ne mostran tanti
Perder dovere , e me e tutti quanti.
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10 POEMI
Poscia ch’egli ebbe queste cose dette,
Di cor giltò un profondo sospiro
Amaramente, e di parlar ristette;
E In verso Emilia I suoi occhi s’ aprirò,
Mirando lei , e mirandola stelle
Un poco, e poscia gli rivolse in giro :
E ciascun vide che piangeva forte.
Perocché a lui s’ appressala la morte.
La quale In ciascun membro era venuta
Da’ piedi in su , venendo verso 11 petto ,
Ed ancor nelle braccia era perduta
La vital forza; sol nello Intelletto
EROICI.
E nel cuore era ancora sostenuta
La poca vita , ma gli sì ristretto
Eragli *1 tristo cor del mortai gelo,
Che agli occhi fe' subitamente velo.
Ma po’ ch’egli ebbe perduto il vedere.
Con seco cominciò a mormorare ,
Ognor mancando più del suo podere :
Né troppo fece in dò lungo durare;
Ma il mormorare trasportato In vere
Parole , con assai basso parlare ,
Addio Emilia! e più oltre non disse,
Ché l’anima convenne si partisse.
(Canto X.)
FAZIO DEGLI UBERTI.
D1TTAM0ND0
LIBRO PRIMO.
CAPITOLO I.
Non per trattar gli affanni, di' io soffersi
Nel mio lungo cainmiu , né le paure,
Di rima in rima tesso questi tersi ;
Ma per voler cantar le cose oscure ,
Ch'io vidi , ch’io udii , che son si nuove,
Che a creder pareranno forti e dure.
E se non che di ciò son vere prove
Per più e più autori , che saranno
Per i miei versi nominati altrove.
Non presterei alla peuna la mano
Per notar ciò , eh’ io vidi , con temenza
Perché non fosse da altri casso e vano ;
Ma la lor chiara e vera esperienza
MI assicura nel dir, come persone
Degne di fede ad ogni gran sentenza.
Di nostra eli sonda già la stagione ,
Che all’anno si pon poi che il sol passa
In fronte a virgo , e che lassa il leone ;
Quando m'accorsi eh' ogni vita è cassa,
Salvo che quella , che contempla Iddio ,
‘ La natura di questo poema é assai poco
determinata ; alcuno il chiamò didascalico,
ma pih che altra cosa egli è narrativo , e
0 che alcun pregio dopo morte lassa.
E questo fu , onde accesi il desio
Di volermi affannare in alcun bene,
Clic fesse frutto dopo il tempo mio.
Poi pensando nel qual , fermai la spene
D’ andar cercando e di voler vedere
Lo mondo lutto , e la gente eh’ ei dette ;
E di voler udire e di sapere
Il dove e come e chi furo coloro
Che per virtù cercar più di valere.
E imaginato il mio grave lavoro.
Drizzai i piè , come avea il pensiero ,
E cercai del cantatiti senza dimoro.
lo era ancor dentro dal mal sendero ,
Per lo quai disvialo era ilo adesso ,
Con gli occhi cliiusi , e l’ animo leggero.
Onde al partir si mi pungevan spesso
Gli andehi pruni , che come uotn stanco
Mi sedei tra più fior, che m'eran presso.
Basso era il sol, che s'accendca nei fianco
Del montone , onde io per più riposo
Tutto mi stesi sopra il lato manco.
Poscia m' addormentai cosi pensoso ,
però il poniamo fra i poemi eroici ai quali
lo accosta altresì )a continua dignità delle
idee • dello stile.
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DlTT AMONDO.
Ed appartemi cose nel dormire,
Per ch'io alla mia Impresa fui più oso.
Chè una donna vedea ver me venire
Con l’ale aperte, si degna ed onesta,
Che per esemplo appena il saprei dire.
Bianca , qual neve par, avea la vesta ;
E vidi scritto in forma aperta e piana
Sopra una coronetta, che avea In testa ;
lo son Virtù, per cui la gente umana
Vince ogni altro animai; io son quel lume.
Che onora il corpo , e che 1* anima sana.
Molte donne, aleggiando in varie piarne.
Si vedean tranquillar ne’ suoi splendori,
Come pesci d’estate in chiaro fiume.
E giunta sopra me, tra quei bei fiori ,
Parca dir : Non giacer, anzi sta suso,
E il tempo, ch’hai perduto, si ristori.
Non più restare In questo bosco chiuso,
Non più cercar di su la mala spina
Coglier la rosa , siccome se’ uso.
Pensa, che qual più là giù peregrina,
Da poi che giunge all’ ultimo di suo ,
11 lutto gli par mcn d’ima mattina.
E fame, e sete, e sonno al corpo tuo
Soffrir convien , se onore c prò desiì ,
E seguir me, che qui tcco m’ induo.
E guardar ben , che più non ti desvii :
Pensa , si come 1 compagni d’ l’ilsse
Fur con Circe, onde a pena lo li partii.
E pensa ancor come perduto risse
Con la sua Cleopatra oltre a due anni
Colui , a cui ’l Roman , prima voi disse.
Onor si acquista per soffrire affanni.
Purché l’affanno sia in cosa degna,
E darsi all’ozio è vergogna con danni.
Ancora fa che sempre U sovvegna
Aver di sofferenza buone spalle ,
Siccome Job e Jacob ne insegna.
Perchè se vuoi veder di valle in valle
11 mondo tutto, senza lei non puoi
Cercar di mille il ventesimo calie.
Qui non spiar per tema 1 fati tuoi ,
Se non come Catone In Libia volse
Chieder responso , pregato da’ suou
Tutti non son Papirio. Indi si tolse,
E spirò nel mio petto, e non si mosse;
Onde il mio sonno appunto si disciolse.
Come la sua virtù nel cor percosse.
CAPITOLO II.
Dal sonno sciolto e sviluppato m’ era ,
Quando udii risonar tra verdi rami
La dolce melodia di primavera.
Al vago canto subito voltami.
Rimembrando il piacere , il gran valore .
Per Io qual già soffersi e seti e fami.
Qui provai io il ver, che poiché amore
S’ è barbalo nel core , a gran fatica
Si può schiantar, che non germogli il fiore.
Ma pur non punse si la dolce ortica ,
Ch’ io non tornassi a quel desio proposto,
Del qual in me già granava la spica.
E , come meco fui altresì tosto ,
Tolsi l’udir da quel soave canto.
Tolsi l’imaginar, ch’io v’avea posto.
E levai gii occhi , e vidi che già tanto
Era alto il sol, che sopra l’orizzonte
Parca salito II tauro tutto quanto.
Poi ritornai verso terra la fronte.
Per rimembrare il sogno , e le parole
Di questa donna siccome le ho conte.
E chi se dò mi piacque Intender vuole.
Pensi quanto fu lieto allor Joseppo ,
Che ’l sogno fc’ delia luna e del sole.
I’mi levai diritto sopra nn ceppo.
Per divisar qual fosse il mio cammino ,
E d’ ogni parte ni’ era il bosco e il greppo.
E come avvien talora ai peregrino,
Ch’ha perduta la strada, e che non vede
Cui dimandare, nè per sè è indovino;
Che ricorre a quel Ben , eh’ egli ama e
E , con pura e devota intenzione , [crede,
E consiglio e soccorso gii richiede.
Cosi mi posi allora in ginocchione ,
Le mani giunte , e con fermo desio
Incominciai colale orazione :
0 somma , o prima luce , o vero Iddio,
Che in Ararat salvasti , e dirigesti
L’ arca , c Noè , quando ogni altro pedo ;
E il popol tuo del mare a piè traesti.
Nutricando! di manna infin che appresso
Nella terra promessa il conducesti ;
E che a Tobia Rafael per messo
E per guida mandasti , onde pervenne
A più, che il padre non gli aveva coni*
messo;
E che Abraam salvasti, quando tenne
Per campar Loto , dietro degli Siri
Con la gran fede , e con le poche penne.
Fa, che per grazia tanta luce spiri
Dagli occhi tuoi ne’ miei , che scusa velo
Del mondo i’ scorga tutti quanti i girl.
Te padre, Invoco, te fattor del cielo
Come solean gli antichi a sii» il peso
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POEMI EROICI.
li
Chiamar Apollo, Jupiter, e Belo.
E come l’ slava al prego si sospeso ,
Agli occhi un lume subito m’apparve,
Qual par balen, che vien per l’ acre acceso.
E giunto altresì tosto via disparve.
Vero è, ch’esso apparendo, in mia presenza
lina voce, che disse, udir mi parve :
Paura, vanitate e negligenza,
Fa, che tu sdegni, ed in cui pregiti, spera,
Se vuoi , di quel che brami , esperienza.
Cosi la grazia delia somma spera
M' aperse l’ intelletto oscuro e bruno ,
Confortando la donna , clic quivi era.
E dove pria pur era bosco e pruno,
Vidi si sciolta ed aperta la strada,
Ch’ i’ rendei grazie a Quel eh’ è tre ed uno.
0 vivo amore ! Come cieco bada ,
Qual fugge (e , e pone sua speranza
Nei ben mondan, che son men clic rugiada!
Lettor, pensa per te, quanta baldanza
A seguir la mia impresa presi allora,
Chè non tei saprei dir per simiglianza.
Su mi levai, c più non fei dimora,
E trovai me a seguitar la voglia
Tanto legger, che me ne segno ancora.
Non spino ai piè , nè anco agli ocelli fo-
M1 Iacea noia , orni’ io seguiva il passo [glia
Senza fatica alcuna c senza doglia.
Dinanzi ad una croce, a piè d'un sasso
Un romito trovai, che nell' aspetto
Per lunga etade era pallido c lasso.
La bianca barila gli listava il petto ,
E i cigli tanto gli cadovan gioso,
Che gli erano alla vista gran difetto.
0 padre , che vi stale si nascoso
In questo bosco in tanta penitenza,
Solo per acquistar l’alto riposo,
Da poi che Dio nella vostra presenza
Condotto ni' ha da loco si lontano ,
Piacciavi darmi di voi conoscenza.
Cosi il pregai , ond’ elio con la mano
Le ciglia prese , e la vista scoperse ,
Poi mi guardò con volto onesto e piano.
Appresso disse : Da parti diverse
Son qui venuto, qual piace a Colui,
Che per noi morte In la croce sofferse.
Paulo è il mio nome, e onde, c chi gii fui,
Di più non dico ; ma tu come vai
Si sol per questi boschi oscuri , c bui ?
La vita , e la mia mossa io gli narrai
A parte a parte , ond’ egli a me ne venne ,
E con dolci parole e care assai
La notte seco ad albergar mi tenne.
CAPITOLO III.
Entrati nel suo povero abitacolo ,
Sarebbe lungo a dir le cose strane ,
Ch'ei mi contò d’ uno in altro miracolo.
I j cena nostra fu solo acqua e pane ,
E il letto d’orso una pelle pelosa;
E cosi stemmo Dno alla domane.
Era la mente mia grave e pensosa ,
Volendo ricordar ciascun peccato.
Che fatto i’ avea nella vita noiosa.
Quando quel padre , eli’ era già levalo
Per dir sue ore, mi disse : Che hai,
Clic si sospiri, e mostri tribolato?
Ed io risposi : Ilo dei peccati assai ,
Dubbiosi e grav i ; e mi tacciti appresso.
E nel tacer languendo lacrimai.
In questo tuo cammin se' tu confesso?
Risposi : No ; ma trovandomi vosco ,
Questo era quel, di eh’ io piangeva adesso.
Figliuol mio, disse , il mondo è come un
Pien di serpenti e di fieri animali , [bosco,
E ciascun porla (svariato tosco;
E noi siam tutti mobili e mortali .'
Onde vegliar conviene, c stare attenti,
Per sapersi guardar dalli lor mali.
Se il primo nostro e de’ nostri parenti
Padre avesse provveduto a questo ,
Ei ci vedrebbe liberi c conienti.
Ma di’, chè al tuo voler son fermo e
Ed lo al suo voler tutto devoto, [presto.
Ciascun peccato gli fei manifesto.
Ma poiché di me fu ben chiaro e noto,
Dicmmi la penitenza tanto dura.
Quanto voleva a lavar tanto loto.
Giù venia il sol per alcuna fessura
Del romilor, quando per camminare
Mi apparecchiava, e dovami rancura.
Quand’ei mi disse : Dimmi, che vuoi
Io gli risposi : Alleviar quel carco, [fare?
Che scarcar mi convien sol coll’ andare.
Tu credi forse , che quinci sia un varco
Sccuro, come se fossi a Vinegia,
E dovessi ir da Rialto a San Marco?
Già fu cosi, ma tal più non si pregia :
Chè per tutto le strade son qui tronche.
Coperte d’ erba c di prun clic le fregia.
II monte Gif non ha tante spelonche,
Quante si trovan per questo cammino.
Nè tante oscure , nè profonde conche.
E non dir, i' son povcr peregrino,
Chè i bacherozzo! non guardano a quello.
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DEL D1TTAM0NDO,
Purché porean far male a lor domino.
Per lutto posso dir, eh’ è baccanello,
E però la tua voglia qui sia stretta ,
Tanto che attempi il sol , che vicn novello.
Chè molte volte l’uom per troppa fretta,
Volendo far, disfi; e dico ancora,
Che quel sa guadagnar, che tempo aspetta,
0 chiaro lume mio, risposi allora.
Poco sapria , chi dal vostro consiglio
Si dilungasse il minuto d' un'ora.
E cosi per fuggir morte e periglio,
Credetti a lui , come credere de’
Ammaestrato da buon padre il figlio.
Dolce diletto c caro ancora m' è,
Quando rimembro le sante parole ,
Che allor mi disse della nostra fé.
Già era al cerchio di meriggio il sole,
Quando parlai con grande reverenza :
L’andar mi sprona, e ’l partire mi dote.
Quel padre pien di tutta conoscenza
M’ intese , e disse con soave voce :
Tempo è bene ornai per mia credenza.
Indi mi trassi al sasso della croce ,
Gli occhi portando ove il cammino mio
Mi divisò di una in altra foce.
Devotamente il commendai a Dio;
Ed egli ; Or va , che come salvò Elia
Nel carro, si te salvi al tuo desio.
Mlsirai allor per la mostrata via ,
Avendo sempre attenti gli occhi e ’l viso,
Se alcuna cosa avanti m' apparta.
E mentre ch'io guardava tanto fiso,
lina femmina scorsi assai da lunge
SI sozza, ch'io ne fui quasi conquisd.
E come avvien, che la paura punge
L' uom talor, si che tragge il sangue al coro,
E l’ altre vene per lo corpo munge;
E da poi eh' è ristretto il suo valore ,
In fra sé di sé stesso si rimembra ,
Onde racquista il perduto colore ;
Si persi lo il sangue per le membra
Subitamente , c poi cosi raccolsi
In me virtute con colore insembra.
E quanto i passi miei più ver lei volsi ,
Ed ella i suoi ver me , vieppiù brutta
A membro a membro la sembianza colsi ;
Pensa, qual parve a figurarla tutta.
CAPITOLO IV.
Siccome presso fui a quella strega ,
Vidi la faccia sua livida c smorta,
Qual preso pare, a cui le man si lega.
Vecchia mostrava e in su le gambe
Arricciava la carne c ciascun pelo, [storta,
Come porco per tema talor porla.
Tutta tremava, e nelle labbra un gelo
Mostrava tal, che non copriva i denti.
Ed era scapigliata c senza velo.
Gli occhi smarriti in qua e là moventi
Avca la trista, e cosi sbalordita
Borbottando dicea : Perché consenti ,
Perchè consenti a perder la tua vita ?
Certo tu ne morrai, se non t'avvedi
Di lasciar questa impresa tanto ardita.
Non per morir, ma per campar mi diedi
A seguir tanto ardire , e da più senni
Confortato ne son , che tu noi credi.
Ben so chcal mondo per tal patto venni,
Ch’io dovessi morir, c bene stimo
Che contro ciò tutti I pensicr son menni.
E si so ancor, ch'io non sarò il primo
Nè ’l derctan , che de’ far questa via ,
Chè tutti ne comici! tornare al limo.
E bestiai cosa sarebbe e follia
Di temer quel, che non si può fuggire.
Questa colai fu la risposta mia.
Ben io t' ho inteso, ma tu non del Ire,
Sperimentando si la tua ventura,
In estrani paesi per morire.
Oh , rispos’ io , già non è più dura
Di fuor la morte, che in casa si senta.
Ed ella : Tu non avrai sepoltura, [menta,
Questo che fa? Chè il corpo non tor-
Nè trova cosa , clic gli faccia guerra ,
Poiché la luce sua del tutto è spenta.
E se non fia coperto dalla terra.
Il cielo il coprirà; nè con più degno
Coperchio nlun corpo mai si serra.
Trovo non fu delle tombe lo ingegno,
Acciocché i morti ne avesser dolcezza ,
Ma per 1 vivi , eh’ è d' onore un segno.
Dissemi allor : Morrai in giovinezza.
Per eh’ io risposi : Questa è minor doglia ,
Che l'aspettar di morir in vecchiezza.
Chè allor fa buon morir quando si ha
Di viver, e quel viver tengo reo [voglia
Dove l’ uom senso a senso si dispoglia.
Di ciò s’ avvide il forte Macabeo ,
Di ciò s' avvide il forte Greco , il Magno,
E il buon Troian clic tanto d'arme feo.
Il ben morire è al mondo un guadagno,
E il viver male è peggio che la morte ;
Faccia uom che de', e non si dia più lagno.
E quella a me : E tu puoi per tal sorte
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14
POEMI EROICI.
Cadere In povertate infermo e frale ,
E non sarà chi ti aiuti e conforte.
Di questo , rispos* lo , poco mi cale ,
Chè delle due converrà esser 1* una ,
0 il mal vincerà me , o io il male.
La povertate e i ben della fortuna
Per tutto veggio ; e trovo 1* un di grande
Tal che poi l’altro con fame digiuna.
Già fu chi visse di fronde e di ghiande :
Nostra natura, quando si contenta.
Poco cura di veste o di vivande.
Più son le cose, onde P uom si spaventa,
Che pur non fanno mal , che quelle assai
Che con danno c percosse lo tormenta.
Ed ella a me : Or pensa , se tu vai
In luogo acerbo, strano e sconosciuto
E non sappi la lingua, che farai?
Le mani e l piè natura per aiuto
Mi ha dato, dissi, e l'argomento tutto,
Perchè sarò i' più là, che qui un muto.
Ed ella : Vuo'tu un buon consiglio a-
Pensa di vi ver qui, e stare in pace, [sdutto?
E di quel , eh' hai, prendi diletto c frutto.
Lo tuo parlar, rispos' lo, non mi piace,
Però ch’egli è consiglio da cattivo.
Che mangia e beve c sulla piuma giace.
Chè 1' uom non de' pur dir, i* pappo,
Come nel prato fan le pecorelle ; [e vivo,
Ma cercar farsi , dopo morte , divo.
Ornai va via , chè delle tue novelle
Ammaestrato fui, e, poi m’annoia
Ch' hai le fazìon che non somiglian belle.
Poiché la si pardo dolente e croia,
Ed i’ rimasi , qual riman colui ,
Che fa fra sè di sua vittoria gioia ,
E poiché sviluppato da lei fui.
Lettor, e vidi me disciolto e libro,
Presi il cammin tanto dubbioso altrui,
Come vedrai dal terzo al sesto libro.
CAPITOLO V.
Come il nocchicr, cb’è stato In gran
tempesta ,
Che se vede da lungi piaggia o porto ,
Affretta i remi, e fa letizia e festa;
Cosi arcnd’io da lontano scorto
Uno, in ch’i' sperava alcun consiglio,
Accrebbi i passi con lieto conforto.
Appena era ito un terzo di miglio,
Ch* lo gli fui presso, e tanto il vidi degno,
Che l* Inchinai con la man sopra il ciglio.
Poco del corpo, lettor, tei disegno,
Bianco era e biondo, e la sua faccia onesta,
Con piccoletta bocca, « d’alto ’ngegno.
Qual vuol Mercurio , tal parca la vesta,
Un libro avea nella sinistra mano,
E nella dritta lenoa una sesta.
E giunto a me costui, più che umano
Rispose al cenno, e disse : In chi ti fidi ,
Che vai si sol per luogo si lontano?
Senno non fai , se non hai chi ti guidi.
Perocché tanto è diverso il cammino ,
Che più appena alcun giammai ne vidi.
Per cercar, mi son mosso peregrino.
Del mondo quel che ne concede II sole,
E più , se 11 poter fosse al mio domino.
E qual non può In tutto ciò che vuole ,
Far gli convlen secondo eh’ ha la possa.
Cotal risposta fon le mie parole, [mossa
Poi soppraggiunsl a lui : Questa mia
Non credere si lieve, che per fermo,
Udendo il ver, non tl parrà si grossa.
Perchè a fuggir la morte , ov’era infer-
ii ardir mi prese , che a follia tenete , [mo,
E per consiglio l’ebbi d’altrui sermo.
l’non avea d* udirti si gran sete,
Quando eh’ I’ tl scontrai, qual mi seni* ora.
Che m’ hai preso il pensler in altra rete;
E però non t’ incresca dirmi ancora
Più chiaramente, acciocché me’ compren-
Dovc tu vai ; e un poco qui dimora [da,
E se starai , non creder clic si spenda
Indarno il tempo, e foni’ è tua ventura
Avermi qui trovato, c ch’io t’intenda,
Ch’ io so del mondo il modo e la misura,
E so dei cieli , c sotto quale clima
Andar si puote, c dov’è gran paura.
0 caro padre ! Il tempo non sì stima
Per me , dissi , com’ è vostra credenza
E quanto piace a voi , fia la mìa rima.
Allor gli feci in tutto conoscenza
Del lungo tempo mio senza fren corso,
E senza lume , e senza provvidenza ;
E come me vedendo tanto scorso ,
Vergogna ed ira punse lo ’ntellctto,
E fu del fallo mio grave il rimorso ;
E che per ristaurar tanto difetto,
E non morir nel mondo come belva,
Presi H cammin colai , come ho già detto ;
Poi come dentro della trista selva
Una donna gentil m’era apparita,
E destò il cor, il quale ancor s’inselva.
Tutta gli dissi appunto la mia vita, [sa
Ond’egli a me : Figli uol, questa tua hnpre-
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DITTAMONDO.
Assai mi par da essere gradita.
Ma guarda , che tu sia di tanta spesa
Fornito, quanta a tal cammin bisogna ,
Si che il troppo voler non torni offesa.
Cbè spesso avvicn, eh’ uom riceve ram-
pogna
Di folle impresa , onde sarebbe il meglio
Lasciarla star, ebe portarne vergogna.
Ed lo a lui : Pur mo’a ciò mi sveglio,
Come v' ho detto , e seguirò nei core
La pecchia per esempio , e per (speglio ;
Che va cogliendo d’uno in l’altro fiore
La dolce manna per luoghi diversi ,
Di che poi vive, c donde acquista onore.
Cosi pens’io per paesi sporsi
Ragunare con pena e con fatica [versi.
Quel mcl, che a me sia dolce ed al miei
Quando nell’ uomo un buon voler s’abbl-
E mancagli il poter, rispose adesso, [ca
Alar si de’, come la cosa amica, [messo,
E però all’ alta impresa , in che sei
Giovar ti voglio di alcuna moneta ,
Si die ti aiuti a tempo per te stesso.
D' alpi , di mari , e di fiumi s’ Inreta
La terra, perchè l’uomo alcuna volta
G è preso, come verme, che s' inseta.
Onde se non t’annoia, ora m’ascolta.
Sicché se trovi manco d’ alcun passo ,
Veggi da lo perchè la via t’è tolta.
Cosi come a lui piacque, fermai ’l passo.
CAPITOLO VII.
Poich'Io mi vidi rimaso si solo.
Presi a pensar, sopra I dubbiosi carmi ,
Il gran cammin dall’ uno all' altro polo.
E ricordando, non sapea che farmi,
I molti rischi e la si lunga via,
0 dell' andar innanzi , o delio starmi.
Quando la douna, che mi destò pria
Nel tristo bosco, mi disse : Che pensi?
Fa quei che dei , e poi ciò che vuol sia.
Sempre il cattivo da vili e melensi
Pensieri è vinto, e tal costui è detto,
Quale una bestia , eh’ abbia manchi I sensi.
Così cotesta cacciò dal mio petto
Ogni paura , come da Boezio
Filosofia le triste dal suo letto, [screzio
Spento ogni mio pensler che motea
E dubbio al mio andar, subito presi
Consiglio tal , del quale ancor mi prezio.
Ond’ lo co! core e con gli occhi sospesi
16
Chiamai a giunte mani In verso il ciclo
Colui , che mai non ebbe di uè mesi.
0 sempre uno e tre , a cui non celo
Il gran bisogno , e l’ acceso destre ,
Perocché tutto il vedi senza velo!
Soccorrimi , chè solo non so ire.
Ed appena ebbi finito quei prego,
Ch’Io mi vidi uno dinanzi apparire.
Qui con più fretta I piedi a terra frego
Inverso lui, e poiché mi fu chiaro,
Con riverenza tutto a lui mi piego.
Con un vago latin onesto e caro,
Dimmi chi se’, mi disse, e dove vai?
Poi gli occhi suol In poco s’abbassaro.
Com’ei si tacque, cosi incominciai;
10 mi son un novellamente desto.
E ’l dove c ’l quando , tutto gli narrai.
Appresso anello gli feci manifesto
Dì quel romito, a cui la barba lista,
Cli' era a veder si vecchio e tanto onesto.
Poi della scapigliata magra e trista.
La qual per dare sturbo alla mia impresa,
M’era apparila con si orribil vista :
E siccom’lo dopo lunga contesa
L'avea cacciata, e trovato colui,
11 qual del mondo I dubbj mi palesa :
E che poiché partito da lui fui,
L’Impresa mia si facea vile c scema :
E il conforto eh’ lo presi ; e ciò da cui.
Ciascun d' entrar nella battaglia ha
tema ,
Se non è matto, e quello è più pregiato,
Che poiché v’è, più vede e meno trema.
Ma non dubbiar, poiché m' hai qui
trovato.
Ch'io non ti guidi per tutto 11 cammino,
Purché dal Sommo il tempo ti sia dato.
Così mi disse , ed lo : 0 peregrino ,
Dimmi , chi se’ ? Ed el rispose adesso :
Anticamente fui detto Solino.
Solin, diss'io, sc'tti quel proprio desso,
Che divisò 11 principio, li fine, il mezzo
Del mondo e l' abitato , e ciò eh’ è In esso ?
Colui son io. Onde allora un ribrezzo
Colai mi prese, qual lalor li verno
A chi sta fermo mal vestito ai rezzo.
Per meraviglia al padre sempiterno
Mi trassi , e dissi : Indarno onor procaccia.
Qual te non prega c vuol per suo governo.
Poscia rivolsi al mio Solin la faccia,
E dissi : 0 caro, o buon soccorso mlol
Del tutto qui mi do nelle tue braccia.
Senza più dire allora ci si pardo ,
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18 POEMI
Ed io appresso , sempre dande ’l loco ,
Acceso caldamente d’ un desio.
Orni’ egli accorto : Per sfogare il foco ,
Mi disse , fa die svampi fuor la fiamma ,
Cliè l’andar sema il dir varrebbe poco.
Allor, come il flgliuol che alla sua mani-
Con riverenza parla, dissi : 0 sole, [ma
In cui non manca di mia voglia dramma ;
Quel che da te prima l’ animo vuole.
Sì e d’aver partito per rubrica
11 mondo; e queste fur le mie parole.
Ed egli a me ; Nella mia età antica
Tutto il notai, bench'ora mal s’incappa
L' noni , perchè non intende quel di' lo
E però loco formerò una mappa , [dica.
Tal che l' intenderanno, nn i che tue,
Color che sanno appena ancor dir pappa.
Acciòchc andando listarne purnoi due,
E trovandoci a’ porti ed alle rive ,
Sappi , quando saremo giù c sue.
E tu , coni' io lei conto, tal lo scrive.
CAPITOLO XI.
Ili breve I' ho assai chiaro discoperto
Del mondo l’abitato, c come giace;
Benché ’l veder te ne farà più spedo.
Cosi mi disse , ed io : Forte mi piace
Il tuo parlar; ma in più d' un punto bra-
che lo'nlellctlo mio riposi in pace, [mo,
Dimmi : Quel luogo , onde cacciato Ada-
Con Èva fu , dov’ è , chè tu noi poni [mo
Nè sulla terra , nè mostri alcun ramo ?
Ed egli a me : Diverse opinioni
State vi son , ma suso in Oriente
Per la più parte par che si ragioni.
E questo è un monte ignoto a tutta gente
Alto, che giunge sino al primo cielo,
Onde il puro acre il suo bel grembo sente.
Quivi non è giammai freddo nè gelo ,
Quivi non per fortuna onor si spera ,
Quivi non pioggia, o di nuvolo è velo.
Quivi è F arbor di vita , e primavera
Sempre con gigli , con roso c con fiori ,
Adorno c picn d’una e d'altra riviera.
Quivi tanti piacer di vaghi odori
Vi sono , c tanta dolce melodia ,
Che par che quel che v’è vi s’innamori.
Vecchiezza c infermità non sa che sia
Giammai colui , che dentro ivi giunge :
E questo prova Enoc ed Kli^ [ punge.
Ma muovi i passi ornai, ch'altro mi
EROICI.
Ed lo : Va pur, chè dietro alle tue spalle
Non mi vedrai più d' un passo da lunge.
E così mi guido di calle in calle
Tanto , che noi giugnemmo sopra un fiu-
Che si spandea per una bella valle ; [me ,
Sopra la quale per lo chiaro lume
Del sol, eli' era alto, ivi una donna scorsi:
Vecchia era In vista, e trista per costume.
Gli occhi da lei, andando, mai non torsi ;
Ma poiché presso le fui giunto tanto ,
Ch’io l'avvisava senza nessun forsi.
Vidi 11 suo volto , eh' era picn di pianto.
Vidi la vesta sua rotta e disfatta,
E raso c guasto il suo vedovo manto.
E con tutto che fosse cosi fatta ,
Pur nell' abito suo onesto e degno
Mostrava uscita di gentile schiatta.
Tanto era grande , c di nobil contegno,
Ch’ io diceva fra me : Ben fu costei ,
E pare ancor da posseder bel regno.
Maravigliando più mi trassi a lei,
E dissi : Donna , per Dio non vi noi
Di soddisfare alquanto a’ desìr miei;
Ch' io riguardo dall' una parte voi ,
Che negli alti mostrale si gentile ,
Ch' io dico : il elei qui porse i raggi suoi.
Poi d'altra parte parete si vile.
Si dispregiala , c con nero vestire ,
Che mio pcnsler rivolgo ad altro stile.
Qual piange sì, che vuole e non può dire,
Cosi costei alquanto si disciolse
Bagnandosi nell’ acqua del martire :
Ma poiché il core alquanto lena colse ,
E che sfogata fu la molta voglia,
SI rispondendo inverso me sì volse :
Non ti maravigliare s'io ho doglia ,
Non ti maravigliar se trista piango ,
Nè se me vedi in si misera spoglia ;
Ma fatti maraviglia, ch’io rimango,
E non divento, qual divenne Ecuba,
Quando gitiava altrui le pietre e il fango.
Perchè men suon non diè già la mia tuba,
Nè minor fui di sposo c di figliuoli.
Nè meno ho sostenuto danno c ruba.
Onde quando mi trovo in tanti duoli ,
E ricordo lo stalo in che già fui ,
Clic governava il mondo co' miei stuoli ,
Piango fra me, chè qui non ho con cui.
Ori’ ho risposto a quel , che mi chiedesti,
Forse con versi troppo chiusi e bui.
Se quel clic tutto regge ancor vi presti
Tanto di grazia per la sua piotate ,
Che degli antichi onori vi rivesti ,
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DEL D1TTAM0ND0. IT
Fatemi ancora tanto di bontale,
Ch’io oda, come in vostra giovinezza
Foste cresciuta in tanta degnitate ,
E fino a cui salio vostra grandezza ,
E la cagion perchè da tanto onore
Caduta siete in cotanta bassezza.
Questo prego le fcì con tanto amore ,
Ch'ella rispose : Al tuo piacer soli presta,
Ma non Se il ricordar senza dolore.
Poi cominciò , e la Torma Tu questa :
CAPITOLO XII.
Nel tempo che nel mondo la mia spera
Apparve in prima qui dove noi stiamo ,
Dopo il diluvio ancor poca gente era.
Noè, che si può dire un altro Adamo,
Navigando per mar giunse ai mio iito,
Come piacque a Colui , eli’ io credo ed
E tanto gli Tu dolce questo sito , [amo ;
Che per riposo alla sua fine il prese
Con darmi più del suo, eh' io non ti addilo.
Giano appresso a dominarmi intese,
E costui mi adornò d' una corona ,
Insieme con Jafet e con Camese.
Italo poi un'altra me ne dona.
SI Te’ Saturno , che di Creti venne ,
Lo qual molto onorò la mia persona.
Ercole , quel che nelle braccia tenne
Paliante , per lo suo valor, non meno
Che gli altri , fece ciò che si convenne.
Evandro con gii Arcadj ricco e pieno
Una ne fabbricò nel nome mio ,
Maggiore assai che gii altri non mi feno.
Roma , A ventino , e Glauco non oblio ,
I quai men fenno tre , tal che ciascuna
Per sua beltà in gran pregio salio.
E si ni’ era allor dolce la fortuna ,
Che da Oriente a me venne il re Tibrl ,
Al quai piacendo ancor, me ne fe' una.
Ma perchè d’ogui dubbio ti dclibri ,
E sappi ragionar, se inai t'alfroiui
Con genica cui diletti legger libri,
Piacemi ancor che piu chiaro ti conti.
Sappi , queste corone eh' io ti dico ,
Mi fur donate dentro a sette monti.
Ma qui ritorno a Giano mio antico ,
Del qual ti ho dello , che dopo Noè
Gli piacque il luogo dove i’ mi nutrico.
De' Latin fu costui il primo re ,
Pien di scienza c cotanta virlute.
Che di molte gran cose al mondo fè.
Costui trovò le gemi si perdute
D’ogni argomento, che a fredde vivande
Vivevan , come bestie matte e mute.
Chiare fontane ed erbe crude e ghiande
Eran lor cibo , ed abitavan sparti
A libilo ne' boschi e per le laude.
Esso li raguuò da tutte parti ,
E raddrizzolli nel vivere alquanto,
Mostrando loro e disgrossando Farli.
Della sua morte si fece gran pianto ,
Sette e venti anni regnò, e tra lor era
Tenuto, come è or fra noi un santo.
E s'io debbo seguir ben mia matera ,
E del caldo desio , del quale asseti ,
Trarli la brama, come 1’ hai, intera.
Dir mi conviene siccome da Creti
Saturno sen foggio e venne a Giano,
Perchè il figliuol noi prendesse in le reti.
Crudele e pronto a mal tratto villano ,
Avaro , si che sempre il pugno serra ,
Costui dipingo e con la falce in mano.
Tre figliuoli ebbe, lddii nomati In terra,
Nettuno l’un, qual si dice marino.
Dal mar sorbito nella trista guerra;
L’altro fu Pluto, del quale il destino
Fu tal , che avendo un paese in governo
Sabatico, boscoso e pellegrino ,
Lo padre suo per gola , s’ io dlscerno ,
Del regno, il fe' morire a tradimento ,
E nominato fu Dio dell’inferno;
Giove regnava, secondo ch’io sento.
Sotto l'Olimpo, che pria prova il gelo
Cheli sol del tutto a Virgo scaldi T mento.
Costui , perdi' ebbe ognor diletto e zelo
Nell'alto monte, ed attese a virtute.
Si disse dopo morte il Dio del cielo.
Ora vedendo le mortai ferule
De' suoi fratelli , il padre cacciò via ,
Si per vendetta c si per sua salute.
Di qua fuggio , come ti ho detto pria ,
Nascoso stava , e quando Gian niorio ,
Rimase solo a lui la signoria;
E benché fosse tanto avaro e rio ,
Nondimen era scaltro ed intendente,
E sottil molto ad ogni macslrio.
Costui mostrò di far navi alla gente ,
Scudi , moneta e di terra lavoro ,
Che prima ne sapean poco o niente.
A questa età si disse età dell' oro,
Perchè la gente viveva in comuno
Sobria , casta e libera fra loro ,
Semplice, pura c senza vizio alcuno.
POEMI EROICI.
1»
Ora Io cielo che ogni cosa chiama
Ad ordinato tempo , li suoi lumi
Volse Ter me per darmi onore e fama.
I due gemelli che per bei costumi
Nomare potrei Castore e Polluce ,
E di beltà, per quei eh" avviso, numi,
S’ innamorar della mia bella luce ;
Ma I" un fu morto , e qui si tace il come ,
L’ altro rimase sol signore e duce.
Dal nome di costui presi il mio nome :
E certamente il primo sposo fuc.
Che sentisse il piacer del mio bel pome.
Tonando la tempesta cadde gine ,
E comcchò rapito o morto fosse ,
I’cr me dappoi non si rivide piuc.
Se di lui m" arse il core , e se mi cosse ,
Pensar lo dei , cliè a dirlo sarebbe
Un ri novare duolo alle mie angosce,
E dir non lei saprei , si me n' increbbe.
POLIZIANO.
STANZE
PER LA GIOSTRA DEL MAGNIFICO
GIULIANO DI PIERO DE’ MEDICI.
LIBRO PRIMO.
Le gloriose pompe c 1 fieri ludi
Della città che "1 freno allenta c stringe
A" magnanimi Toschi ; e i regni crudi
Di quella Dea che "1 terzo ciel dipinge ;
E 1 premj degni agli onorali studi ,
La mente audace a celebrar mi spinge ,
Sì che i gran nomi, c 1 fatti egregi e soli
Fortuna o morte o tempo non Involi.
0 bello Dio, eh’ al cor per gli occhi spiri
Dolce desir d" amaro pensicr pieno ,
E pasciti di pianto e di sospiri ,
Nutrisci l’ alme d’ un dolce veneno ;
Gentil fai divenir ciò che tu miri ,
Ni può star cosa vii dentro al tuo seno ;
Amor , del quale i’ son sempre suggello ,
Porgi or la mano al mio basso intelletto.
Sostlen tu ’l fascio die a me tanto pesa ;
Reggi la lingua, Amor, reggi la mano;
Tu principio, tu fin dell'alta impresa:
Tuo fie l’ onor ; s' io già non prego invano.
Di’ Signor , con che lacci da te presa
Fu l' alta mente del baron toscano ,
Piò gtoven figlio dell'etnisca Leda;
Che reti fumo ordite a tanta preda.
E tu , ben nato Laur , sotto il cui velo
Fiorenza lieta in pace si riposa ,
Nè teme i venti , o '1 minacciar dei deio ,
0 Giove irato in vista più crucciosa ,
Accogli all’ ombra dd tuo santo ostdo
La voce umil , tremante , e paurosa ;
Principio e fin di tutte le mie voglie ,
Clic sol vivon d’ odor delle tue foglie.
Deh sarà mai che con più alle note.
Se non contrasti al mio voler fortuna ,
Lo spirto delle membra che devote
Ti fur da' fati insin già dalia cuna ,
Risuoni tc dai Numidi a Boote,
Dagl’Indi al marche '1 nostro ciel imbruna;
E, posto '1 nido in tuo felice tigno,
Di roco augel diventi un bianco cigno T
Ma fin eh' all* atta impresa tremo e bra-
E son tarpati i vanni al mio disio , [mo ,
Lo glorioso tuo fratei cantiamo ,
Che di nuovo trofeo rende giullo
il chiaro sangue , e di secondo ramo.
Comien che sudi in questa polverio:
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STANZE.
Or muori prima tu mie' versi , Amore ,
Che ad alto volo impenni ogni vii core.
E se quassù la lama Q ver rimbomba,
Che d* Ecuba la figlia , o sacro Achille ,
Poi che '1 corpo lasciasti entro la tomba ,
T accenda ancor d' amorose faville ;
Lascia tacer un po' tua maggior tromba,
Ch'Io fo squillar per l’ italiche ville ,
E tempra tu la cetra a nuovi carmi ,
Mente' io canto l' amor di Giulio, e Tarmi,
Nel vago tempo di sua verde elale.
Spargendo ancor pel volto 11 primo fiore.
Nè avendo il bel Giulio ancor provale
Le dolci acerbe cure che di Amore ,
Vivessi lieto in pace. In liberiate,
Talor frenando un gentil corridore ,
Che gloria fu de' ciciliani armenti ;
Con esso a correr contendea co’ venti :
Ora a guisa saltar di leopardo ,
Or destro fea rotarlo in brievc giro :
Or fea ronzar per l' aer un lento dardo ,
Dando sovente a fere agro martiro :
Colai vivessi '1 giovane gagliardo :
Nè pensando al suo fato acerbo e diro,
Nè certo ancor de’ suol futuri pianti,
Solea gabbarsi degli afflitti amanti.
Ab quante Ninfe per lui sospiromol
Ha fu si altero sempre li giovinetto.
Che mai le Ninfe amanti Io plcgorno ;
Mal poli riscaldarli *1 freddo petto.
Pacca sovente pe’ boschi soggiorno ;
Incubo sempre , e rigido In aspetto :
Il volto difendea dal solar raggio
Con ghirlanda di pino, o verde faggio.
E poi quando nel del parean le stelle ,
Tutto gioioso a sua magion tornava ,
E ’n compagnia delle nove Sorelle ,
Celesti versi con disio cantava ;
E d’ antica virtù mille fiammelle
Con gli alti carmi ne' petti destava :
Cosi chiamando amor lascivia umana ,
Si godea con le Muse , o con Diana.
E se talor nel cieco labirinto
Errar vedeva un miscredo amante.
Di dolor carco, di pietà dipinto
Seguir de la nemica sua le piante;
E dove Amore il cor gii avesse av vinto ,
Li pascer l’alma di due iud sante ,
Preso nelle amorose crudo! gogne ;
Si l’ assaliva con agre rampogne :
Scuoti, meschin,da! petto il cieco errore
Ch'a le stesso ti fura, ad altrui porge:
Non nutrir di lusinghe un van furore
Che di pigra lascivia e d’ orlo sorge.
Costui che 1 volgo errante chiama Amore,
È dolce Insania a ehi più acuto scorge.
Si bel tftol d' amore ha dato 'I mondo
A una deca peste , a un mal giocondo.
Quanto è meschin colui che cangia voglia
Per donna, o mal per lei s’ allegra, o dole
E qual per lei di libertà si spoglia,
0 crede a' suol sembianti, o a sue parole !
Chè sempre è più leggier ch’ai vento foglia,
E mille volte II di v uole e disvuole :
Segue clil fugge , a chi la vuol s'asconde ;
E vanne e vien come alla riva 1* onde.
Giovane donna sembra veramente
Quasi sotto un bel mare acuto scoglio,
Ovvcr tra’ fiori un giovinoci serpente
Uscito pur mo fuor del vecchio scoglio.
Ah quanl’è fra’ più miseri dolente
Chi può soffrir di donna il fiero orgoglio !
Chè quanto ha il volto più di beltà pieno,
Più cela Inganni nel fallace seno.
Con esso gli occhi giovenill invesca
Amor , che ogni penslcr maschio vi fura :
E quale un tratto Ingozza la dolce esca ,
Mal di sua propria libertà non cura;
Ma, come se pur Lete Amor vi mesca,
Tosto obbllate vostra alta natura ;
Nè poi viril pensiero In voi germoglia:
Si del proprie valor costui vi spoglia.
Quanto è più dolce, quanto è più sicuro
Seguir le fere fuggitive in caccia
Fra boschi antichi fuor di fossa o muro,
E spiar lor covil per lunga traeda!
Veder la valle e '1 colle e l’ aer puro,
L’crbe, I fior, l’acqua viva chiara c ghiaccia!
Udir gli augei svernar, rimbombar l' onde,
E dolce al vento mormorar le fronde!
Quanto giova a mirar pender da un’ erta
Le capre, e pascer questo e quel vir-
gulto ;
E ’l montanaro all’ombra più conserta
Destar la sua zampogna e ’l verso inculto !
Veder la terra di pomi coperta ,
Ogni arbor da’ suo' frutti quasi occulto ;
Veder cozzar monton , vacche mugghiare
E le biade ondeggiar come fa il mare !
Or delle pecorelle 11 rozzo mastro
Si vede alla sua torma aprir la sbarra :
Poi quando muove lor col suo vincastro.
Dolce è a notar come a ciascuna garra :
Or si vede il vlllan domar col rastro
Le dure zolle , or maneggiar la marra :
Or la contadlnella scinta e scalza
io POEMI
Star con l’ oche a filar sotto una balia.
In cotal guisa già l' antiche genti
Si crede esser godute al secol d' oro :
Nè latte ancor le madri eran dolenti
De' morti figli al marzia! lavoro :
Nè si credeva ancor la vita a' venti.
Nè del giogo dolcasl ancora il toro.
Lor casa era fronzuta quercia e grande ,
Ch'avea nel tronco mcl, ne’ rami ghiande.
Non era ancor la scellerata sete
Del crude! oro entrata nel bel mondo :
Vlveansi in libertà le genti liete;
E non solcalo, Il campo era fecondo.
Fortuna invidiosa a lor quiete
Ruppe ogni legge, c pietà mise in fondo.
Lussuria entrò ne’ petti , e quel furore
Cbe la meschina gente chiama amore.
In colai guisa rimordea sovente
L’altiero giovinetto i sacri amanti;
Come lalor chi sè gioioso sente.
Non sa ben porger fede agli altrui pianti :
Ma qualche misercllo a cui l'ardente
Fiamme struggeano i nervi tutti quanti ,
Gridava al del : Giusto sdegno ti muova ,
Amor, chè costui creda alinen per prova.
Nè fu Cupido sordo al pio lamento;
E ’ncomlnciò crudelmente ridendo:
Dunque non sono Iddio ? dunque è già
spento
Mio foco, conche tulio il mondo accendo?
Io pur fei Giove mugghiar fra l’ armento ,
Io, Febo dietro a Dafne gir piangendo :
Io trassi Plulo dell' internai seggo :
E chi non ubbidisce alla mia legge!
Io fo cadere al tigre la sua rabbia ,
Al leone il ficr roggio , al drago il fischio.
E quale è uom di si secura labbia ,
Che fuggir possa il mio tenace vischio?
E che un superbo in si vii pregio m'abbla,
Che di non esser Dio vengo a gran rìschio?
Orvcggiam se '1 meschin eh’ Amor ri-
prende ,
Da due begli occhi sè stesso difende.
Zefiro già di bei fioretti adorno
Avea da' monti tolta ogni pruina :
Arca fatto al suo nido già ritorno
La stanca rondinella peregrina;
Risonava la selva intorno intorno
Soavemente all'ora mattutina :
E l'ingegnosa pecchia al primo albore
Giva predando or uno or altro fiore.
L’ardito Giulio, al giorno ancora acerbo,
Allor ch’ai tufo toma la civetta,
EROICI.
Fatto frenare II corrldor superbo.
Verso la selva con sua gente eletta
Prese il cammino, e sotto buon riserbo,
Seguia de' fedcl can la schiera stretta ,
Di ciò che fa mestieri a caccia adorni ,
Con archi c lacci e spiedi e dardi e comi.
Già circondata avea la lieta schiera
Il folto bosco; c già con grave orrore
Del suo covll si destava ogni fiera :
Givan seguendo i bracchi '1 lungo odore.
Ogni varco da' lacci, e can chiuso era:
Di stormir , d' abbaiar cresce il romore :
Di fischi e bussi tutto il bosco suona:
Del rimbombar de’ corni 11 elei rintrona.
Con tal romor, qualor l’aer discorda,
Dì Giove il foco d’alta nube piomba:
Con tal tumulto, onde la gente assorda,
Dall'alto cataratlc il Mi rimbomba:
Con tal orror del latin sangue ingorda
Sonò Megera la tartarea tromba.
Qual animai di stizza par si roda;
Qual serra al ventre la tremante coda.
Spargesl tutta la bella campagna.
Altri alle reti , altri alla via più stretta.
Chi serba in coppia i can , chi gli scom-
pagna , [e allctta.
Chi già il suo ammette, chi ’l richiama,
Chi sprona il buon destrier per la cam-
elli l'adirata fera armato aspetta, [pagna.
Chi si sta sopra un ramo, a buon riguardo,
Chi ha In man lo spiede , c chi s’ acconcia
il dardo.
Già le setole arriccia , e arruola i denti
Il porco entro II burron : già d' una grotta
Spunta gìùllcavriol : già i vecchi armenti
De' cervi van pel pian fuggendo in frotta.
Timor gl'inganni delle volpi ha spenti :
Le lepri al primo assalto vanno in rotta.
Di sua tana stordita esce ogni belva*.
L’astuto lupo vie più si rinselva:
E rinselvalo , le sagaci nare
Del picciol bracco pur teme il meschino:
Ma il cervo par del veltro paventare;
De’ lacci 'I porco, o del fiero mastino.
Vedesi lieto or qua or là volare [ grino :
Fuor d'ogni schiera il giovan pelle*
Pel folto bosco 11 ficr cavai mette aie ;
E trista fa , qual fera Giulio assale.
Qual 11 Ccntaur per la nevosa selva
Di Pelio o d' Emo va feroce in caccia ,
Dalle lor tane predando ogni belva;
Or l' orso uccide , or il Don minaccia.
Quanto è più ardita fera, più s’inselva :
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STANZE.
Il sangue a tutte dentro al cor s’agghiaccia.
La selva trema , e gli cede ogni pianta :
Gli arbori abbatte o sveglie , o rami
schianta.
Ah quanto a mirar Giulio è Aera cosa!
Rompe la via dove più il bosco è follo ,
Per trar di macchia la bestia crucciosa ,
Con verde ramo intorno al capo avvolto,
Con la chioma arrulTata e polverosa ,
E d'onesto sudor bagnato il volto.
Ivi consiglio a sua bella vendetta
Prese Amor, clic ben loco e tempo aspetta.
E con sue man di lieve aer compose
L' immagin d' una cena altiera e bella ,
Con alta fronte, con corna ramose.
Candida tutta , leggiadrctta , e snella :
E come tra le fere paventose
Al giovan cacciator si offerse quella ,
Lieto spronò il destrier per lei seguire ,
Pensando in breve darle agro martire.
Ma poi che invan dal braccio il dardo
Del foder trasse fuor la fida spada , [scosse ,
E con tanto furor il corslcr mosse ,
Che ’1 bosco follo sembrava ampia strada.
La bella fiera , come stanca fosse ,
Più lenta tuttavia par che scn vada :
Ma quando par che gii la stringa o tocchi,
PlccioI campo riprende avanti agli occhi.
Quanto più slegue invan la vana effigie,
Tanto più di seguirla invan s'accende :
Tuttavia preme suo stanche vestigio ,
Sempre la giugne; e pur mal non la prende.
Qual fino al labbro sta nell' onde stigie
Tantalo, e’I bel giardin vlcin gli pende :
Ma qualor T acqua o '1 pome vuol gustare,
Subito l’acqua o'I pome via dispare.
Era gii dietro alla sua disianza
Gran tratto da' compagni allontanato;
Nè pur d'un passo ancor la preda avanza;
E gii tutto il destrier sente affannato.
Ma pur seguendo sua vana speranza ,
Pervenne in un fiorito e verde prato :
Ivi sotto un vel candido gli apparve
Lieta una Ninfa ; e via la fiera sparve.
La fiera sparse via dalle sue ciglia.
Ma il giovan della fiera ornai non cura ,
Anzi ristringe al corridor la briglia ,
E lo raffrena sopra alla verdura.
Ivi tutto ripten di maraviglia
Pur della Ninfa mira la figura :
Parglì che dal bel viso e da’ begli occhi
Una nuova dolcezza al cor gli fiocchi.
Qual tigre, a cui dalla petrosa tana
Ha tolto il cacciator suoi cari figli ,
Rabbiosa il segue per la selva irrana,
Chè tosto crede insanguinar gli artigli :
Poi resta d'uno specchio all' ombra vana,
All'ombra che I suoi nati par somigli :
E mentre di tal vista s’innamora
La sciocca, il piedator la via divora.
Tosto Cupido entro a' begli ocelli ascoso
Al nervo adatta del suo strai la cocca,
Poi tira quel col braccio poderoso
Tal che raggiugne l'una all’altra cocca.
La man sinistra col ferro focoso,
La destra poppa con la corda tocca ;
Nè prima fuor ronzando esce il quadrello,
Che Giulio dentro al cor sentito ha quello.
Ah qual divenne tali come al giovanetto
Corse il gran foco in tutte le midolle !
Che tremilo gli scosse il cor nel petto!
D'un ghiaccialo sudore era giù molle;
E fatto ghiotto del suo dolce aspetto
Giammai gli ocelli dagli occhi levar puollc ;
Ma tutto preso dal vago splendore
Non s’ accorge il meschin che quivi è
Amore; [rnato
Non s’accorge che Amor 11 dentro è ar-
Per sol turbar la sua lunga quiete ;
Non s’accorge a che nodo è già legalo;
Non conosce sue piaghe ancor secrcte.
Di piacer, di desir tulio è Invescato;
E cosi il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sè loda , e 'I viso c 'I crino ,
E’n lei discerne non so clic divino.
Candida è ella, e candida la vesta.
Ma pur di rose c fior dipinta e d'erba ;
Lo innanellato crin dell' aurea testa
Scende in la fronte umilmente superba.
Ridete attorno tutta la foresta ,
E quanto può sue cure disacerba.
Nell'atto regalmente è mansueta;
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
Folgoran gli occhi d’ un dolce sereno ,
Ove sue faci tien Cupido ascose ;
L’aer d'intorno si fa tutto ameno,
Ovunque gira le luci amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno
Dolce dipinto di ligustri e rose.
Ogni aura tace al suo parlar divino,
E canta ogni augelletlo in suo latino.
Sembra Talia, se in man prende la cetra ;
Sembra Minerva.se in man prende l'asta:
Se T arco ha in mano, al fianco la faretra,
Giurar potrai clic sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
}1 POEMI
E poco avanti a lei superbia basta.
Ogni dolce virtù l'è in compagnia :
Beiti la mostra a dito e leggiadria.
Con lei scn va onestate umile e piana.
Che d’ ogni chiuso cor volge la chiave :
Con lei va gentilezza in vista umana,
E da lei impara il dolce andar soave.
Non puù mirarle in viso aima villana,
Se pria di suo fallir doglia non ave.
Tanti cori Amor piglia, fere e ancide.
Quanto ella o dolce parla , o dolce ride.
Ella era assisa sopra la verdura
Allegra, e gliirlandelta avea contesta;
Di quanti fior creasse mai Natura ,
Di tanti era dipinta la sua vesta.
E come in prima al giovan pose cura,
Alquanto paurosa alzò la lesta :
Poi con la bianca man ripreso il lembo ,
Bevessi in piè con di fior pieno un grembo.
Gii s' inviava per quindi partire
La Ninfa sopra l’erba lenta lenta.
Lasciando il giovanetto in gran martire ;
Chè fuor di lei nuli’ altro a lui talenta.
Ma non posscndo il miser ciò soffrire ,
Con qualche priego d’ arrestarla tenta;
Perchè , tutto tremando e tutto ardendo.
Cosi umilmente incominciò dicendo :
0 qual che tu ti sia, vergin sovrana,
0 Ninfa, oDca [ma Dea mi sembri certo :
Se Dea ; forse clic se’ la mia Diana :
Se pur mortai; chi tu sia fammi aperto;
Chè tua sembianza è fuor di guisa umana ;
Nè so giù io qual sia tanto mio merlo ,
Qual del del grazia, qual slamica stella,
Ch’ io degno sia veder cosa si bella.
Volta la Ninfa , al suon delle parole
Lampeggiò d’ un si dolce e va^o riso ,
Che i monti avria fatto ir, restare il sole;
Chè ben parve s’ aprisse un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole
Tal , eh’ un marmo per mezzo avria diviso,
Soave , saggia , e di dolcezza piena ,
Da innamorar, non eh’ altri , una Sirena.
Io non son qual tua mente invano augu-
ria;
Non d’aitar degna , non di pura vittima ;
Ma là sopr’Arno nella vostra Etruria
Sto soggiogata alla teda legittima ;
Mia natal patria è nell’ aspra Liguria
Sopr’ una costa alla riva marittima,
Ove fuor de’ gran massi intorno gemere
SI sente il fier Nettuno, c irato fremere.
Sovente In questo loco mi diporto :
EROICI.
Qui vengo a soggiornar tutta soletta.
Questo è de’ miei pensieri un dolce porto ;
Quil’erba,! Dori, e’ifrcscoaer rr.’ alletta.
Quinci ’l tornare a mia magion è corto ;
Qui lieta mi dimoro Simonetta
All’ ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
E spesso in compagnia d’ alcuna Ninfa.
lo soglio pur negli oziosi tempj ,
Quando nostra fatica s’interrompe.
Venire a’ sacri aitar ne’ vostri tempi
Fra l’allre donne, con l’usate pompe.
Ma perch’io iti tutto ilgran desir C adempì,
E ’l dubbio tolga die tua mente rompe.
Maraviglia di mie bellezze tenere
Non premier già ch’i’ nacqui in grembo
a Venere.
Or poi die ’i sol sue rote in basso cala ,
E da quest’ arbor cade maggior l' ombra ,
Già cede al grillo la stanca cicala.
Già il rozzo zappator del campo sgombra}
E già dall’ alte ville il fumo esala;
La villanella all’ uotn suo il desco ingoa-
Omai riprenderò mia via più corta: [bra;
E tu lieto ritorna alla tua scorta.
Poi con ocelli più lieti e più ridenti.
Tal cbe’l del tutto asserenò d’ intorno.
Mosse sopra l’erbetta i passi lenti
Con atto d’ amorosa grazia adorno.
Fcciono i boschi allor dolci lamenti ,
K gli augclietti a pianger coininciorno :
Ma l’erba verde sotto i dolci passi
Bianca , gialla , vermiglia , azzurra fassi.
Che de’ far Giulio? ahimè che pur de-
sidera
Scguirsua stella ; c pur temenza il tiene ;
Sta come un forsennato , e ’l cor gli assi-
dera,
K gli s* agghiaccia il sangue entro le vene :
Sta come un marmo fiso , c pur considera
Lei die sen va , nè pensa di sue pene ;
Fra sè lodando ii dolce andar celeste,
E il ventilar dell’ angelica veste.
E par che ’lcor del petto se gli schianti,
E che del corpo I* alma via si fugga ,
E clic a guisa di brina al sol davanti
In pianto tutto si consumi e strugga.
Già si sente esser un degli altri amanti ,
E pargli che ogni vena Amor gli sugga ,
Or teme di seguirla , or pure agogna :
Qui il tira Amor, quinci ’l ritrae vergogna.
U’ sono or, Giulio, le sentenzie gravi ,
Le parole magnifiche c i precetti.
Con che i miseri amanti molestavi?
STANZE. 23
Perchè pur di cacciar non li diletti ?
Or ecco eh’ una donna ha in man le chiavi
I)' ogni tua voglia, e tutti io lei ristretti
Tien, miscredo, i tuoi dolci pensieri :
Vedi che or non se’ chi pur diami eri.
Dianzi eri di una fiera cacciatore :
Più bella fiera or P ha ne’ lacci involto.
Dianzi eri tuo , or se’ fatto d’ Amore :
Se’ or legato , e dianzi eri disciolto.
Dov’ è tua liberti 1 dov’ è tuo core 1
Amore ed una donna te 1’ han tolto :
Ed acciocché a te poco creder deggi ,
Ve’ che a virtù, a fortuna Amor ponteggi.
La notte , che le cose ci nasconde ,
Tornava ombrata di stellato ammanto ,
E ’l lusignluol sotto l’ amate fronde
Cantando ripelea l’ antico pianto.
Ma solo a suoi lamenti Ecco risponde ;
Ch’ ogn’ altro augei queUto avea gii il can-
Dalla cimmeria valle uscian le torme [to.
De' Sogni negri con diverse forine.
I giovan che restati nel bosco erano ,
Vedendoli ciel gii le sue stelle accendere.
Sentito il segno , al cacciar fine imperano.
Ciascun s’ affretta a lacci e reti stendere.
Poi con la preda in un sentier si schiera-
li] s’ attende sol parole a vendere; [no :
Ivi menzogne a «il prezzo sì mcrcano.
Poi tutti dei bel Giulio fra sè cercano.
Ma non reggendo il car compagno in-
Agghiaccia ognun di subirapaura, torno,
Che qualche dura fiera U suo ritorno
Non impedisca , od altra ria sciagura.
Chi mostra fochi , e chi squilla ii suo cor-
chi forte il chiama perla selva oscura, [no;
Le lunghe voci ripercosse abbondano ;
E Giulio parche le valli rispondano.
Ciascun si sta per la paura incerto.
Gelato tutto ; se non che pur chiama ,
Veggendo ii ciel di tenebre coperto ,
Nè sa dove cercare , ed ognun brama.
Pur, Giulio , Giulio , suona il gran diserto ;
Non sa che farsi ornai la gente grama.
Ma poi che molta notte Indarno spesero ,
Dolenti per tornare il camrnin presero.
Cheti sen vanno ; e pur alcun col vero
La dubbia speme alquanto riconforta ,
Che sia reddito per altro sentiero
Al loco ore s’ invia la loro scorta, [siero,
Ne’ petti ondeggia or questo or quel pen-
Chc fra paura e speme il cor trasporta.
Cosi raggio che specchio mobil feria ,
Per la gran sala or qua or U si scherza.
Ma il giovili , che provato avea gii l’ arco
Ch’ ogn’ altra cura sgombra fuor del petto,
D’ altre spemi c paure e pensier carco.
Era arrivato alla magio» soletto.
Ivi pensando ai suo novello incarco
Stava in forti pensier tutto ristretto.
Quando la compagnia piena di doglia
Tutta pensosa cntrù dentro alla soglia.
Ivi ciascun più da vergogna involto
Per gli alli gradi sen va lento lento.
Qual il pastnr a cui T Iter lupo ha tolto
II più bel loro del cornuto armento;
Tornansi al lor signor con basso volto ;
Nè s’ a rdiscon d’ entrare all’ uscio drento:
Stan sospirosi , e di dolor confusi ;
E ciascun pensa pur come si scusi.
Ma tosto ognuno allegro alzò le ciglia
Veggendo salvo il si caro pegno;
Tal si fé’ poi che la sua dolce figlia
Ritrovò Ccres giù nel morto regno.
Tutu festeggia la lieta famiglia :
Con essa Giulio di gioir fa segno;
E quanto può nel cor preme sua pena ,
E ii volto di letizia rasserena.
Ma fatto Amor la sua bella vendetU ,
Mossesi lieto per l’ acre a volo,
E ginne al regno di sua madre in fretta,
Ov’ è de’ picciol suoi fralci Io stuolo.
Al regno ove ogni Grazia si diletta ;
Ove BcIU di fiori al crin fa brolo ;
Ove tutto lascivo dietro a Fiora
Zefiro vola , c la verde erba infiora.
Or canu meco un po’ del dolce regno ,
Erato bella , che il nome hai d’ Amore.
Tu sola, benché casta, puoi nei regno
Sicura entrar di Venere e d’ Amore.
T u de’ versi amorosi hai sola ii regno :
Tcco sovente a cantar viensl Amore;
E posta giù dagli omcr la faretra.
Tenta le corde di tua bella cetra.
Vagheggia Cipri un dilettoso monte.
Che del gran Nilo i sette corni vede
Al primo rosseggiar deli’ orizzonte,
Ove poggiar non lice a mortai piede.
Nel giogo un verde colle alza la fronte ;
Soli’ esso aprico un lieto pratel siede ;
L" scherzando tra’ fior lascive aurcttc.
Fan dolcemente tremolar 1’ erbette.
Corona un muro d’ or l’ estreme sponde
Con valle ombrosa di schietti arboscelli ,
Ove in su’ rami fra novelle fronde
Cantan gii loro amor soavi augelli.
Sditesi un grato mormorio dell' onde
24 POEMI
Che fan duo freschi e lucidi ruscelli ,
Versando dolce con amar liquore ,
Ore arma I' oro de' suoi strali Amore.
Nè mal le chiome del giardino eterno
Tenera brina, o fresca neve imbianca i
Ivi non osa entrar ghiacciato Verno;
Non vento I' erbe , o gli arboscelli stanca ;
Ivi non volgon gli anni il lor quaderno;
Ma lieta Primavera mai non manca ,
Che I suoi crln biondi e crespi all’ aura
E mille fiori in ghirlandata lega, [spiega ,
Lungo le rive I frati di Cupido,
Che solo usati ferir la plebe Ignota ,
Con alte voci e fanciullesco grido
Aguzzan lor saette ad una cola.
Piacere , Insidia posati In su '1 lido
Volgono il perno alla sanguigna rota :
Il fallace Sperar col van Disio
Spargon nel sasso 1' acqua del bel rio.
Dolce Paura , e timido Diletto,
Dolci Ire, e dolci Paci Insieme vanno :
Le Lagrime si lavan tutto il petto,
E ’1 fiumiccllo amaro crescer fanno :
Pallore smorto , e paventoso Alletto
Con Magrezza si duole , c con Affanno :
VigilSospetto ogni sentiero spia :
Letizia balla in mezzo della via.
Voluttà con Bellezza si gavazza ;
Va fuggendo il Contento, e siede Angoscia:
11 cieco Errore or qua or li svolazza :
Percotesi II Furor con man la coscia :
La Penitenzia misera stramazza ,
Che del passato errar s’ è accorta poscia :
Nel sangue Crudeltà lieta si ficca ,
E la Disperazion sè stessa impicca.
Tacito Inganno, e simulato Riso
Con Cenni astuti , messaggicr de' cuori ,
E fissi Sguardi con pietoso Viso
Tendon lacciuoli a' giovani tra' fiori.
Stassi coi volto in su la palma assiso
11 Pianto in compagnia de' suoi Dolori :
E quinci c quindi vola senza modo
Licenzia non ristretta In alcun nodo.
Cola) milizia 1 tuoi figli accompagna,
Venere bella, madre degli Amori,
Zeliro il prato di rugiada bagna ,
Spargendolo di mille vaghi odori :
Ovunque vola, veste la campagna
DI rose, gigli, violette e fiori :
L' erba di sua bellezza ha maraviglia ;
Bianca, cilestra, pallida e vermiglia.
Trema la mammolelta verginella
Con occhi bassi onesta e vergognosa :
EROICI.
Ma vie più lieta , più ridente c bella
Ardisce aprire il seno al sol la rosa :
Questa di verdi gemme s' incapella :
Quella si mostra allo sporte! vezzosa,
L' altra che ’n dolce fuoco ardea pur ora ,
Languida cade , e ’1 bel pratello Infiora.
L’ alba nutrica d’ amoroso nembo
Giallcsanguigne candide viole : [grembo;
Descritto ha il suo dolor Giacinto In
Narciso al rio si specchia come suole :
In bianca vesta con purpureo lembo
Si gira Clizia pallidetta al Sole :
Adon rinfresca a Venere il suo pianto :
Tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.
Mal rivesti di tante gemme 1’ erba
La novella siagion clic ’l mondo avviva.
Sovr' esso il verde colle alza superba
L’ ombrosa chioma , u' il Sol mai non ar-
E sotto vel di spessi rami serba [riva :
Fresca e gelata una fontana viva,
Con si pura tranquilla e chiara vena ,
Che gli occhi non olfesi al fondo mena.
L' acqua da viva pomice zampilla ,
Che con suo arco il bel monte sospende ;
E per fiorito solco indi tranquilla
Pingendo ogni sua orma al fonte scende :
Dalle cui labbra un grato umor distilla ,
Chc’l premio di lorombreagliarbor ren-
Ciascun si pasce a mensa non avara; [de.
E par che 1’ un dell' altro cresca a gara.
Cresce l' abelo schietto e senza nocchi ,
Da spander l'alea Borea in mezzo i'onde :
L' elee , che par di mel tutta trabocchi ;
E 11 laur, che tanto fa bramar sue fronde :
Bagna Cipresso ancor pel cervo gli occhi.
Con chiome or aspre or giù distese e
bionde :
Ma l’ arbor clic giù tanto ad Ercol piacque.
Col piatati si trastulla intorno all' acque.
Surge robusto il ccrro , ed alto il faggio.
Nodoso il cornio , e '1 salcio umido e lento,
L’ olmo fronzuto, e '1 frassin piùselvaggio.
Il pino alletta con suo fischio il vento,
L’ avornio tesse ghirlandette al Maggio ;
Ma l’ acer d’ un color non è contento.
La lenta palma serba pregio a’ forti :
L’ edera va carpon co' piè distorti.
Mostransi adorne le viti novelle
D' abiti vari, e con diversa faccia.
Questa gonfiando fa crepar la pelle ;
Questa racquista le perdute braccia :
Quella tessendo vaghe c liete ombrelle
Pur con pampiuee fronde Apollo scaccia
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STANZE.
25
Quella ancor monca piange a capo chino,
Spargendo or acqua, per versar poi vino.
Il chiuso e crespo bosso al vento on-
E fa la piaggia di verdura adorna : [deggia,
Il mirto , clic sua Dea sempre v agheggia ,
Di bianchi fiori i verdi capelli orna.
Ivi ogni fiera per amor vaneggia :
L’ un ver l'altro i montoni armanlccoma;
L’ un l’ altro cozza , e l' un l' altro martella
Davanti all’ amorosa pecorella.
I muggii ianti giovenchi appiè del colle
Fan vie più cruda e disperala guerra
Col collo e '1 petto insanguinato c molle ,
Spargendo al ciel co' piè l’ erbosa terra.
Pien di sanguigna schiuma il cinghiai
bolle ,
Le targhe zanne arruola , c ’1 grifo serra ,
E rugge e raspa , e per armar sue forze
Frega il calloso cuoio a dure scorze.
Provan lor pugna 1 daini paurosi ,
E per I' amata druda ardili fansì :
Ha con pelle vergala aspri e rabbiosi
I Ugrl infuriali a ferir vansi.
Sbatton le code , e con occhi focosi
Ruggendo II Ber leon di petto dansi.
Zufola e soffia il serpe per la biscia ,
Mentr’ ella con tre lingue al Sol si liscia.
Il cervo appresso alla Massilia fera
Co’ piè levati la sua sposa abbraccia :
Fra 1’ erba ove piu ride Primavera,
L’ un coniglio coli 1’ altro s’ accovaccia.
Le semplicette capre vanno a schiera
Da' can sicure all’ amorosa traccia ;
Si I’ odio antico , e T naturai timore
Ne’ petti ammorza, quando vuole, Amore.
1 muti pesci in frotu van notando
Dentro al vivente e tenero cristallo ,
E spesso intorno al fonte roteando
Guidan felice e dilettoso ballo :
Tal volu sopra 1’ acqua un po’ guizzando.
Mentre l’ un 1’ altro segue , escono a gallo :
Ogni lor atto sembra festa e giuoco ;
Nè spengon le fredde acque il dolce foco.
Gli augellettl dipinti Intra le foglie
Fan l' aere addolcir con nuove rime ;
E fra più voci un’ armonia s’ accoglie
Di sì beate note , e si sublime ,
Che mente involta in queste umane spoglie
Non potria sormontare alle sue cime s
E dove Amor gli scorge pel boschetto,
Saltan di ramo In ramo a lor diletto.
Al canto della selva Ecco rimbomba :
Ma sotto I’ ombra che ogni ramo annoda
La passerella gracchia , e attorno romba ì
Spiega 11 pavon la sua gemmata coda :
Bacia il suo dolce sposo la colomba :
I bianchi cigni fan sonar la proda :
E presso alla sua vaga tortorella
II pappagallo squittisce e favella.
Quivi Cupido, e 1 suol pennuti frati.
Lassi già di ferire uomini e Dei ,
Prcndon diporto, e con gli strali aurati
Fan sentire alle fiere 1 crudi omei.
La Dea Ciprigna fra’ suoi dolci nati
Spesso sen viene , e Pasitea con lei ,
Quotando in lieve sonno gli occhi belli
Fra 1’ erbe e’ fiori e’ gioveni arboscelli.
Move dal colle mansueta e dolce
La schiena del bel monte , e sopra 1 crini,
D’ oro e di gemme un grati palazzo folce.
Sudato già nei cicilian cammini.
Le tre Ore , che ’n cima son bobolce ,
Pascon d' ambrosia i fior sacri e divini :
Nè prima dal suo gambo un se ne coglie,
Ch’ un altro al ciel più apre le sue foglie.
Raggia davanti all’ uscio una gran pian*
ta,
Che fronde ha di smeraldo , e pomi d' oro ;
E pomi eh’ arrestar femo Atalanta ,
Che ad Ippomenc dierno il verde alloro.
Sempre sovr’ essa Filomena canta ;
Sempre solt’ essa è delle Ninfe un coro.
Spesso Imeneo col suon di sua zampogna
Tempra lor danze , c pur le nozze agogna.
La regia casa il sereno aer fende ,
Fiammeggiante di gemme e di fin oro,
Che chiaro giorno a mezza notte accende
Ma vinta è la materia dal lavoro.
Sopra colonne adamantine pende
Un palco di smeraldo, in cui già foro
Aneli e stanchi dentro a MongiboUo
Slcrope e Brente ed ogni lor martello.
Le mura attorno d’ artificio miro
Forma un soave c lucido berillo.
Passa pel dolce orientai zaffiro
Nell’ ampioalbergo il di pure e tranquillo ;
Ma il letto d’ oro in cui 1’ estremo giro
Si chiude contea Febo apre il vessillo.
Per varie pietre il pavimento ameno
Di mlrabil pittura adorna il seno.
Mille e mille color forman le porte ,
Di gemme c di si vivi Intagli chiare ,
Che tutte altre opre sarian rozze c morte ,
Da far ili s è Natura vergognare.
Nell’ una è sculla l’ infelice sorte
Del vecchio Celio ; e in visto Irato pare
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26 POEMI
Suo figlio, c con la falce adunca sembra
Tagliar del padre le feconde membra.
hi la Terra con distesi ammonti [glia;
Par eh* ogni goccia di quel sangue acco-
Ondc nate le Furie e 1 fier Giganti
Di sparger sangue in rista mostran voglia.
D’ un seme stesso in diversi sembianti
Paion le Ninfe uscite senza spoglia ,
Pur come snelle cacciatrici in selva ,
Gir saettando or una or altra belva.
Nel tempestoso Egeo in grembo a Teli
Si vide il fusto genitale accolto,
Sotto diverso volger di pianeti [volto;
Errar per P onde in bianca schiuma av-
E dentro nata in atti vaghi e lieti
Una donzella non con uman volto.
Da* Zefiri lascivi spinta a proda , [goda.
Gir sopra un nicchio; e par che ’l ciel nc
Vera la schiuma , e vero il mar direste,
Il nicchio ver, vero il soffiar de’ venti.
La Dea negli ocelli folgorar vedreste ,
E *1 elei riderle attorno e gli clementi :
L* Ore premer 1* arena in bianche veste ,
L’ aura increspar 11 crin distesi c lenti :
Non una, non diversa esser lor faccia,
Come par che a sorelle ben confacela.
Giurar potresti che dell’ onde uscisse
La Dea premendo con la destra il crino,
Con 1* altra il dolce pomo ricoprisse;
E stampata dal piè sacro c divino,
D’ erba c dì fior la rena si vestisse ;
Poi con sembiante lieto e pellegrino
Dalle tre Ninfe in grembo fosse accolla ,
E di stellato vestimento involta.
Questa con ambe man le licn sospesa
Sopra I* umide trecce una ghirlanda
D’ oro c di gemme orientali accesa :
Quella una perla agli orecchi accomanda :
L* altra al bel petto c bianchi omeri intesa
Par che ricchi monili intorno spanda,
De’ qua* solcati cerchiar le proprie gole
Quando nel ciel guidavan le carole.
Indi paion levale in ver le spere
Seder sopra una nu\ola d’ argento :
L’ aer tremante ti parria vedere
Nel duro sasso , c tutto ’l ciel contento :
Tutti li Dii di sua beltà godere,
E del felice letto aver talento :
Ciascun sembrar nel volto maraviglia.
Con fronte crespa e rilevate ciglia.
Nello estremo sè stesso il divin Fabro
Formò , felice di si dolce palma ,
Ancor delia fucina irsuto e scabro ,
EROICI.
Quasi obbliando per lei ogni salma,
Con disire aggiungendo labro a labro,
Come tutta d’ amor gli ardesse I* alma :
E par via maggior foco acceso in elio ,
Che quel eh* avea lasciato In Mongibello.
Nell* altra, in un formoso e bianco tauro
Si vede Giove per amor converso
Portarne il dolce suo ricco tesauro ,
E le! volgere II viso al li lo perso
In atto paventosa; cl be’ crin d’ atiro
Scherzan nel petto per lo vento avverso :
La vesta ondeggia e indietro fa ritorno;
L’ una man lien al dorso, e I* altra al corno.
Le ignudo piante a sè ristrette accoglie ,
Quasi temendo *1 mar che non le bagne :
Tale atteggiata di paure e doglie
Par chiami in van le sue dolci compagne;
Le quali assise tra fioretti c foglie
Dolenti Europa ciascheduna piagne.
Europa sona il filo, Europa, riedì :
il toro nota, c talor bacia i piedi, [d’oro;
Or si fa Giove un cigno, or pioggia
Or di serpente, or di pastor fa fede,
Per fornir 1* amoroso suo lavoro;
Or trasformarsi in aquila si vede ,
(ionie Amor vuole, e nel celeste coro
Portar sospeso il suo bel Ganimede;
Lo quale ha di cipresso il capo avvìnto ,
Ignudo tutto, e sol d* erbetta cinto.
Passi Nettuno un lanoso montone;
Passi un torvo giovenco per amore :
Passi un cavallo il padre di Ghironc :
Diventa Febo in Tessaglia un pastore;
E *n picciola capanna si ripone
Colui eh’ a tutto ’l mondo dà splendore;
Nè gli giova a sanar sue piaghe acerbe,
Perchè conosca le virtù dell’ erbe.
Poi segue Dafne, c *n sembianza si lagna
Come dicesse: O Ninfa, non ten gire :
Ferma il piè , Ninfa , sopra la campagna,
Gli’ io non li seguo per farti morire :
Così cerva Icon , cosi lupo agua ,
Ciascuno H suo nemico suol fuggire;
Me perchè fuggi , o donna del mio core ,
Cui di seguirti è sol cagione amore ?
Dall’ altra parte la bella Arlauna
Con le sorde acque di Teseo si dolo,
E dell’ aura c del sonno che la inganna ;
Di paura tremando , come sole
Per piccioi vcntolin palustre canna :
Par che in atto abbia impresse lai parole s
Ogni fiera di tc meno è crudele :
Oguun di te più mi saria fedele.
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STANZE. 57
Vien sopra un carro d’ ellera e di pam-
[pino
Coperto Bacco , Il qual duo tigri guidano ,
E con lui par che I* alta rena stampino
Satiri e Bacche, e con voci alte gridano,
Quei si Tede ondeggiar; quel par eh’ in-
ciampino ; [ridano :
Quel con un cembai bee : quei par che
Qual fa d’ nn corno, e qual delle man
ciotola ,
Qual ha preso unaNinfa , e qual si rotola.
Sopra T asln Silen , di ber sempre avido.
Con vene grosse , nere , e dì mosto umide
Marchio sembra, sonnacchioso, e gravido;
Leluci badi vin rosse , enfiate e tumide :
L’ ardite Ninfe 1' asinel suo pavido
Pungon col tirso ; ed ei con le man tumide
A’ crin s' appiglia ; e mentre si l’ attizzano,
Casca nei collo , e 1 Satiri lo rizzano.
Quasi in un tratto vista . amata , e tolta
Dal fiero Pluto Proserpina pare [sciolta
Sopra un gran carro, e la sua chioma
A’ zefiri amorosi ventilare;
La bianca vesta In un bel gremboaecolta
Sembra i colti fioretti giù versare :
Si percuote ella il petto , e in vista piagne.
Or la madre chiamando, or le compagne.
Posa giù dei leone il fiero spoglio
Ercole , e veste femminina gonna :
Colui che ’l mondo da grave cordoglio
Avea scampato ; ed or serve una donna.
E può soffrir d' Amori’ indegno orgoglio.
Chi con gli omcr gii fece al elei colonna ,
E quella man con che era a tenere uso
La clava poderosa , or torce un fuso.
Gli omer setosi a Polifemo ingombrano
L’ orribil chiome , e nel gran petto ca-
scano; [brano;
E fresche ghiande 1’ aspre tempie adom-
Presso a sè par sue pecore che pascano ;
Nè a costui dai cor giammai disgombrano
Li dolci acerbi lai , che d’ amor nascano ;
Anzi tuttodì piantocdolormacero [cero.
Seggia in un freddo sasso appiè d’ un a-
Daii’ una all’ altra orecchiami arco face
Il ciglio irsuto lungo ben sei spanne :
Largo sotto la fronte il naso giace ;
Paion di schiuma biancheggiar le zanne.
Tra’ piedi ha il cane ; e sotto il braccio tace
Una zampogna ben di cento canne, [note
E guarda il mar eh’ ondeggia , e alpestre
Par canti , e mova le lanose gote.
E dica eh’ ella è bianca più che il latte ,
Ma più superba assai eh’ una vitella ;
E che molte ghirlande le ha già fatte ,
E serbale una cerva molto bella ,
Un orsacchln clic gii col can combatte t
E che per lei si macera e flagella ;
E che ha gran voglia di saper notare
Per andare a trovarla Infili nel mare.
Duo formosi delfini un carro tirano;
Sovr* esso è Galatea, che’l fren corregge :
E quei notando parimente spirano;
Ruotasi attorno più lasciva gregge.
Qual le salse onde sputa.e qual s’ aggi rano,
Qual parche per amor giuochi e vanegge.
La beila Ninfa con le suore fide
Di si rozzo cantar vezzosa ride.
Intorno al bel lavor serpeggia acanto
Di rose e mirti e lieti fior contesto,
Con vari auge! si fatti , che il ior canto
Pare udir negli orecchi manifesto :
Nè d' altro si pregiò Vulcan mai tanto.
Nè ’l vero stesso ha più del ver clic questo:
E quanto 1’ arte Intra sè non comprende.
La mente immaginando chiaro intende.
Questo è il loco che tanto a Vener piac-
A Vener bella, alla madre d’ Amore, [que,
Qui l' arder fraudolente In prima nacque ,
Che spesso fa cangiar voglia c colore :
Quei che soggioga II del, la terra e l’acque,
Cile tende agli occhi reti , e prende il core ;
Dolce In sembianti , in atto aceri» e fello ,
Giovane nudo, e faretrato augello.
Or poi che ad ali tese ivi pervenne ,
Forte le scosse , c giù calossi a piombo ,
Tutto serrato nelle sacre penne,
Come a suo nido fa lieto colombo.
L' acr ferrato assai stagion ritenne
Della pennuta striscia il forte rombo.
Ivi racquete le trionfanti ale,
Superbamente Invcr la madre saie.
Trovolla assisa in Ietto fuordel lembo
Pur mo di Marte sciolta dalle braccia,
Il qual rovescio le giaceva in grembo
Pascendo gli occhi pur deila sua faccia.
Di rose sopra Ior pioveva un nembo
Per rinnovargli all’ amorosa traeda :
Ma Vener dava a lui con voglie pronte
Mille baci negli occhi e nella fronte.
Sopra e d’ intorno I pleelolett! Amori
Schcrzavan nudi or qua or la volando ,
E qnal con alt di mille colori
Giva le sparte rose ventilando :
Qual la faretra emptea di freschi fiori ,
Poi sopra il Ietto la venta versando :
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28 POEMI
Qual la cadente nuvola rompea
Fermo in su P ali , e poi giù In scotea :
Come avea dalle penne dato un crollo ,
Cosi P erranti roso cran riprese :
Nessun del vaneggiare era satollo.
Quando apparve Cupido ad ali tese
Ansando tutto , e di sua madre al collo
Giltossi , e pur co’ vanni il cor le accese
Allegro in vista, e si lasso, che appena
Potea ben per parlar riprender lena.
EROICI.
Onde vien’ , figlio? o quai n’apporti no-
Vencr gli disse , e lo baciò nel volto ; [ve?
Ond’ eslo tuo sudor ? quai fa t le hai prove ?
Qual Dio, qual uom hai ne’ tuoi lacci in-
volto ?
Fai tu di nuovo In Tiro mugghiar Giove ?
0 Saturno ringhiar per Delio folto?
Quel che ciò sia , non uuiil cosa parmi ,
0 figlio , o sola mia potenzia ed armi.
LIBRO SECONDO.
Eran già tutti alla risposta attenti
I pargoletti intorno all’aureo letto.
Quando Cupido con occhi ridenti
Tutto protervo nel lascivo aspetto
Si stringe a Marte, e con gli strali ardenti
Della faretra gli ripunse li petto,
E con le labbra tinte di veleno
Baciollo, c ’l foco suo gli mise In seno.
Poi rispose alla madre : E’ non è vana
La cagion che si lieto a te mi guida ,
Ch'io ho tolto dal coro di Diana
II primo conduttor, la prima guida.
Colui di cui gioir vedi Toscana ,
Di cui già infin ai del la fama grida ,
Infili agl'indi, infìn al vecchio Mauro,
Giulio, minor fralcl del nostro Lauro.
L'antica gloria e '1 celebrato onore
Chi non sa della Medica famiglia?
E del gran Cosmo, italico splendore.
Di cui la patria sua si chiamò figlia?
E quanto Pietro al paterno valore
Aggiunse pregio, e con qual maraviglia
Dal corpo di sua patria rimosse abbia
Le scellerate man, la crude! rabbia?
Di questo e della nobile Lucrezia
Nacquenc Giulio, e pria ne nacque [.auro ;
Lauro, eh’ ancor della bella Lucrezia,
Arde ; c dura ella ancor si mostra a Lauro ;
Rigida più eh’ in Roma già Lucrezia,
0 in Tessaglia colei eh* è fatta un lauro;
Nè mai degnò mostrar di Lauro agli occhi
Se non tutta superba l suoi begli occhi.
Non priego, non lamento al mescliin va-
Ch'ella sta fissa come torre al vento; [le
Perch'io lei punsi col piombato strale,
E col dorato lui ; di che or mi pento.
Ma tanto scolerò , madre , queste ale ,
Che foco accenderollc al petto drcnto.
Richiede ormai da noi qualche restauro
La lunga fedeltà del franco Lauro.
Gilè tultor parmi pur veder pel campo
Armato lui, armato il corridore,
Come un fier drago gir menando vampo,
Abbatter questo c quello a gran furore :
L'armi lucenti sue spargere un lampo
Clic facciali tremar l’aere di splendore ;
Poi fatto di virtulc a tutti esempio,
Riportarne il trionfo al nostro tempio.
E che lamenti già le Muse forno 1
E quanto Apollo s’è già moto dolio.
Ch'io tenga il lor poeta in tanto scherno!
Ed io con che pietà suoi versi ascolto!
Ch’Io 1* ho già visto al più rigido verno,
Pien di pruina I crln , le spalle e '1 volto
Dolersi con le stelle e con la luna
Di lei , di noi , di sua crude! fortuna, [te :
Per tutto il mondo ha nostre laudi spar-
Mai d’altro, mai, se non d’ amor ragiona;
E polca dir le tue fatiche, o Marte,
Le trombe c l’arme e '1 furor di Bellona:
Ma volle sol di noi vergar le carte,
E di quella gentil eh' a dir lo sprona.
Ond’ io lei farò pia, madre, al suo amante;
Gilè pur son tuo, non nato d’adamante.
Io non son nato di ruvida scorza.
Ma di te, madre bella, e son tuo figlio;
Nè crudele esser deggio ; ed ci mi sforza
A riguardarlo con pietoso ciglio;
Assai provato ha l’ amorosa forza ,
Assai giaciuto è sotto il nostro artiglio.
Giusto è ch’ei faccia ornai co’ sospir tregua;
E del suo buon servir premio consegua.
I Ma il bel Giulio, ch’a noi stato è ribello,
> E sol di Delia seguito ha il trionfo ,
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STANZE. 29
Or dietro all’ orme del suo buon fratello
Yien catenato innanzi al mio trionfo :
Nè mostrerò giammai pietate ad elio
Fio che ne porterà nuovo trionfo ;
Ch’io gli ho ne! core dritta una saetta
Dagli occhi della bella Simonetta.
E sai quanto nel petto e nelle braccia ,
Quanto sopra il destriero è poderoso :
Pur mo lo vidi si feroce In caccia ,
Che parca il bosco di lui paventoso;
Tutta aspreggiata avea la bella faccia ,
Tutto adirato, tutto era focoso.
Tal vld’io te là sopra al Termodonte
Cavalcar, Marte, e non con està fronte.
Quest’è, madre gentil , la mia vittoria;
Quinci è *1 mio travagliar, quinci è ’l su-
Cosi va sovr ’ al ciel la nostra gloria , [dorè ;
Il nostro pregio, il nostro antico onore :
Così mai cancellala la memoria
Di te non fia, nè del tuo figlio Amore;
Cosi canterali sempre c versi e cetre
Gli strai, le fiamme, gli archi c le faretre.
Fatta ella allor più gaia nel sembiante,
Balenò intorno uno splendor vermiglio,
Da fare un sasso diventare amante.
Non pur te, Marte : e tale ardea nel ciglio,
Qual suol la bella Aurora fiammeggiante:
Poi tutto al petto si ristringe il figlio;
E trattando con man sue chiome bionde,
Tutto il vagheggia ; e lieta gli risponde :
Assai, bel figlio, il tuo desir ni’ aggrada,
Chè nostra gloria ognor più l’ale spanda.
Chi erra , torni alla verace strada :
Obbligo è di servir chi ben comanda.
Purcomien che di nuovo in campo vada
Lauro, c si cinga di nova ghirlanda;
Chè virtù negli affanni più s’ accende,
Come l’oro nel foco più risplende.
Ma in prima fa mestier clic Giulio s'arml,
Sì clic di nostra fama il mondo adempì :
E tal del forte Achille or canta Tanni,
E rinnova in suo stil gli antichi tempi ,
Che diverrà testor de’ nostri carmi ,
Cantando pur degli amorosi esempi ;
Onde la nostra gloria, o bel figliuolo,
Vedrern sopra le stelle alzarsi a volo.
E voi altri, mici figli, al popol tosco
Lieti volgete le trionfanti ale :
Gite tutti fendendo T aer fosco ;
Tosto prendete ognun l’arco e lo strale:
Di Marte il fiero ardor sen venga vosco.
Or vedrò, figli, qual di voi più vale :
Gite tutti a ferir nel toscan coro;
Ch* i’ serbo a chi fier prima un arco d’oro.
Tosto al suo dire ognun arco e quadrella
Riprende, e la faretra al fianco alloga;
Come al fischiar del comlto sfrondila
La nuda ciurma , e I remi mette in voga.
Già per Taer ne va la schiera snella :
Già sopra alla città calan con foga.
Cosi i vapor pel bel scren giù scendono,
Che paion stelle, mentre l’aer fendono.
Vanno spiando gli animi gentili ,
Che son dolce esca all’amoroso foco:
Sovr’ essi batton forte i lor fucili,
E fangli apprender tutti a poco a poco:
L’ardor di Marte ne' cuor giovenill
S' affigge e quelli infiamma del suo giuoco:
E mentre stanno Involti nel sopore ,
Pare a’ giovai: far guerra per Amore.
E come quando il Sole l Pesci accende,
Di sua virtù la terra è tutta pregna;
Gilè poscia Primavera fuor si stende
Mostrando al ciel verde c fiorita insegna :
Cosi ne’ pelli ove lor foco scende.
S'abbarbica un disio che dentro regna;
Un disio sol d’eterna gloria c fama,
Clic T infiammale nienti a virtù chiama.
Esce sbandita la viltà d’ogni alma,
E, benché tarda sia, pigrizia fugge :
A libcrtate l’ima e l’altra palma
Lcgan gii Amori ; c quella irata rugge.
Solo in disio di gloriosa palina
Ogni cor giovcnil s’accende e strugge:
E dentro al petto sopito dal sonno
Gli spiriti d' Amor posar non ponno.
E così mentre ognun dormendo langue,
Ne’ lacci è involto, onde giammai non esce:
Ma come suol fra l’erba il picciol angue
Tacito errare, o sotto Tonde il pesce,
Si van correndo per Tossa c pel sangue
Gli ardenti spiritelli , c ’l foco cresce.
Ma Vener, come I presti suoi corrieri
Vide parlili , mosse altri pensieri.
Pasitca fe’ chiamar, del Sonno sposa,
Pasilea delle Grazie una sorella,
Pasilea, che dell’ altre è più famosa,
Quella che sopra tutte è la più bella;
E disse : Muovi, o Ninfa graziosa.
Trov a il consorte tuo veloce e snella :
Fa clic mostri al bel Giulio tale inimago.
Che ’l faccia dimostrarsi al campo vago.
Cosi le disse ; e già la Ninfa accorta
Correa sospesa per T aria serena :
Quote senz* alcun rombo Tale porta,
E lo ritrova in men che non balena :
30 POEMI
Al carro della Nolte lacca scorta ,
E l'aria intorno avea di Sogni piena
Di varie (orme , e stranier portamenti ;
E Iacea racquetare i fiumi e I venti, [ve.
Come la Ninfa a’ suoi gravi occhi apjiar-
Gol folgorar d’ un riso glieli aperse :
Ogni nube dal ciglio via disparve,
Cbè la forza del raggio non sofferse.
Ciascun de' Sogni dentro alle lor larve
Gli sì fe’ incontro, e ’l viso discoperse:
Ma poi ch’ella Morfeo tra gli altri scelse,
Lo chiese al Sonno-, e tosto indi si svelse.
Indi si svelse , e di questo convenne
Tosto ammonirlo ; e parti senza posa.
Appena Unto il ciglio alto sostenne ,
Che fatU era già tutu sonnacchiosa.
Yassen volando senza mover penne ,
E ritorna a sua Dea, lieta c gioiosa.
Gli scelti Sogni ad obbedir s'affrettano,
E sotto nuove fogge si rassettano.
Quali i soldati che di fuor s’attendono,
Quando senza sospetto par che giacciano.
Per suon di tromba al guerreggiar s' ac-
cendono ,
Vestonsi le corazze , e gli elmi allacciano ;
E giù dal fianco le spade sospendono ,
Grappali le lance , e i forti scudi imbrac-
E cosi divisati i dcstricr pungono [ciano:
Tanto , ciie la nemica schiera giungono.
Tempo era quando l' alba s’ avvicina ,
E divien fosca l'aria, ov’era bruna ;
E giù il carro stellato Icaro inchina ,
E par nel volto scolorir la Luna ;
Quando ciò eh' al bel Giulio il elei destina
Mostrano i Sogni e sua dolce Fortuna ;
Dolce al principio, al fin poi troppo amara;
Perocché sempre dolce al mondo è rara.
Pargli veder feroce la sua donna ,
Tutu nel volto rigida e proterva
Legar Cupido alla verde colonna
Della felice pianta di Minerva ,
Annata sopra alla candida gonna ,
Che ’l casto petto coi Gorgon conserva ,
E par che tutte gli spennacchi l’ali ,
E che rompa ai ineschili l’arcoe gli strali.
Ahimè ! quanto era muUto da quello
Amor , che me tornò tutto gioioso !
Non era sopra l'ale altiero c snello,
Non del trionfo suo punto orgoglioso:
Anzi mercè chiamava il meschineilo
Miseramente, e con volto pietoso ;
Gridando a Giulio: Miserere uiei;
Difendimi , o boi Giulio , da costei.
EROICI.
E Giulio a lui dentro al fallace sonuo
Parca risponder con mente confusa :
Come poss' io ciò far, dolce mio donno!
Chè nell' armi di Palla è tutta chiusa.
Vedi i miei spirti, che sofTrir non ponno
La terribU sembianza di Medusa,
li rabbioso fischiar delle ceraste ,
E ’l volto e l' elmo e '1 folgorar dell- aste.
Alza gii occhi, alza, Giulio, a quella
fiamma [bra:
Che come un sol col suo splendor t’adom-
Qulvi è colei che l’aite menti infiamma,
E che da' petti ogni vilU disgombra.
Con essa , a guisa di semplice damma ,
Prenderai questa, ch’or nel cor l’ingom-
Tanta paura, e t’invilisce l'alma, [bra
Ch'ella ti serba sol trionfai palma.
Cosi dicea Cupido ; c gii la Gloria
Scendca giù folgorando ardente vampo:
Con essa Poesia , con essa Istoria
Volatati [ulte accese del suo lampo.
Costei parea che ad acquìsUr vittoria
Rapisse Giulio orribilmente in campo;
E che l'arme di Palla alia sua donna
Spogliasse, e lei lasciasse in bianca gonna.
Poi Giulio di sue spoglie armava tutto,
E tutto fiammeggiar lo facea d’auro :
Quando era al fin del guerreggiar con-
dii ito ,
Al capo gl' intrecciava oliva e lauro :
Ivi tornar parca sua gioia in lutto;
Yedcasi tolto il suo dolce tcsauro :
Vcdea sua Ninfa in trista nube avvolta
Dagli occhi crudelmente essergli tolta.
L'aria tutta parca divenir bruna,
E tremar tutto dell’ abisso il fondo :
Parea sanguigna in ciel farsi la luna ,
E cader giù le stelle nei profondo.
Poi vedea lieta In forma di Fortuna
Sorger sua Ninfa; e rabbellirsi il mondo t
E prender lei di sua vita governo ;
E lui con seco far per fama eterno.
Sotto cotali ambagi al giovanetto
Fu mostro de’ suoi fati U leggier corso ,
Troppo felice , se nel suo diletto
Non melica Morte acerba il crudel morso.
Ma die puote a Fortuna esser disdetto 1
Ch' a nostre cose allenta e stringe il morso;
Nè vai perdi' altri la lusinghi o morda,
Ch’a suo modo ci guida, e sta pur sorda.
Adunque il tanto lamentar che giova ?
A che di pianto pur bagnlam le gote !
Se pur convien eh’ ella ne guidi e muova ;
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STANZE. 3
Se mortai forza contra lei non puote,
Se con sue penne il nostro mondo cova;
E tempra e volge come vuol le ruote.
Beato qual da lei suoi pensier solve,
E tutto dentro alla Virtù s' Involse 1
Oh felice colui che lei non cura,
E che a’ suol gravi assalti non s’arrende ,
Ma come scoglio che incontro al mar dura,
0 torre che da Borea si difende ,
Suoi colpi aspetta con fronte sicura,
E sta sempre provvisto a sue vicende :
Da sè sol pende ; in sò stesso si fida ;
Ni guidato i dal caso, anzi lui guida.
Già carreggiando il giorno Aurora lieta
Di Pegaso stringea l’ ardente briglia :
Surgea dal Gange il bel solar pianeta ,
Raggiando Intorno con l' aurate ciglia:
Già tutto parea d’oro il monte Oeta :
Fuggita di I.aton era la figlia :
Surgevan rugiadosi in loro stelo
1 fior chinati dal notturno gelo.
La rondinella sopra il nido allegra
Cantando salutava il nuovo giorno :
E già de' Sogni la compagna negra
A sua spelonca area fatto ritorno;
Quando con mente insieme lieta ed egra
Si destò Giulio, e girò gli ocelli intorno;
Gli occhi intorno girò tutto stupendo.
D’amore c d’un disio di gloria ardendo.
Pargli vedersi tuttavia davanti
La Gloria armata in su l'ali veloce
Chiamare a giostra i valorosi amanti ,
E gridar, Giulio, Giulio, ad alta voce.
Già sentir pargli le trombe sonanti ,
Già divien tutto nell’ armi feroce.
Cosi tutto focoso in piò risorge ,
E verso il ciel colai parole porge :
0 sacrosanta Dea, figlia di Giove,
Per cui il tempio di Giano s' apre e serra ;
La cui polente destra serba c move
Intiero arbitrio c di pace c di guerra ,
Virglne santa, che mirabil prove
Mostri del tuo gran nume in ciclo e ’n terra,
Che 1 valorosi cuori a virtù infiammi ,
Soccorrimi or, Trllonia, c virtù dammi.
S'Io vidi dentro alle tue armi chiusa
La sembianza di lei che me a me fura :
S’Io vidi il volto orribil di Medusa
Farle! contro ad Amor troppo esser dura:
Se poi mia mente dal tremor confusa
Sotto il tuo schermo diventò sicura :
S’ Amor con (eco a grandi opre mi chiama.
Mostrami il porto, o Dea, d'eterna fama.
E tu che dentro all’ allocata nube
Degnasti tua sembianza dimostrarmi,
E ch’ogni altro pensier dai cor ini rubo,
Fuor che d'amor, dal qual non posso
aitarmi ;
E m' infiammasti , come a suon di tube
Animoso cavai s’infiamma all’ armi ,
Fammi Intra gli altri, oGIoria, si solenne,
Che Io balta ìnfuio al ciel teco le penne.
E s’ io son, dolce Amor, se son pur degno
Essere il tuo camplon contra costei ,
Contra costei, da cui con forza e Ingegno
(Se *1 ver mi dice il Sonno) avvinto sei.
Fa si del tuo furor mio pensier pregno,
Che spirto di pietà nel cor le crei.
Ma virtù per sò stessa ha l' ali corte ;
Perché troppo è il valor di costei forte.
Troppo forte, Signor, ò’I suo valore,
Chè , come vedi , il tuo poter non cura
E tu pur suoli al cor gentil , Amore ,
Riparar come augello alla verdura :
Ma se mi presti il tuo santo furore ,
Leverai me sopra la tua natura ,
E farai, come suol marmorea rota,
Cli’ ella uon taglia , c pure il ferro arrota.
Con voi men vengo. Amor, Minerva,
e Gloria,
Chè ’l vostro foco tutto il corm’avvampa:
Da voi spero acquistar l’ alta vittoria ;
Chè tutto acceso son di vostra lampa :
Datemi aita si, clic ogni memoria
Segnar si possa di mia eterna stampa,
E faccia umil colei eh' or mi disdegna ;
di' io porterò di voi nel campo insegna.
32
POEMI EROICI.
TRISSINO.
ITALIA LIBERATA.
LIBRO IX.
ARGOMENTO.
Da Partcnopo escilo il capitano
Giunge a Cassino, ove lasciato il campo
Sale iil]’ osici d'un eremita santo :
Ivi da lui condullo in uno speco
Vede del padre l'ombra, e per virtude
D'un anget entra in un llurito prato.
Golii su due miragli, ed il passato
Ed il futuro scorge; e quindi l’ombra
De’ poeti , de’ soli e do’ guerrieri
Illustri un tempo, a lui si fanno innanzi.
Vede sue glorie , c dell’ imperio il fulo ;
Inlìn che torna con Traiano al vallo.
La bella Aurora da 1’ aurato letto
Del suo caro Titon sì risurgea ,
Per apportare a noi 1' eterna luce;
Quando ’l gran capitallio de le genti,
Essendo stato in Napoli tre giorni ,
Se n’ usci fuor con tutto quanto’! campo,
E lasclov v'entro Erodlano altero
Con molta gente a guardia de le mura.
Ed egli se n’ andò verso Cassino ,
Per irsen quindi a la cittì di Roma.
E come pose il quarto alloggiamento ,
Trovossi a piè del solitario monte ,
Ov'era posta la sacrata cella
Di Benedetto; veramente spirto
Benedetto da Dìo , salubre al mondo.
Quivi il buon capitan mandando gli occhi
Verso la cima, vide un bel pratcllo ,
Cinto di alcuni altissimi cipressi ,
E di tre grandi e ben fronduti allori ,
Avanti ad una piccoletta stanza ,
Tanto divoto, c venerando in vista,
Quanto altra cosa mai che avesse scorta.
Onde gli nacque un desiderio ardente
DI visitar quell’ onorata cella ;
Ma non ardiva abbandonare il vallo ,
Pcrch'ei non era ancor tutto munito.
E stando in quel pcnsicr, venne la notte ;
Poi la mattina, anz'il spuntar de 1' alba
Gli apparve in sogno l’ ombra di suo padre,
Che spinse fuor di bocca este parole :
Figliuol mìo caro , che per tanti mari,
E per tanti perigli sei condotto
Al soave terren dove ch'io nacqui ;
Ascendi ancora a la divota stanza,
Ch' ha quell’ adorno e bel pratcllo avanU.
Quivi dimora un benedetto vecchio,
Tanto diletto a Dio, che gli fa noto
Tutto ’l secreto suo, tutto ’l futuro.
Pricgal soavemente, ch’c’ il mostri
Ciò che tu ilei schivare in questa impresa,
E ciò che tu dei far, per ottenere
Certa vittoria de la gente gota.
E priegaio anco ad impetrarmi grazia,
Dal Padre onnipotente de le stelle,
Ch’ io possa alquanto dimorar con teco
Visibilmente ne la propria forma.
Cosi gli disse l' ombra di suo padre ;
E poi subitamente indi disparve.
Onde T gran capitanio in piè levossi ,
E si vestì di panni, c poscia d'armi;
E tolto seco il callido Traiano ,
Andò sul monte a la dlv ota cella
Scnz' altra compagnia, senz' altra scorta.
E come fur tra quelli antiqui allori ,
33
ITALIA LIBERATA.
Che sono Intorno al prato , un vecchio
aperse
L’ uscio d’ un oratorio , e venne fuora ,
Degno di tanta riverenza in vista.
Quanto aver possa una terrena fronte.
Egli avea in dosso una cuculia bianca ,
Lunga lino a la terra , e la sua barba
Tutta canuta gli copriva il petto.
Questi andò contra Beiisario, e disse :
Capitanio gentil , quanto mi piace
Vedervi al nostro solitario albergo.
Buon tempo è , eh’ lo v' aspetto in queste
Per porre in liberti l’ Italia afflitta. [ parti ,
Or sia lodato Iddio , che siete giunto ;
Andiamo entr'a lachiesa , a renderprima
Grazie cd onore al Re de 1’ universo,
Ghc n’ ha condotti a si felice giorno ,
Dappoi ragionerem de l’ altre cose.
Cosi diss’ egli , e per la mano il prese ,
E dolcemente lo stringea, mirando
La faccia sua con un paterno affetto.
Poi lo menò ne l’ oratorio santo ,
E quivi udita una divota messa.
Che celebrò quel benedetto vecchio ,
Si poscr tutti a ragionare Insieme :
E prima il capitan cosi gli disse :
Padre gentil d' ogni virtute adorno ,
Grande amico di Dio , quando vi mostra
E v’ apre ogni celato suo secreto ;
Vedendo , clic sapete c quel eh’ io sono ,
E 1' alta impresa eh' lo son posto a fare ,
Penso, che ancor sappiate ogni pensiero
Che si rilruovi chiuso cnlr’al mio petto.
Pur vi discoprirò con la mia lingua
L' onesto mio desire , e quel eh' io bramo
Da la vostra santissima persona.
Vorrei saper, padre beato , come
Si deggia governar quest' alta impresa;
E ciò di' io debbia far, per ottenere
Certa vittoria de la gente gota.
Ancor vi priego ad impetrarmi grazia
Dal Padre onnipotente de le stelle ,
Che’l caro genitor possa parlarmi
Visibilmente ne la propria forma.
Deli fate , padre, questi onesti doni
Al divoto orator, che ve gii chiede ,
Cb' agevolmente gli potete fare,
Sendoco! Re dei del tanto congiunto.
Non gli negate a me , eh' lo vengo a porre
La vostra cara Esperia in libertade
Con le nostre fatiche , e 'I nostro sangue.
Cosi disse il barone; a cui rispose
Il buon servo di Dio con tal parole :
Illustre capitan, voi dite II vero,
Ch’io so l’alta cagion eh’ a noi vi mena :
Perchè sta mane , anz’ il spuntar de l’ alba,
L’angel Erminio, e l’ombra di Camillo
Mi disse ii tutto, c mi richiese a farlo:
Ed io liberamente gli promisi.
Ond’ ho pregato il Re de l' universo
Di queste grazie , cd ei ne fia cortese ;
Ma vi bisogna entrar dentr’a quel speco
Senz’aitra compagnia che le vostr’armc.
E quest’ almo signor starò qui fuori ,
Fin che s’adempia il bel vostro desire.
Cosi diss’ egli , e prese una gran chiave
Ch’ avea da canto , e disserrò la porta
D'una profonda e paventosa bucca ,
Tal clic ’l baron senti rizzarsi i peli
Per la persona a quell' orribil vista.
Pur entrò dentro, e la ferrata porta
Per sè medesma se gii chiuse dietro :
Onde restò nel cuor tutto confuso.
Mal' angelo , che stava ad aspettarlo
Ne la spelonca , gli toccò la testa
Con una verga che teneva In mano;
Ond' ei fu preso da profondo sonno ,
E cadde In terra , come fosse morto.
Dappoi lo tolse leggermente in braccio ,
E lo portò sopra un erboso colle
D'un più meraviglioso e lieto mondo.
Questo è la faccia del Signore eterno,
In cui descritte son tutte le cose,
Clic son , clic furo , e che dovran venire ;
Ma non la può , se non per grazia estrema,
Veder uom vivo ; e con tal grazia ancora
Non gli si mostra mal ne la sua forma.
Ma voi , che avete in elei divino albergo,
Eterne Muse , or mi donale aiuto ,
SI eh’ io possa narrar qual ei là vide.
Quel colle avea dal suo sinistro canto
lln specchio grande , assai maggior che ’l
Ov’ eran tutte le passate cose. [sole,
E poi dai destro ne teneva un altro ,
Ch’avca dipinto in sè lutto ’l futuro.
E per quel colle ogni presente effetto,
Ch’ usciva fuor del destro albergo, andava
Correndo a l’ altro con mirabil fuga.
Ma questi sono a Dio tutti un sol specchio
Se ben paion diversi a noi mortali.
Or quivi adunque in un erboso prato
L’ angel depose Belisario ii grande ,
Ov’ era allegra l’ ombra di Camillo
Suo padre , uscita del sinistro cerchio,
Per dimorar col suo figliuol diletto.
Ma come poi ih smisurata luce,
Di
34 POEMI
Ch'acca quel loco, aperse gli occhi gravi
Di Belisario , e gli disdoisc li sonno ,
Conobbe 11 padre ; e fattoseli centra
Per abbracciarlo , lacrimando disse :
0 caro padre mio, quanto ni' allegro
Vedervi in questi fortunati alberghi ,
Dopo tante fatiche e tanti affanni !
Cosi dicca piangendo e sospirando ;
E poi voleva circondarli il collo
Con le sue braccia ; ma quell’ ombra lieve
Si risolveva , come fa una spera
Di sole , o come una compressa nebbia ;
Tal ebe le braccia non strlugevan nulla.
Edei piangea dicendo : Ah nou fuggite,
Lasciatemi abbracciar si care membra.
Dopo queste accogliente , il buon i’a-
Guardava Oso Belisario io volto , [ rnillo
Com’ uom elio vede tutto il suo conlento ;
Poi dolcemente sospirando, disse :
Diletto mio figlino! , che grave soma
T' ha posto adesso il corrcttor del inondo t
Guarda ben , che sott’ essa non trabocchi ;
Acciò che poi qualche fortuna avversa
Non t'adombrasse le vittorie avute.
L' angelo Erminio aiior segui dicendo :
Dunque, Camillo mio, percU’ei non
caselli
Ne l’error che tu temi , io vo’ mostrarli
Quest’ onorato specchio da man destra ,
Ch' ha in sé raccolto tutto l'avvenire;
Qte ’l Re del del m' ha detto, di' io gli mo-
Le cose che verran fin’ a miil'anni, [stri
E ch'io non debbia trapassar quel segno.
Ma perchè meglio lo comprenda , c noli ,
Fla buon che porga una leggera occhiala
Nel specchio a man sinistra del passalo.
E cosi dello, gli disdoise il velo
Che l’ incarco d'Adamo intorno gii occhi
Gli aveva involto ; e poi gli disse : Or mira
L’ anime ch'cscon da la destra sfera ,
E se ne vari correndo a la sinistra
Per questa nostra commutabii parte.
Questi son quei , che vengono a la vita ,
E prendono un boccoli per ciascun vaso
De i dui, che son ne' lati de la porta,
L' un plcn di dolce, e l’ altro plen d' amaro.
Tenuti saldi in man da dui donzelli ;
Nè ponno a vita andar senza gustarne. »
Mira colui , che tol dal destro vaso
IL boccon primo di dolcezza immensa.
Poi si rivolge con diletto a l’altro.
Perchè lo crede parimente dolce;
E pigliane un boccon maggior del primo
EROICI.
Ma trova questo esser si forte amaro,
Ch' a pena a mal suo grado può giottirlo.
Vedi quell’ altro, che '1 boccon primiero
Tol da l’amaro del secondo vaso,
E poi si volge timoroso a l' altro ,
Perchè lo crede parimente amaro;
Onde piglia un boccon minor che '1 primo,
Dal vaso dei dolcissimo liquore.
E però avvien, che questa vita umana [ce.
Sempre ha l'amaro suo maggior, che 1 dol-
Qucl giovinetto poscia , e quella donna
Che dopo il manducar gli porgon bere;
L' uno è l' Errore, e l’ altra è l’ Ignoranza.
Guarda quelle lascive meretrici ,
Varie di veste e d’ apparenzta vaga ,
Clic vanno intorno a i giovinetti incauti ,
E cercano d' indurii al loro amore :
Queste son le diverse opinioni ,
E le diverse voluttà!! umane ,
Che reggono la vita de le genti ;
Mira, eh' alcuna guida i loro amanti
A dritto calle , e l' altre i scorgon poi
A mal cammino, c precipizio orrendo.
Quelle tre belle giovinette ignude ,
Che due di loro a noi mostrano il volto,
Ma quella, cb’ è nel mezzo, e tien le braccia
Sul petto a i' altre, volge In qua le spalle,
Per non mirare il beneficio latto ,
Poi che quell’ altre due con vista allegra
Risguardan sempre al ricevuto bene :
Queste son le tre Grazie, il cui bel nodo
Conferma c lega il buon commercio umano
Vedi una donna la sopra un gran sasso
Quadrato, e sodo, quella è la Dottrina :
E l’ altre due , che poi le stanno a canto
Son sue figliuole , e si dimanda i' una
La Vcritade e la Ragione è l’altra.
Quella eli' è cieca là sopra una palla
Rotonda, c che non posa, è la Fortuna,
Ma le tre vecchie poi , che insieme stanno,
E l’ una tien la rocca , e l' altra il fuso ,
I.a terza il stame tronca , son le Parche ,
Che filano le vite de i mortali.
Quella rbe è si superba, è la Bellezza;
L'altra è la Nobiltà, l’ altra la Gloria;
E l' altra è la Ricchezza , che non cura
Infamia ed odio, e di sò stessa gode.
Quel fanciulli-! lo è il Riso eh' è si allegro ;
Quell' altro è ’l Giuoco poi che con lui
scherza.
Vedi due belle donne , e dui fanciulli ,
Che I' una guarda il elei , l’ altra la terra ;
Quelle son le due Veneri , e gli Amori ,
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ITALIA LIBERATA. 55
Celesti P una , e P un : gli altri del vulgo.
Quella che è II, tutta vestila a verde,
E mai non gli abbandona , è la Speranza :
E quello è 11 Sonno neghittoso e lento.
La donna poi , che su quell’ alto scoglio
Siede gioconda , e tiene il scettro in mano,
È la Feliciti , che voi mortali
Cercate sempre , e mai non la trovate.
E quelle damigelle , eh’ Ivi intorno
Stanno ad servigio suo, son le Virtuti.
Rivolta gli occhi a la sinistra parte ,
Mira quell’ altre sanguinose e crude
Donne , che paion ti feroci in vista ;
L’ una t la Guerra e l'altra è la Vendetta.
Vedi la Povertà , conosci il Pianto ;
E la Pena più fiera assai che un drago.
Conosci P Avarizia e la Vecchiezza ,
E la Fame e ’l Fastidio e la Fatica ,
La Discordia, P Affanno e'i Tradimento,
E l’empia Ingratitudine, eh' è sola
Causa e radice d’ infiniti mali.
Oìmè ! non dimoriam più lungamente
Fra queste orrende c venenose serpi.
Andiamo, andiamo a la sinistra sfera.
Che ha le cose passate; entriamo in essa.
Per starvi un poco, e poscia andar ne Pai-
Cosi parlando l'angelo , menoili [tra.
Con gran celerità nel manco albergo.
Quella amplissima sfera avea tre porte,
La maggior de le quali era guardata
Da le figliuole de P antico Cadmo ;
Queste aveano con seco il bel Poema ,
E la gentile Istoria sua consorte ,
Con altre molte generose ancelle.
L’ altre due porte poi , eh’ eran minori ,
L' una lenea la Favola per guardia ,
L’ altra la Statuaria e la Pittura ;
Ma quello eterno messaggier del deio
Gli fece intrar per la primiera porta ,
De le brunette giovani Fenid.
Come fur dentro , videro un gran mondo.
Con più bel lume assai che ’l nostro Sole ;
Con altra Luna e con più chiare stelle.
Eranvi prati, con fontane e rivi,
E si cari arbuscei , si vaghi fratti ,
Ch’ era diletto estremo a riguardarli.
Belisario stupì di quella vista ;
E rivolgendo gli occhi In ogni parte ,
Vide a man destra un bel fiorito colie.
Ne la cui cima era una vaga fonte ,
Con più chiar’acqua.e di più larga vena,
Ch' aere converso mai mostrasse al sole.
Quivi un bel vecchio con intonsa chioma,
E con barba canuta, ed occhi oscuri,
L' aveva in guardia , e dispensava a tutti
Il buon liquor de P onorato monte.
Allora nacque un desiderio immenso
A Belisario di saper chi egli era,
E dimandonne a P angelo in tal modo ;
Vero amico di Dio, celeste messo.
Non vi sia grave dir , chi sia quei vecchio
Che dispensa tant’ acqua ; e quella gente
Clie sitibonda va d’ intorno al colle.
A cui rispose il messaggier del cielo :
Quello è ’l di viti da voi chiamato Omero,
Che parve cieco al mondo ; ma più vide ,
E seppe più ch'attr'uom ebe fosse In terra ,
Per la cui patria ancora Atene e Smirna;
E cinque altre città fanno contesa.
E le donne leggiadre , che d’ intorno
Gli stanno e per ancelle, e per ministre,
Son le da voi si celebrate Muse ,
Figlie de la Memoria e de P Ingegno.
Quel che tol l’ acqua con si largo vaso
Dal sacro vecchio, e il buon Virgilio vostro,
Chesegul priinaSiracttsa,edAscra ,
Per selve e campi , e poi divenne a l'arme.
Ecco Euripide e Sofocle , ecco il Calvo ,
Che parve pietra a quel volante uccello j
Onde lasci ovv i ir la testuggìn sopra ,
Per lei spezzare e lui condusse a morte.
Vedi con lor Pacuvio , ed Azzlo ; o Varo ,
Fra la non molta tragica caterva.
Mira quell’ altra gente , che ridendo
Pigliano P acqua ; il primo è il gran Menati-
Poi Filcmo, Aristofane e Fratino, [dro,
Cecilìo grave , con Terenzio e Pianto.
Risgttarda poi la lirica famiglia,
Pindaro, Saffo, Anaereonte, Alceo,
Catullo il dotto , e poscia Orazio e Basso.
Volgi la vista a la Elegia , che mena
Al dolce ber Callimaco , e Fìleta ,
E Properzio , e Tibullo , Ovidio e Gallo.
L’ Egloga il suo Teocrito conduce ,
Senza nuli’ altro Greco; c l’accompagna
Il vostro Mantovan da lunge alquanto.
Già potuta fine al sito parlare accorto
L’ angel di Dio , quando ’l baron gli disse :
Deh grave non vi sia , celeste messo ,
Di nominarci ancor quella bell* ombra ,
Che par si dotta , ed ha la coscia d’ oro ;
E di quegli altri che gli stanno intorno.
A cui rispose il messaggier del cielo t
Questi è il dotto Pitagora da Samo ,
Quell’ altro 6 Archita , e quello * quel , che
Nomò per savio P apollinea rote , [solo
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36 POEMI
Socrate, ch’ebbe si ritrosa moglie,
E fu li primo inventor de la morale.
L* altro è ’l divin Platone, e quel eh’ è seco,
È il gran speculator de la natura ,
Onde i Peripatetici ebber orto.
E quello è Zenofontc attica musa.
Vedi il buon Epicuro e i duri stoici ,
Che volean fare ogni peccato eguale :
E Diogene Cinico e Aristippo,
Molto contrari ne le sette loro.
Ecco Nigidio Figulo c Varronc,
Fra quella turba italica sì rara.
Volgi la vista un poco a l'altra parte ,
Vedi Ippocrate medico eccellente ,
Con quello Eccellentissimo Galeno,
Clic vinse ognun d’ esperienza, e d’arte.
Vedi Oribasio c Paulo , clic ’l seconda.
Efrai Latini Antonio Musa e Celso.
Risguarda alquanto quelli acuti ingegni
Euclide e Tolomeo , con quel da Porga ,
Che la materia conica pertratta ,
Con le sue sezlon, che sono il cerchio,
E l’ elipsi e l’iperbole, con 1’ altra ,
Che sola è differente dal cilindro.
Ma dove lasciam noi le chiare trombe
Demostene ed Escliin ? guarda più in alto ,
Gilè gli vedrai contendere, ed urtarsi,
Presso a l’ antico Isocrate e Lisia.
Vedi quel Marco Tullio fra i Romani,
Che fu la idea de 1’ eloquenzia vostra.
Vedi Messalla, vedi il buon Sulpizio,
Antonio e Crasso fra 1* immensa turba
Di tanti degni spirili eloquenti.
Non vo’ lasciar gl' istorici da canto;
Quel vecchio, che si sta fra quelle Ninfe ,
Erodoto è, Tucidide ò quell’ altro,
Che con lui giostra , e ’l buon Polibio è ’l
VediSalustioc Cesare , che vanno [terzo;
Innanzi a Livio , orni’ ei gli guarda torti.
Vedi Plutarco e Plinio, c quelli acuti
Grammatici, Apollonio e Prisciano.
Ma non star più , baron, fra tanti ingegni ;
Chi cbi volesse riguardarli tutti ,
Non si potria mirar nuli’ altra cosa ;
Bastiti avere i più famosi udito,
Però volgiamo! a quei eh’ ebber possanza
Maggiore, e fur più cari a la Fortuna ,
Bieca l’angcl di Dio ; d’ indi nicnollo
Ov' eran duchi , impcradori c regi,
Tutti divisi in tre vallette amene.
E come giunse ne la prima valle,
Si volse lieto a Belisario , e disse :
Qui si dimoran 1' ombre di coloro,
EROICI.
Cli’ ebbero I regni gloriosi In terra.
Guarda colui , eh’ a pena si discerne ,
Tanl' è lontan; quello è 1' antiquo Nino ,
Cli’ ebbe ne l’ Asia si famoso impero :
E la sua moglie Babilonia cinse
Di mura laterizie con bitume.
Quel , che da gii altri è separalo alquanto,
È Moisè, il qual per volontà divina
Condusse il popol suo fuor de l’Egitto;
E quello è David re , che cantò i Salmi ,
Che son da voi si frequentati e letti ; [pio.
Quell’ altro ò Salomon , che fe’ il gran tem-
Rivoita gli occhi ov’è quella gran luce,
Vedi Agamennon re degli altri regi ,
Che andaro a Troia ; c Menelao suo frate .
Quell'altro è Achille, che ne l’aspre guerre
Non si polca nè vincer, nè ferire.
Vedi Diomede , Aiace, Idomcnco,
Neslor, Ulisse e Stendo , con gli altri
Clic stcr dicci anni Intorno a quelle mura.
Da l' altra parte è Priamo ed Alessandro,
Ed Ettor, quasi incspugnabil torre
De la sua patria , col fìgliuol d’ Anchtse ,
E con Polidamante, ed altri molti ,
Gie la difescr quel si lungo tempo.
Dopo costor mira 11 fìgliuol di Marte
Romulo, questi diè l’ inizio e *1 nome
A la citlà , che ha dominato il mondo;
A la città, che la sua gloria innalza
Fili al supremo cerchio de le stelle ;
Ed ebbe sotto il suo divino impero
Ciò che ’1 elei copre e che circonda il mare.
Vedi dlctroa costui Pompilio eTiillo [ tro
Sedere , e Marzio, cl’un Tarqulnioe Pai-
Che ’l sangue di Lucrezia Indi l'espulse.
Mira quel re , eli* ha si benigno aspetto ;
Quello è II gran Perso, nominato Ciro,
Padre de la milizia c de i soldati ;
Da la cui vita ancor si tol la norma
D’ acquistar regni e governare imperj. [de,
Quel eh’ è si ardito , fu Alessandro UGran-
Clic andò vincendoli mondo lino a gl’indi.
Seleuco e Tolomeo gli vanno dietro,
Soldati suoi , poi re de l’Oriente.
Non ti vo' nominar Catnbis c Scrsc,
E Dario, ed altri di ntinor virtute,
Se ben fur regi sontuosi c grandi ;
Basti il notar le più famose teste.
Vedi dui Macedonici Filippi ,
Vedi un Demetrio espugnator di terre.
Quello è Pirro Epirota , e quello è il vec-
Rc Massinissa, e poi lugurta e Rocco, [chio
Quei sono Antioco, Mitridate e Perseo,
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ITALIA
di’ ebbero al loro ardir sì dura sorte.
Guarda color, che son pressoa l'entrata,
Atila II crudo, che Aquilcìa prese,
Mosso dal dipartir de le cicogne.
Vedi Alarico, che dopo mill’anni
E cento, e più, con ingegnosa fraudo
Saccheggia e prende la città di Roma;
E poi sepulto fia presso a Cossenza
Sotto ’l gran letto del corrente fiume.
Dopo costui Giscrìeo a tal preda
Corre chiamato da l' irata Eudossa
E spoglia Roma con rapina immensa.
Vedi poi Teodorico, che in Ravenna
Con fraude uccide II perfido Odoacro;
D’indi governa ben l'Italia afflitta.
E quel clic gli vieti dietro , è suo nipote
Teodalo re, che qui sen veti' iersera,
Deposlo del suo regno , e poscia estinto.
Come fu nota l’ ombra di Teodato
A Belisario, in lei guardando, disse :
0 mal felice re , quanto era meglio
A non mandar la tua cugina a morte,
E servar fede al correltor del mondo !
Perchè del mal non suole uscir mai Itene.
Cosi diss' egli ; a cui rispose 1’ ombra :
Ognun dopo l’ error diventa saggio ,
Se la fortuna al suo pensier ribella.
Cosi face' io, cosi farà colui,
Che mi fece ire ani’ il mio tempo a morte.
Quando sarà prigion ne le tue mani.
E detto questo , subito si tacque.
Allora l’angel glorioso disse :
Non è da star più tempo In questa valle.
Andiamo a l’altra, ove l'imperio siede,
Che solca tutto governare 11 mondo.
Cosi parlando, se n’enlraro in essa.
Poi l’ angel seguitò : Guarda quell’ ombra,
Che par si ardente e si feroce In vista ,
Quello è’I gran dittator.che vinse I Galli,
E poi ruppe In Tessalia il gran Pompeo;
E si fe’ serva la città di Roma ,
Che l’ avea generato , ond’ el fu morto
Da i veri amici de la patria loro.
Colui, che ’l sieguc,òil fortunato Augu-
Che fece dirsi impcrador del mondo , [sto ,
Quando ebbe rimo Marcantonio in mare,
Con la regina del secondo Egitto ;
E chiuse il tempio del bifronte Giano.
Non riguardar Tiberio , c Caio e Claudio ,
Ch’ imperar dopo lui , nè il Ber Nerone ,
Nè Galba.ed Oto, nèVitcllioil grasso,
Che non fur degni di sì gran fortuna.
Guarda Vcspaslan , col figlio Tito;
LIBERATA. 37
L’ altro non già , eh’ ebbe condegna morte.
Guarda ancor Ncrva e l’ ottimo Traiano,
Assunto al grande imperio fuor di Spagna ,
Di Spagna genitrice de la gente.
Più vaga de l’ onor che de la vita.
Mira Adriano ed Antonino il Pio,
Principi eccelsi , e quel mirabil Marco ,
Di cui non fu già mai signore In terra
Di piti sant* opre, e di maggior virtute.
Non risgttardare il suo figliuolo indegno
Di tanto padre; mira Pertinace ,
E lascia Giullan, guarda Severo;
Ma non guardar nè il figlio , nè Macrino ,
N' Eliogaballo infamia de le genti.
Mira il buon Alessandro, e lascia stare
Massimino, e Baibino, e Pupleno,
E gl’ infelici Gordiani , e I tristi
Filippi , c Dccio , e Gallo e Valcriatto ,
Con Gallono suo figlluol , eli' afflisse
L’ imperio, e fu di molta ignavia carco.
E guarda Claudio poi che vinse I Goti ,
E tanti n’ uccìdeo , tanti ne prese ,
Che empio di servi ogni provincia vostra.
Vedi il valente Aureliano In arme.
Che Zcnobia menò nel suo trionfo,
E mira quello eletto dal senato ,
Tacito, pioti d’ ogni gentil virtute.
Guarda il gran Probo, eh’ acquistò la pace
Universale a tutto quanto 11 mondo ;
Onde per sdegno i pessimi soldati ,
Che la guerra volean , gli dier la morte.
Quell’ altro è Caro; c quello è quel buon
prence
Dioclezlan , clic poi che ’l mondo vinse,
E governol veni' anni in tanta altezza ,
Depose giù quell’ acquistato Impero;
E visse poi dieci anni in bel giardini
Privatamente ià presso a Satana;
Nè volse ripigliar l' imperio mal ,
Ben che di ciò ne fosse assai pregato.
Dopo Masslmlan, Galerio e Cloro,
E Severo c Licinio, che nimico
Fu de le lettre , c le appellava peste.
Vicn il gran Costantino , il qual fu il primo
Fautore aperto a la cristiana fede ,
Questi instaurò Bisanzo , e fece! tale ,
Che concorrea con la città di Roma;
Ond’ or Costantinopoli si chiama.
Quello è 11 buon Giullan , eh’ è suo nipote ,
E fu si amico a I studj de le Muse ,
Ma non a Cristo , onde fu forse estinto.
Non risguardar Giovìnlano , e mira
Quel Vaienti nlan che gli vicn dietro
Digi
38 POEMI
Con Valente suo frate , e col figliuolo
Nomato Graziano , e col nipote ,
Ch' Imitò 1' avo suo se non col nome.
Quello è Teodosio poi , che ’l mondo parte
Ad Onorio, ed Arcadio suol figliuoli.
Onde ne seguitò si gran ruina
A l'onorato imperio del Ponente;
Chi Roma fu veduta andare a sacco
Dal fiero inganno de la gente gota.
Poi Valcnlintan , eh’ Aezio estinsc
Lascia , ed Avito , e Maiorano , ed anco
Severlano , Antemlo , e poi Liberio ,
E Gllcerlo , c Nepotc , e quello Augusto ,
In cui fini l’imperio d’Occidcnte;
Perciò che ’1 re de gli Eruli il deposc ;
E dopo lui vacò quella gran sede,
E vacherà , se ben tu la racquistl.
Da l' altra parte è Marziano, e Leo,
Mira, e Zenone Isauro, che fu vivo
Da la moglie sepolto ; e dopo lui
Vedi Anastagio fulminato In terra.
Quand'ebbe gli anni prossimi a nonanta ;
Costor l'imperio avean de l'Oriente.
Allora il capitan rivolse gii occhi ,
E visto che Giuslin dopo Nastagio
Sedea ne l’ alto e glorioso seggio ,
Corse divoto ad abbracciarli I piedi ,
Per onorar 1' antiquo suo signore ;
Ma nulla strinse , onde sorrìse l' ombra ,
E disse : Belisario mio gentile,
Quel che ti mena in questa nostra sfera ,
Ti dovea dir , che cosi fatti offici
Mai non si fan tra I’ alme de i defontl ;
Perchè slam tutti in questi luoghi eguali.
Vattene pur al dritto tuo tiaggio;
E se ritorni su, narra al mio figlio,
Che si prepara a lui quell’ ampia sede.
Che vedi là , si gloriosa ed alta.
Quanto alcun’ altra de la nostra valle.
Cosi disse Giustino; c’I capitano
Già volea fare a lui lunga risposta.
Quando l' angcl di Dio disse : Barone ,
Non star a consumar parlando II tempo
Con l’ ombre lievi , bastiti 11 vederle.
E detto questo , il pose ne la terza
Valle, che aveva i capitani antichi :
E gli mostrò Temistocle, che vinse
Con trecento galee tre mllia navi
Nel stretto, che è vicino a Salamfna,
E Milziade, e l’invitto Epaminonda,
Alcibiade e Gilippo , e Agesilao ,
Trasibulo, Lisandro c Timoteo,
Con molti c molti valorosi Greci.
EROICI.
D' indi rivolto al gran popol di Marte,
Mostrolli I dui Scipioni , c ’l buon ( .ani ilio,
li gran Pompelo , e il fortunato Siila ,
Marcello, Mario, Paulo Emilio e Fabio,
E Metello Numidico e Lucullo,
E quei di libertà sì grandi amici
Fabrizio , Decio , Calo , Cassio e Bruto ;
Con tanti capitan d’una sol terra.
Quanti di tutti e popoli del mondo.
Poi fra i Cartaginesi dimostroili
Annibaie eh' andava Innanzi a gli altri ,
E ’l suo destr’ occhio avea privo di luce.
Ed era seco Amilcare suo padre ,
Cognominato Barca, onde fur poi
Detti i Barchini, e Barellinomi in Spagna.
Poi seguitando, disse a lui rivolto :
Vedi aneli’ Aezio, eh' Alila sconfisse
Ne’ campi catclaunici , e se questi
Da l’ingrato signor non era estinto.
Alila mai non vi Tacca quei danni.
Ve’ Bonifacio, ed Aspare che puotc.
Far altri impcrador, ma non sè stesso ;
Perciò eh' era ariano , e quella setta
Era in quel tempo da I' imperio esclusa.
Qui , Belisario mio , sarà il tuo nido ,
Poi eh’ arai vinta l' Africa e I' Europa ,
E consonata l' Asia al grand' impero,
Avendo appresso te dui re prigioni,
E dui notabilissimi trionfi.
Come s' avviva al sospirar de* venti
Carbone acceso , o quasi estinta fiamma ,
Colai divenne Belisario in fronte
Al dolce suon del destinato onore.
Nè mcn fu lieta I’ alma di Camillo ,
Vedendo al suo Ogliuol si degno albergo.
Ma tempo è che si vada a l’ altra sfera ,
Disse quell' angel glorioso c santo.
Si che non guardar più quei sacerdoti,
Nè quei eh’ han sparso per la patria il san-
Nèl condì lorde le ben poste leggi, [gue,
Nè gli ottim’ Inventor de 1’ ulti arti.
E detto questo , uscì di quel gran loco ,
E s' avviò per gire al destro cerchio
Con Belisario e 1' ombra di Camillo.
Quel cerchio avea sei porte, onde s'inlrava
Al contemplar de le future cose.
La prima avea la Profezia per guardia ,
E la seconda il Sogno , e la Mania
Tenea la terza , e poi l’ Astrologia ;
Ma la Negromanzia reggea la quinta,
La sesta era in custodia de le Sorti.
L’ angelo Erminio poi menò i baroni
Per quella porta che guardava il Sogno ;
ITALIA LIBERATA. J9
E come fu roti uè la destra sfera,
Trovaron l’ acre nebuloso e bruno ,
Simile a quel eh' al giunger de la notte
Si sparge lo eie! con 1* oscurata Luna.
Perù gli disse il messaggier divino :
Capitatilo gentil, volgi la vista,
E ben affisa gli occhi in quella gente,
Che siede Intorno ad una gran cittade ,
E tenta mille modi per pigliarla ;
Ma quel baron , che è dentro , la difende ;
Onde s' adopra ogni lor forra indarno.
Guarda se ti conosci esser colui ,
Che la difende ; e se conosci Roma ,
E gli aspri Goti che gli stanno intorno ,
Più numerosi , che non è l’ arena
Ne’ marittimi liti , o i pesci in l’ onde.
Quivi darantì assai fatiche e danni ;
Ma guarda un poco in là che tu gli cacci
Con vituperio lor fin a Ravenna.
Mira poi , che Ravenna ancor si rende ,
Dopo quelle vittorie , a le tu mani ;
E meni U re prigton dentri a Disamo ,
Con tanta preda e tanta gloria teco ,
Quant’ avesse uom gii mal che fosse al
Allora il capitanio alzò le mani , [mondo.
E gii occhi a] deio , e sospirando disse :
Quanto vi debbo , o Provvidenza eterna,
Ch’ apparecchiate a le fatiche nostre
Questo sì caro e glorioso pregio !
Poi l’ angui santo seguitò ’l suo dire :
Mira color che restano al governo
D’ Italia dopo te , come son lenti
A riparare a la surgente fiamma ;
Onde i rimedj lor saranno indarno.
Vedi Aldibaldo nuovo re de’ Goti
Romper VitcUio lì presso a Trivigi ;
Vedi poi Belio, eh’ Aldibaldo uccide
Per la moglie d’ Urei che gii fu tolta.
Ne la cui sede Alarico vien posto :
Ma poscia aneli’ egli è parimente ucciso ;
Onde Tolda ascende a quell’ altezza.
Mira ancor qui la presa di Verona
Dal valoroso Arlabazo, e dappoi
L’ ignavia de i prefetti che la perde.
Vedi poi come Totila combatte
Con quei Romani lì presso a Faenza,
E tosto i rompe ; e parimente ancora
Rompe a Fiorenza le romane squadre.
Poi prende Benevento , e manda a terra
Le mura ; e piglia i Calabri , e i Lucani ,
Ed i Pugliesi con prestezza immensa.
Vince Demetrio con l’ annata in mare ,
E poscia il prende, e coi capestro al colio
A le mura di Napoli ii conduce ;
Onde la terra misera si rende j
Ed el le spiana le eminenti mura.
Poi mette assedio a la cittì di Roma,
Onde r imperador II fa tornarvi
Con poca , e poco valorosa gente ,
E senza alcun favor de la Fortuna ;
Chè ’l Re del elei sarà con lui sdegnato ,
Ch' avendo avuta una vittoria tale ,
Qual tu gli dai , non riconosce averla
Da Dio , nè da 1’ estreme tue fatiche ;
E non vi rende i meritati onori.
E però non potrai donare aiuto
A l’ infelice assediata Roma ;
Onde con tradimento ella fia presa
Dal crudo re disposto di spianarla.
E manda i muri primamente a terra ,
Poi vuol distrugger gli edifici tutti ,
Ma per lo scriver tuo gli lascia In piedi.
Ben la fa vota d’ uomini ; onde resta
Quella cittì eh’ ha dominato il mondo ,
Con le sue case desolate ed arse.
Nè solamente la cittì di Roma
Vedi per terra, ma I’ Italia latta
Veder potrai con le spianate mura
De le cittì eli’ a Totila si dlero.
Tu ben dappoi ti sforzi ancor munire
L’ onorata regina de le terre,
E le fai ritornar la gente dentro.
Ma poi che con grand’ arte 1’ hai munita ,
Quel dispietato Totila ritorna
Con 1’ esercito suo per prenderl’ anco;
Ma nulla fa , eh’ ella è da te difesa.
Onde senza profitto indi si parte
Con vergogna e con danno ; e qui s’ avve-
di 'esser potrebbe alcuna volta vinto, [de,
Tu poi ti parti fuor d' Italia , e vai
A guardar I’ Asia dal furor dei Persi ;
Come t’ Impone il corrcttor del mondo ,
Per volontà de le superne rote.
Ma quando poi sarai partito quludi ,
Totila piglierà I' afflitta Roma,
Col nuovo tradimento de gl’ Isauri;
E manderà quei cittadini a morte.
Vedi che prende Corsica e Sardegna,
E scorre la Sicilia , e fa gran prede ;
Poi divien possessor d' Italia tutta.
Da poche terre in fuor eh’ avean gii Esar-
Onde l’ imperador placando prima [ ehi.
Il Signor di là su , eh’ era sdegnato ,
Manda il prudente c callido Narsete
Contra questo crudel , con tanta gente ,
Che cuopre tutu la campagna d’ arme;
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POEMI EROICI.
E quando giunto fia ne la Toscana ,
Verrai» il crudo Tolila a T Incontro,
Con tutto quanto 11 fior de’ suol soldati ;
Ivi combatte , ivi fia rotto e vinto
Totila , ed ivi ancor correndo in fuga ,
Vedi clic Asbado Gepido il ferisce ,
Onde ne more ed è sepulto a Capra.
E vedi poi la femminella gola ,
Che mostra 11 loco , ove sotterra è posto.
Ecco i Romani die lo traggon fuori ,
E veduto che 1' bau, lo tornan sotto;
Vedi die ’l forte Teio a luì succede ;
Vedi di' ucciso è là presso al Vesevo,
Mentre che piglia in braccio il terzo scudo,
Ch' arca cangiato il primoe poi il secondo
In quella ferocissima battaglia;
Perdi’ cran pieni di saette e lance.
Quello ó ’l suo capo che si porta intorno
Sopra quell' asta , c si dimostra a tutti.
Ne però I Goti lasciali la battaglia,
Per esser senza re; ma si combatte
Fin a l’oscuro tempo de la notte.
Il di seguente si combatte ancora
Infin al tardi e poi si viene a patti ;
Chò i Goti si cnnlcntan di lasciare
Tutta la Italia libera a i Romani ,
E passar l’ alpi con le mogli loro ;
Nè mai per tempo alcun venirgli contra.
Cosi con questi patti se n' andranno ,
E passeranno a I' isola di Tuie;
Onde arà Un quella lerribil guerra ,
Poi clic durata fia presso a vent* anui.
A quel parlare il capitanio detto
S’ allegrò tutto , e sorridendo disse :
Or avverrà quel clic Procopìo espose
Nel primo cominciar di questa impresa;
Quando mirando il grand’ augurio, disse :
Clic 1’ altro drago ancor rimarria morto
Per le man nostre , e fia l'Italia sciolta.
Quel drago adunque e Totila, ch'ucciso
Sarà per la vittoria di Narsete,
Che riporrà l’Esperia in liberladc.
Cosi diceva il figlio di Camillo ;
Onde l’ eterno messaggier del cielo
Con la fronte assentii» , e poi seguette :
Vedi , che ’l grande Giustiniano arriva
Al fine , c satisface a la natura ,
Volando al del con le purpuree piume.
Vedi poi , clic succede al grande impero
Giuslino e la bellissima Sofia,
E rivocan d’ Italia il buon Narsete ;
Poi quella donna garrula si vanta,
Che lo farà filar tra le sue serve ;
Ond' ei per sdegno ordisce un' aspra tela
Col fiero Albino re de' Longobardi.
Il qual , come Narsete a morte giunga.
Si piglierà l’Ausonia intorno al Pado;
Si clic l’ ingratitudine ancor fia
Nuova ragion clic Italia si ruini.
Ah vizio intollerabil de le genti,
Vizio, elle mandi a terra ogni virtute;
E noci al mondo più d' ogni altro errore !
Vedi poi , come il scellerato Albino
Fa , che Rosmonda sua consorte beva
Col vaso de la testa di suo padre,
Clic fia da lui ne la battaglia ucciso ;
Onde la donna da glusl' ira mossa
Uccide il fiero suo marito, e fugge
Con Almachildc poi dentr' a Ravenna.
Vedi anco come dietro al bel Giustino
Siede Tiberio , e poi Maurizio c Foca;
E d' indi il buon Eraclio, che sconfisse.
Corrode , ed arde Persia , e ne riporla
Un gran trionfo con la croce avanti;
La fiamma là , che ne l' Arabia nasce ,
E di' arde l’Asia e l’Africa, e trapassa
In mezzo Europa , c fagli immensi danni ,
Fia di Maumctto; il qual con nuova setta,
Che Sergio gli darà , farà adorarsi;
E fia il flagcl de la cristiana fede.
Vedi la stirpe, che d’ Eraclio nasce.
Governare ottani’ anni il grande impero.
Mira l.eonzo, e Absiiniro , con gli altri
Eletti Imperador de l'Oriente,
Infino al tempo de la bella Irene.
Quivi l' imperio occidentale ancora
Ritorna in piedi, c si riporta in Francia;
Coronandosi in Roma Carlo Magno
Da Leon papa, quando arà difesa
La Chiesa , e preso il re de' Longobardi ,
Ch' avean tenuto quasi Italia tutta
In dura servitù cento c cent' anni.
Vedi l’ imperio d’ Oriente posda
Calare, infin che Balduino acquista
La famosa città di Costautluo;
La qual il Palcologo poi ripiglia,
Avendo ucciso il suo pupillo , e tolto
Al successor de i Lascari l’impero,
Che poi starà ne 1' onorata stirpe
De i Psicologi», d‘ uno in altro erede.
Fin che Maumctto gran signor de’ Turchi
Prenda Costantinopoli , e ruini
La casa palcologa; perchè ucciso
bla Costantino in quel conflitto amaro;
Onde arà fin l’ imperio d’ Oriente.
Come udì questo il capitanio eccelso,
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41
ITALIA LIBERATA.
Non poleo ritener le guance asciutte;
Ma fur d’amaro lacrime coperte,
Per la pietà del miserabil fine ,
Cb’ aver dovea quel glorioso impero.
Poi seguitando , l’ angelo gli disse :
L’ imperio d’ Occidente, dopo Carlo,
Arà tre Lodovici, con dui Carli ,
Un Lotario, un Arnolfo; c poi si parte
Di Francia , e vicn condotto in Alemagna ;
E dassi ad Otto duca di Sassogira
A cui succede il second’ Otto, c’1 terzo.
Questi ritornerà Gregorio papa
In sede; onde elettori al grande impero
Dappoi faransi principi germani.
Tre saran sacri; il primo fia Cologna,
Treveri V altro, c ’l Maguntino è ’l terzo.
E tre soluti ; il duca di Sassogna ,
Il conte Palatino e ’l Brandomburgo.
Ma se fosscr discordi , e tre per parte ,
Allora il re, che la Boemia regge.
Sarà fatto elettore , e potrà dare
A qual parte vorrà vittoria certa.
Ad Otto terzo sicgue Arrigo primo ,
E poi Currado, c po’ il secondo Arrigo,
Poi viene il terzo , si ne l’arme fiero,
Che combatteo sessantadue battaglie.
A cui seguita il quarto e poi Lotario,
E Currado secondo, e Federico,
Che da la rossa barba ebbe il cognome ,
Principe eletto e dì virtù suprema.
Dietro a luì siede Arrigo c poi Filippo ,
Ed Otto quarto; a cui siegue il secondo
Federico gentil , pien d’ ogni loda ,
Simile a l’avo di prudenzia, c d’arme,
Ma più fautor d’ Italia e de le Muse.
Poi vien la casa d’ Austria al grande impc-
La casa d’Austria , veramente capo [ro ;
De 1’ altre case che mai furo al mondo;
Madre di tanti imperadori c duchi,
E re, d’ ogni gentil virlute adorni.
Il primo d’ essa , eli’ a l’ Imperio ascenda,
Sarà il conte Rodolfo, che combatte
Con Oltachiero, c vincolo, c 1* uccide;
Poi vince il falso Federico , e 1’ arde.
Dietro a costui , ne 1’ alto imperio siede
Alberto suo figliuol , che rompe e vince
Adolfo d’ Fsia , e fallo andare a morte.
Vicn poscia Arrigo, quel da Lucimborgo:
E Ludovico di Baviera , e Carlo ,
E Vincislao , Ruberto e Sigismondo ,
Tutti de i Lucimborghi ; e dopo questi
L* imperio torna a ia gran casa d’ Austria,
E starà io essa ancor di grado in grado,
Fin che trapasserà questo millcsmo.
Nel quale il sommo Imperadordel cielo
Vuol, eh’ io ti mostri le future cose.
Ma quanto durerà dopo mill' anni
L’ imperio in Austria, mi convien tacere,
Per non passare il deputato segno
Da questo di fin al millesim’ anno.
Vedi là, dietro a Sigismondo altero,
Alberto d’Austria , eh* a 1* imperio ascen-
Ercde univcrsal de i Lucimborghi. [de ,
Dopo costui vien Federico il terzo ,
Principe giusto cd amator di pace ,
Ch’ anni cinquantaquattro arà il governo
Do l'Imperio di Roma; a la qual meta
Nuli’ altroaggiunse imperadordel mondo.
Mcravigliossl Belisario il grande,
Quando l’angel dicca, eh’ a quella meta
Nult'allro aggiunse impcrador del mondo:
Perciò che aver solca per cosa ferma,
Ch’ anni cinquantasei regnasse Augusto.
Ma quel celeste messaggìer, che vide
Come foglia , eh' ò chiusa in lucld’ ambra ,
li dubbioso pensier di quel barone,
A lui sì volse , c sorridendo disse :
Valoroso signor, che illustri il mondo,
Sappi che Ottavio e Marcantonio , poi
Che fu ’l ventoso Lepido deposto.
Signoreggiar più di dieci anni insieme.
Ma come Ottavio vinse il suo collega
In Azzìo , eh’ or la Prevcsa si chiama ,
Allor fu solo imperador di Roma,
Allor fu Augusto, allora ii mondo resse
Quattri anni o poco men sopra quaranta :
Si che non t’ammirar di quel eh’ io dissi.
Vedi poi dietro a Federico terzo,
Quel Massimìlian che è suo figliuolo.
Questi sarà si valoroso in guerra.
Sì liberale c si benigno in pace ,
Che le delizie fia di quella etade.
Guarda il nipote di costui , eh’ arriva
Al grande impero anz’ il millesim' anno.
Che m* lia prefisso a dimostrarti il cielo.
Questo fia Carlo, figlio dì Filippo,
Mandato a voi da la divina altezza,
Per adornare c rassettare il mondo.
Costui farà col suo valore immenso
Ritornare a l’ Italia il secol d' oro.
Nò solo andrà da i Garamanti a gl’ Indi ,
E dal gran Nilo al fiume de la Tana
Soggiogando a l’ imperio ogni paese;
Ma anco trapasserà con grande armata
Di là da l’ equinozio a V altro polo,
E piglierà più terra assai , che questa
« POKMI
Di qua , che ’n tre gran parti fu di\isa ;
Quindi riporterà lanl' oro e gemme ,
Ch’ adorneran tutti i paesi rostri.
Al muorer di costui , tremar vedrassi
La Gallia , e spaventarsi il re de' Turchi ,
E 1’ Africa adorare il suo vessillo.
Ma non ti ro' più dir, chei suoi gran fatti
Trapasserlano in quell' altro millesimi ,
Che ’I Motor di là su vuol ch'io ti celi.
Ma vo* lasciare I capitani e I regi ,
E I pontefici sommi ; in cui vedresti
Nicola quinto, c T decimo Leone,
Si veri amici a i studj ed a gl* ingegni ,
Che de I lor frutti allcgrcrassi ’I mondo.
Dunque lasciam tutti costor da canto,
Chè saria lungo il nominare ognuno;
E voltiam gli ocelli al monte de le Muse.
Vedi quel che è la su presso a la cima ,
Colui fia Dante , mastro de la lingua,
Ch* allor l' Italia nomerà materna;
Questi dipingerà con le sue rime
Divinamente tutta quella etade.
L* altro, clic slegue lui , sarà il Petrarca ,
Che con bel stile , e con parole dolci
Descriverà quegli amorosi affetti.
Che desta amor ne gli animi gentili ;
Vincendo ogni altroché già mal ne scrisse.
Il terzo fia il Boccaccio , le cui prose
Saranno ingombre di pensier lascivi.
Risguarda un poco gl’ inventor de I' arti ;
Lustra con gii occhi , e mira quei Tedeschi
Gli' han ritrovato I* arte de la stampa
In Argentina, là vicino al Reno ;
Per cui si scriverà tanto in un giorno,
Quanto altrimente si faria in un anno.
Ma guarda ancor più là verso coloro ,
Che prendon nitro con carbone e solfo ,
E ne fan polve , e pongonla in quel ferro
Cacato e poscia una pallotta sopra,
E dangli fuoco , e fan tanto rimbombo,
Che si vede il terren tremarli intorno.
Questi son quei che truovanla bombarda,
La qual divisa in colubrine , e sacri,
E cannoni , e schiopetti , ed archibusi ,
Farà tal danno a i muri , ed a le genti ;
Che non si potrà farvi alcun riparo ,
Più che si faccia a i folguri del cielo.
À questo Belisario , alzò la fronte,
E riguardando assai quel nuovo ingegno,
Desiderava di portarlo seco
Giù nella vita , a debellare i Goti ;
EROICI.
Di che s’ av \ ide il inessaggier del cielo ,
E disse a lui queste parole tali :
Capitario gentil , volgi la mente
Ad altro, perchè Dio non ha permesso
Ancora al mondo quel flagello orrendo,
Che se indugiasse a darlo ben mill’ anni ,
E mille, e mille, fia troppo per tempo.
Mira quella città , che ’n mezzo 1’ acque
Surge tra il Sile , c 1* Adige , e la Brenta ;
Quella è Venezia , gloria del terreno
Italico, c rifugio de le genti.
Da la sevizia barbara percosse.
Questa regina fia di tutto *1 mare ,
Specchio di libertà, madre di fede,
Albergo di giustizia, e di quiete.
Le cui virtù sempre saranno eccelse ,
Ed ampie in ogni sua futura etade;
Ma più sotto P imperio del buon Grilli ,
Che pollerà la vita in abbandono ,
E la difenderà da tutta Europa,
Che fiali a torto congiurata contra;
E come poi sarà nel gran governo.
Che quell’ ampia città chiamerà duce,
La tenirà sicura in tant’ altezza,
Che tutti quanti i principi del mondo,
A pruova ccrcheran d’ esserli amici.
Ma s’ io volesse correr le sue lodi ,
Mi mancheriano le parole , e *1 tempo ,
Chè forse non fu mai sopra la terra
Nessun eh* avesse in sè tante virtuti.
Or sarà ben dappoi , ch* io t* ho mostrato
Ciò eli* è piaciuto a la bontà divina,
Ch’ io ti rimandi al tuo munito vallo;
E costui vada a la sua sede eterna.
Cosi gli disse 1’ angelo , e toccollo
Poi con la verga, eli’ ei teneva in mano ,
Onde P assai se fieramente il sonno;
E gii fece lasciar quella licenza,
Che volea tor da P ombra di suo padre.
Quindi l’angelo il prese, c riportoilo
Addormentato sopra il bel pratello,
Ed appoggiollo ad un di quelli allori ,
E lieto se n’ andò volando al cielo;
Ma quel baron cadrò subito a P erba ,
E tutte P armi gli sonaro intorno ,
Tal clic deslossi , e soilevossi in piedi.
Poi ratto a quel rumore usci di cella
Con dolce aspetto il venerando vecchio ;
Onde il gran Belisario inginocchiossi
Nanzi a i suoi piedi , e benedir si fece,
E poi tornossi con Traiano al vallo.
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ITALIA LIBERATA.
43
LIBRO XXII.
MORTE 01 CORSAMONTE.
Al fin de le parole II mal Sarmento
Mostrò una lettra falsa che parea
DI man d' Elpidia che scrivesse questo.
Onde T gran duca stimulato molto
Dal' amore e da l’ ira e dal sapere ,
Chè non mancava a lui virtù nè forza ,
Rodessi dentroc disse : Andiamo. andiamo
A trar questa meschina fuor di pene.
Allor Sarmento preparato avendo
E lumi e fuochi cominciò la strada ,
E Corsamente dlsmontato a piedi
Lasciò 11 cavallo e l’ armi in quella grotta
A guardia di Doletto c portò seco
La spada sola c la celada e '1 scudo ,
Chè non pensava aver bisogno d’arme;
Perciò che posta avea tutta la speme
DI liberar la sua diletta sposa ,
Ne le promesse false di Burgenzo.
Ma chi spera aver ben , da chi gli è stato
Nimico espresso, ha debole II consiglio.
Come Doletto, ch’era ivi rimaso,
Vide 1 baroni in quella occulta via ,
Andò per T altra parte entro al castello ,
E giunto in esso pose, in su le mura
Una facella accesa per signale ,
Che si movesser prestamente 1 Goti ,
Perciò che Corsamonte era In quel luogo.
Ma come il duca per l'occulta via
Insieme con Burgenzo e con Sarmento ,
SI ritrovar vicini a quella torre ,
Ov’ era chiusa Elpidia, uscir del buco;
E mentre che Sarmento ad una guardia
De la prigion dlcea che aprisse tosto ,
Ed ella pur tcnea la cosa In lungo ,
Fingendo non saper trovar le chiavi ,
Giunsero 1 Goti dentro a quel castello ,
Con gran furore e con gridori immensi ,
Ch' erano stati aperti da Doletto.
Allor s’ accorse il duca esser tradito,
E volsesl a Sarmento Irato e disse :
Ahi falso traditor tu m’hal pur colto,
Come si colge il lupo entro a la fossa ;
F. dlelli un pugno tale in una tempia ,
Che franse l’ osso e ruppell il cervello ,
E lo distese morto In sul terreno ;
Poi si volse per dare anco a Burgenzo ,
Ma non lo vide, chè ’l ribaldo cauto
Restò nel buco e chiuse Ivi la porta.
In questo aggiunse il duca di Vicenza ,
Con trenta milia Goti in un squadrone;
Questi era a piè con gli altri che i cavalli
Avcan lasciati ognun fuor de la porta,
Ed andò contra Corsamonte e disse :
Tu sarai colto pur a questa volta,
Acerbo cane c non potrai fuggire.
E detto questo lasciò gire un'asta
Possente e grossa e colselo nel scudo ,
Tal clic l’acerbo e impetuoso ferro
DI quella gli passò sei grosse piastre
Di fino acciaro che '1 copriano tutto,
E poscia ne la settima si tenne.
Ma Corsamonte intrepido e virile
Torse quell'asta con la mano ed ella
Ruppe la punta sua presso a l’acciaro
Primo dov’ era sculto il gran leone ,
Che quel baron portava per insegna.
Nè perchè fosse rotta la sua punta ,
Lasciò di trarla aneli' ei verso il nimico,
Che lanciata l' avea dentro al suo scudo ,
Ma non l'accolse chè saltò da un lato,
E sì schermi ; ben colse Spinabello ,
Flglluol di Sergio conte di Valdagno,
Ch’era ivi appresso In mezzo de la fronte,
E cosi senza punta franse l’osso
Del capo , e penetrò fin al cervello ;
Onde cadeo disteso in terra morto.
11 che vedendo Marzio ebbe paura,
E ’n dietro si tirò tra le sue genti ,
E poi gridava con orribll voce :
Fatevi innanzi , o generosi Goti ,
Ora che avemo 11 lupo entro a la cava:
Non vi smarrite no per 1 suoi colpi ,
Clic non possono aver lunga durata,
Nè risparmiate saettami c lande,
Chè tosto morto il vederete in terra.
Cosi gridava Marzio ; onde volaro
Infinite saette entro al gran scudo
Di Corsamonte ed e' volgessi intorno,
E presa avendo in man l’orribil spada.
La facea sfavillar per ogni parte.
E feri Sulimano in una tempia,
Flglluol di Galio conte di Asigiiaco,
E lo mandò disteso In sul terreno.
Uccise poi Grifiaido e Galabronle,
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44 POEMI
Ch’eran figliuoi di Durlo e Crispatora;
Prima a GrilTaldo trapassò la pancia,
A Galabronte poi parti la testa ;
Che gli cadeo su l’una c V altra spalla;
Onde vedendo quelli orribil corpi,
Tutta si ritirò la gente gota,
E ’l duca Marzio ancor rimase avanti ,
E vedendosi quivi alzò la spada,
Chè la necessità lo fece ardito,
E menò su la testa a Corsamonte
E se non era l'ottima celada,
E la maniglia de la buona Areta,
Lo mandava in due parti sul sabbione,
Ma quelle due difese lo saivaro;
Poi Corsamonte a lui tirò una punta,
E colse) proprio sotto ’) destro fianco,
E senza dubbio lo mandava a morte ,
S’egli non si schernita, tal che sospinse
Disbrizzo il ferro e andò tra carnee pelle;
Pur il sangue gli uscì fuor de la piaga.
Ma quando Marzio si senti ferito,
E vide il sangue suo cadere in terra,
Si tenne morto sena' alcun rimedio,
E per disperazlon fatto sicuro,
Alzò con ambe man 1* acuta spada,
E diede a Corsamonte su la lesta
Un fiero colpo c con si gran furore
Clic quasi lo mandò stordito al piano.
E Corsamonte allor empio ’l suo petto
Tanto di sdegno c di vergogna e d’ira,
Che raddoppiaro in lui tutte le forze:
Onde prese ancor ei la spada orrenda
Con ambe due le sue possenti mani,
E diede a Marzio su la spalla manca
11 maggior colpo che mai fosse udito,
E ’l petto gli narlì , la schcna c ’l busto ,
E gli usci fuori appresso il destro fianco,
E ’n due pezzi il mandò sopra l’arena,
Chè ciascun d’essi avea una man c un
braccio
E l’un tenea la spada e l’altro il scudo;
Cosi quel duca ebbe spietata morte
Per man de l’animoso Corsamonte.
E come il lupo che in un chiuso ovile
Per arte del pastor si truova colto;
E i giovinetti pastorelli e i cani
Gli sono intorno per mandarlo a morte
Ed c’ s’aiuta con 1’ acuto dente;
Poi quando afferra un cane entro a la gola
E sanguinoso lo distende a terra,
Fuggono i pastore] , fuggono i cani
Per la paura de l’ orribil fiera;
Cosi tutta fuggia la gente gota
EROICI.
Per la paura del possente duca ,
Che’n dui pezzi mandò il nimico a) piano.
E dopo questo quel barone audace
Si messe dietro a la fugace gente ,
E tanti n’uccidea con l’empio brando,
Ch’altro non sìvedea che morti c sangue;
E certamente tutti erano uccisi ,
Se non giungeva Tolila e Risandro,
E Telo ed Asinario c llodorico,
Col secondo squadrone a darli aiuto ;
Questi venian gridando : Morte, morte
Al nimico crudel eh’ è chiuso in gabbia;
E cosi enlraro dentro a la gran rocca
Con quelli orrendi e paventosi gridi ;
Ma Corsamonte non si masse nulla,
Chè nel suo cuor non entrò mai paura ;
E si cacciò tra lor col brando in mano ,
E ’l primo clic ferì, fu Squarciafcrro ,
Signor di Campo Lungo e San Germano,
Poscia uccìse Rodon , Pilasso c Targo ,
Rodon nel collo e Targo ne la tempia
Ferine, e ’l fier Pilasso ne la pancia.
E sbaragliava ancor quest’aura schiera.
Se ’l re de* Goti e ’l resto de la gente
Non fossero saliti in su le mura
Da la parte di fuor con molte scale,
Lasciando a basso guastatori c fabbri
Circa le torri con livicre c picchi ,
Per ruinarlc addosso a Corsamonte.
E questo fece il re perchè Burgenzo
Dello gli avea clic ’l duca ha una managlia
Ch’a Gnalia gli donò la buona Areta,
Ch* esser non può nè punto nè ferito:
Però bisogna ovver gettarli addosso
Qualche gran torre ovver fiaccarlo in modo
Che per stanchezza sìa condotto a morte;
E questo parve a lui consiglio eletto,
Perdi’ era più sicuro il star lontano
E ferir quel baron , che andarli appresso.
Onde fece salir la terza schiera
Sopra le mura al lume de la luna.
Che rilucea come se fosse giorno,
E lasciò a basso l guastatori e i fabbri
Con ferri a scalpellar circa le torri.
Poi nella piazza Totila e Bisandro,
E Telo c gli altri principi de i Goti
Erano intorno il glorioso duca
Con spade e lance c con orribil sassi ,
Ed c’ si stava intrepido e col scudo
Si difendeva c col tagliente brando,
Col quale uccise il giovane Gradarco,
Ch’era fratei di Totila bastardo,
Figliuoi di Scrpcntano c di Armerina,
ITALIA L
D’ Armerina gentil che ascosamente
Lo partorì nel bosco del Martello ,
Per tema di Altamonda, ch’era madre
Di Totita e moglier di Serpcntano,
Ma non schifò però l'odio c *1 furore
Di quella donna, che com’ebbe inteso
Il parto di costei , fece annegarla
Nel fiume impetuoso de la Piave:
E ’l fanciullin di lei fu poi nutrito
Da certe pastorelle in quella selva ,
E cresciuto dì forza e dì bellezza ,
Venne a Trivlgi a ritrovare il padre,
E Totila suo frate che l’accolse
Con gran diletto e* poi inenollo a Roma,
E quivi era con lui; ma troppo innanzi
Si spinse, onde ’l feroce Corsamonte
Con la sua spada gii trafisse il petto,
E morto lo mandò sopra la piazza.
II che vedendo ognun, stava lontano,
Facendo guerra con le lance e i sassi
Più volentieri assai che con le spade ;
E Corsamonte col suo scudo In braccio
Sostenea tutto il stuol , come un cingialc.
Ch’abbia d’intorno cacciatori e cani,
Con spiedi c dardi , ed e’ si volge e freme
Col pelo irsuto e col feroce dente,
Tal che non osa alcuno andarli appresso.
Perchè qualunque a lui si fa vicino.
Non si diparte senza sparger sangue.
Così faceano i principi de i Goti ,
Ch’ erano a basso intorno a Corsamonte;
Ma quei ch'cran saliti su le mura,
Gettavan tante lance e tanti sassi ,
Sopra il baron che combatteva in piazza,
Ch’era cosa mirabile a vederla.
Nè mai fioccò dal ciel sì spessa neve ,
Nel freddo tempo de l’algente bruma.
Nè si spessa gragnuola a i giorni estivi
Tempestò mai su le terrene piante,
Come spesse cadean le dure pietre ,
E l’ aste forti e i penetranti dardi
Sopra il gran scudo del possente duca ;
Tal che faceanlo alcuna volta andare
A mal suo grado col ginocchio in terra;
Ma non possendo riparare a un tempo
Col scudo a quei di sotto e a quei di sopra,
Si trasse indietro al piè d’ un’ alta torre,
Ch'era posta in un canto de la piazza,
Coperta d’ un gran vólto , e da le spalle
Del muro de la rocca era difesa,
E sol davanti avea la strada aperta.
Quivi fermossi l'animoso duca.
Facendo un’ incredìbile difesa ,
JBERATA. 45
E parca proprio un scoglio avanti un porto,
Che da Tonde del mar tutto è percosso
Con estremo romor d’orribil vento.
Ed ci sta saldo e col suo starsi immoto
Frange e disperde ciò che a lui s’appressa;
Cosi parca quel Corsamonte audace ;
E ben da tutto il stuol s’aria difeso.
Se quei ch’cran di fuor co I picchi in mano ,
E che più di quattr’ore avean picchiato
Intorno ai fondamenti de la torre,
Non la facean cader sopra il suo capo.
E nel cader che fece , ancora accolse
Turbone e Baricardo e Fullgante,
Due cugini di Telo, un di Bisandro,
Con più di novecento altre persone;
Ma questo parve nulla al re de’ Goti ,
Poiché ’l suo gran nimico era sott' essa.
Le genti come vider quella torre
Caduta sopra T animoso duca,
Mandarono un gridor fin a le stelle;
E cosi morto fu quel gran guerriero.
Con danno estremo de T Italia afflitta.
Poi non fu Goto alcun che non pigliasse
Legnami o sassi e no i gettasse sopra
La gran mina c le cadute pietre ,
Quasi temendo ancor che quindi uscisse,
| E tutti quanti gii mandasse a morte.
Cosi gettando ognun materia molta ,
Crebbe su quella piazza un alto monte,
Non minor del Testaccio e non men grave
Di quel che *1 grande Encclado ricuopre.
Il Re del cielo, a cui dispiacque e dolve
La morte d’un tant’uom, ma consenti Ila,
Per non si contrapporre al suo destino.
Chiamò l’angelo Erminio, e cosi disse:
Diletto e fido messaggier del cielo ,
Tu vedi 11 grave ed immaturo fine
Del più forte gucrricr che fusse in terra;
Vestiti Tale e va volando a Roma,
E narra al capitano de le genti ,
Che ’1 buon duca di Scizia è in gran pc-
Di lasciarli la vita, e digli appresso [riglio
La causa de l’orribil sua sciagura,
Ma non gli dir però che sia caduta
La torre addosso lui, nè che sia morto,
Acciò che vada tosto a darli aiuto.
L’angel di Dio, dopo il divin precetto,
Aggiunse Tali a sue veloci piante,
E venne giuso, come fa il baleno,
Che ne la notte limpida scintilla ,
E nunzia che sarà sereno e caldo.
Poi presa la sembianza d’ Orsicino ,
Andò dov’era il capitano, c disse:
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46 POEMI
Illustre capitan, gloria del mondo,
Io stara in guardia a la Flaminia porta,
E questa notte in l’ ora de le squille
Venne a trovarmi un uom di tal presenza,
Ch’ un de' messi parca del paradiso ;
E mi disse : Orsicin, vattene tosto
Al vice imperador de l’Occidente,
E digli , come I) forte Corsamente
Stato è rinchiuso dentro del castello
Di Prima Porta, c tutto il campo goto
V’è posto Intorno per mandarlo a morte,
E quivi fu condotto da Burgenzo ,
Con arte e con promessa di trae quindi
La bella Elpldia c di condurla a Ruma.
Digli clic vada tosto a darli aiuto,
Chè questo è il di che caccieranno i Goti
Con gran mina ior dentro a Ravenna.
Cosi da parte di quel messo eterno
Vi dico c parimente ancor v’esorto.
Ch'andiate prestamente a darli aiuto.
E detto questo , via spari come ombra :
Onde ’I gran capitano ben conobbe.
Ch’egli era un messaggier del paradiso,
E senza indugio alcun levossi in piedi ,
E ratto si vesti di panni e d’ arme.
Poi quell’ angui di Dio con gran prestezza
Sotto la forma di Carterio araldo ,
Se n’ andò a risvegliar tutta la gente ;
E trovò prima l’ onorato Achille ,
Che come intese la spietata nuova
Di Corsamente e ’l suo periglio estremo,
Senza curar d' alcun futuro male,
Perchè non era salda ancor la piaga ,
Cli' Ablavio diedi1 a lui sotto ’l costato ,
Che fu più perigliosa che non parve ,
Levossi c si vesti di lucid’armc,
E ratto s’ avviò verso la corte.
Quivi trovò che Belisario armato
Sopra Vallarco volea gire a. campo ,
E le schiere vcnlan con molta fretta,
Ch' cran sollecitate da gli araldi.
Al giunger di costui si rallegraro
Alquanto in vista le adunate genti ,
Come entropia a l’apparir del sole;
Ed e' poi disse il capitano eccelso :
Illustre capitano de le genti ,
Andiamo a dare aiuto a Corsara onte.
Ed andlam tosto, ehè ’1 soccorso lento
Suol giovar poco c poca grazia acquista;
E cosi detto, tutti s'awlaro
Verso ’l castello al lume de la luna ;
E come furo appresso a la gran rocca
Trovar Burgenzo insieme con DolettO ,
EROICI.
I quai , dappoi che fu sepolto il duca
Da la rulna di quell' alta torre,
Ritornaro a la grotta di Sarmento ,
Per prender il cavai di Corsamonte,
E per donarlo a l' empio re de’ Goti ;
E seco aveano a man quel buon corsiero.
Perchè non volse alcun di loro in sella ;
Ma come s' incontrerò in quella gente ,
Ch’avea condotta Belisario il grande.
Si smarrir tutti e si volean fuggire.
Pur presero ardimento e se n’ andaro
Al capitano lagrimosi in vista,
E Burgenzo gli disse in questa forma :
Illustre capitano de le genti
Assai mi duol de l' immatura morte
Di Corsamonte e del suo caso acerbo;
Dio sa ch'io non volea menarlo meco
111 quel periglio, ed e’ venir vi volse.
Spinto d’amore e da soverchio ardire;
Ma chi si iìda troppo ne la forza,
E spesso vinto da l’altrui consiglio.
Cosi disse Burgenzo , e quel signore ,
Che per bocca de l’angelo sapeva
II tradimento fatto e non la morte
Di Corsamonte, anzi l’avea per vivo;
Come udi quella ebbe dolore immenso
E focosi narrar tutta la cosa ,
Ed egli la narrò , dicendo spesso ,
Che questo fatto fu senza sua colpa.
Coni’ ei si tacque il capitano eccelso
Guardollo torto e. con favella acerba
Gli disse : Ali traditor tu l’ hai condotto
In quella rocca con fallaci inganni,
E sei stato cagion del suo morire ,
Ma non Io vo’ lasciar senza vendetta ;
E subito ordinò che fosser presi
Dolctto e lui , poi gli mandò legati
Sotto la guardia di Traiano a Roma.
Achille come udì l'acerba morte
Di Corsamonte suo perfetto amico ,
Ch'era amato da lui più che sè stesso.
Con le man gravi si percosse il capo ,
E poi gemendo c lacrimando molto ,
Si lamentava esser rimaso In vita ,
E che’l crudele Ablavio non l’uccise;
Onde per consolarlo il buon Lucilio,
Che tenui avea che non si desse morte ,
Per man lo prese e iagrimava seco ;
Lagrimava con lui Sertorio e Ciro,
Bessano e Magno e molti altri baroni
Per l’ empia morte de l' eccelso duca.
Nè finito saria quel duro pianto.
Se T capitano eccelso de le genti
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ITALIA LIBERATA.
Non gli dicea queste parole tali :
Non consumale lagrimando il tempo ,
Baroni illustri e cavalieri eletti ;
Ma ognun di voi ch’amava Corsa monte
S’adopri a far di lui chiara vendetta;
Chè più grata le Ha che doglie e pianti ;
Cbè la vendetta è il pianto de 1 guerrieri ,
Nè mai sta bene a gli uomini robusti
11 lacrimar, come fanciulli o donne.
Cosi parlò quel capitano eccelso;
E poi fece ordinar le ardile schiere,
Ed assalì con molta furia i Goti ,
Ch’ erano inteuti ad atterrar le torri ,
E a gettar pietre in sul barone estinto :
Onde in poc’ora tutti gli disperse;
Perchè da Ja vigilia de la notte ,
E da la tema dei ferir del duca ,
E dal piacer ch’avean de la sua morte,
Erano tutti affaticati e stanchi.
Or chi vedesse Addile avanti gli altri,
E Mundello e Bessan , Lucilio e Ciro
Urtare in essi e far del sangue loro
Vermiglio il prato ed innalzarsi il fiume,
Dirla che non fu mai sunti macello.
L’ardito Grò uccise Sacripardo,
Fratei cugin del principe Bi sandro;
Questi era il più superbo c ’J più arrogante
Baron de 1* Istria e combat tea con tutti
Que’suoi vicini senza alcun vantaggio;
Questi percosso fu da T asta fiera
Del conte Uro e fu mandato a morte ,
Chè *1 petto gli passò fin a le spalle ;
Tal che desiderò d’ aver avuto
Vantaggio d’arnie c di destrier gagliardo,
Per uscir da le man di quel barone ,
A cui non era e guai , se non di grado ;
Citò fu ancor egli conte di Trieste.
Achille ucdse Folco e Marco listo ,
Tarponc e Biltngaro e Garimbaido,
L'un dopo l'altro con diversi colpi;
Folco feri nel petto, e Marcolisto
In fronte, c poi Tarpone e Bilingaro,
L'un nel bellico e l'altro ne la pancia,
E Garimbaido nel sinistro fianco.
Mundello ucdse Oveno cd Origlilo ;
Bessano Ai fardo, e ’l bel Lucilio Orsaldo,
E Magno uccise Urante, e *1 capitano
Ne mandò tre con la sua lancia a morte ,
Aridarco e Grancone ed Orionte,
Oriontc crude! ch’avea le membra
Come un gigante e T cuor come un leone;
Ma l'uno e l'altro a lui dier poco aiuto;
Chè Belisario gli passò la gola
E lo distese morto in sul terreno.
Allor si messe totalmente in fuga
La gente gota e ognun di lor fuggia
Chi qua, chi là verso i vicini colli,
li re s’era fuggito al primo assalto.
Sopra un suo corridor verso Vaienti ,
E Totila fuggì verso Kignano,
Lisandro a Castel Nuovo, c Rodorico
A Monte Rosso ed Luigastro a Suttri,
Telo a Baccano c fuvvi alcun di loro.
Che correndo n’andò fino a Viterbo:
Ma seguitati un pezzo da i Romani,
Tanti ne fur feriti e tanti uccisi,
Ch’era coperta la campagna tutta
Di cavai morti e d’ uomini c dì sangue.
Allora il capitano de le genti
Fece sonar raccolta e posda disse
A la ridotta gente oste parole :
Signori eletti a liberare il mondo.
Or che fuggita s’è la gente gota.
Con tanta ocdslone e tanto sangue.
Quanto spargesser mai fuor de i lor petti,
Fia ben che noi si ritorniamo in Roma
Acdò che tosto andiam verso Ravenna ,
Chè per la rotta acerba eh’ hanno avuta,
E per la fuga lor molto dispersa
Non ridurransi agevolmente insieme;
E noi si tosto gli saremo addosso
Che tempo non aran da far difesa;
Perchè dopo le rotte de 1 niniici.
Chi vuole aver di lor vittoria a pieno,
Non gli dia spazio mai di ristorarsi.
Sarà poi ben che resti il conte Ciro ,
Con le sue genti c faccia trarre il corpo
Di Corsamonte fuor de le ruine,
E con Elpidia lo conducili a Roma ,
Ch'Ivi faremli i meritati onori;
Ed ivi ordinerem la nostra andata
Con diligenza e con prestezza immensa.
Così diss’ egli , e subito partissi ,
E rimcnò tutta la gente in Roma,
Da quella in fuor di’ ivi lasdò con Ciro.
Ma Òro che rimase entro a la rocca,
Fece cavar di sotto a quelle pietre
Il morto Corsamonte e poi lavarlo ,
E rinvestirlo de le lucid’ arme ,
Per farlo indi portar da i suoi soldati
A seppellir ne la città di Roma :
Ma l’ onorata Elpidia eh' era chiusa
Ne l’ alta rocca , udendo il gran romorc ,
Che si facca la notte in su la piazza,
Avca dentro al suo petto aspro cordoglio ;
Poi dicca nel suo cuor : Di che pavento ,
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48 POEMI
Meschina me? Meschina, ch’io mi trovo
Nel peggior stato clic mai fosse al mondo
Nè cosa aver poss’io che non sia meglio.
Se Corsamonte fosse in queste parti ,
Arei giusta cagion d’aver timore
De la sua vita, a me più di me cara;
Or ei , si come credo , si ritrova
In luogo assai lontan da questa rocca ,
Tal che non può sapere I miei tormenti ,
Chè sarebbe venuto a darmi aiuto ;
Ma pur mi trema il cuor, nè so la causa.
Cosi fra sè dicca la bella donna ;
Ma come poi col di s’ aperse l’uscio
De la gran torre per le man di Ciro ,
Ch’ e’ *' entrò dentro c disse este parole :
Illustre principessa di Tarento,
Uscite ornai de la prigione amara ;
Venite meco a la cittì di Doma ;
Chè Corsamente mio Tralci cugino
V'ha posto in libertà con la sua morte.
Cosi le disse Ciro, ed ella tosto.
Udendo quella asperrima novella,
Come una insplritata corse fuori
Di quella prigionia col cuor trafitto,
Per veder s' era ver che fosse estinto
11 suo diletto ed onorato duca ;
Ma come ti de Corsamonte morto
Nel cataletto in mezzo a suoi soldati ,
Cadde a rinverso tramortita in terra j
E le donzelle sue che gli eran dietro ,
La raccolsero in braccio c tutte intorno
Stavano a tei con lagrimosa fronte ;
Ed ella poi clic ritornolli il spirto,
Dimandò a Ciro , come era venuto
Il duca in quel castello e chi 1’ uccise ;
E Ciro le narrò tuttala cosa;
Onde l' afflitta c sconsolata donna
Con le man bianche si percosse il petto ,
E i capei d'oro si traca di testa,
E poi piangendo e sospirando disse : [sorte
Qual donna al mondo ha piò contraria
Di me , che solamente al mondo nacqui
Per segno ovver bersaglio a la fortuna?
Il padre mio fu da Tebaldo ucciso
A tradimento con orribil modo;
E la mia madre poi vedendo il teschio
Di suo marito cadde in terra morta :
Ond’io dolente ed orfana ritnasa
Nel mezzo de le forze de i nimici ,
Venni a Brandizio a Belisario il grande,
Per dimandarli in questi alTanni aiuto ,
Ed e' mi diè per moglie a Corsamonte ,
Duca di Scizia , uotn di valore immenso ,
EROICI.
Ch’ avea Tebaldo di sua mano ucciso ,
E fatta la vendetta di mio padre ;
Ond' io sperava che costui dovesse
Esser la mia difesa e’I mio contento :
Poi mentre eh’ io venia per far le nozze
A Roma presa fui da Turrismondo,
E posta in questa asperrima prigione ;
Clic Dio volesse allor eh' io fosse estinta;
Poscia il gran duca per cavarmi quindi,
È stato ucciso aneti' ei da gli emp] Goti ,
Per l’ empio tradimento di Burgenzo;
Ed io pur vivo e fra miserie tante ,
Ancora ardisco di guardare il sole.
0 come è ver che non è mal si grave ,
Che noi sopporti la natura umana ;
Ma se la sorte mia non vorrà trarmi
Di vita, spero di trovare un modo,
Da non veder mai più luce del sole.
Cosi dicca quella dolente donna.
Con si gravi sospiri e tai lamenti ,
Ch’ arian mosso a pietà le piante e 1 marmi ;
Dappoi salita sopra un palafreno,
Che fece darli l' onorato Ciro,
Con le donzelle sue colme di pianto ,
Accompagnare il corpo entro a la terra.
E Ciro ancor con l'altra gente d’arme
GII andavan dietro e con sospiri amari
Fondean da gli occhi lor lacrime calde ;
Ma quando furo a la Flamini porta ,
Trovaron tutti I chierici di Roma,
Clic sfavali quivi con doppieri accesi
Ad aspettarlo, e poi gli andare avanti ,
Cantando salmi in lamentevo) note;
E dopo questi andare a cinque a cinque ;
Tutta la legion eh’ avea in governo,
Con le bandiere lor tratte per terra ;
Ediclro a quei stendardi andava un paggio
Il qual menava il suo cavallo ircano
Poco avanti al feretro tanto mesto ,
Clic parca lagrlmare il suo signore :
E ’l vice inipcrador dietro al feretro,
Con tutti gli altri principi romani.
Vestiti a bruno e lagrimosi e mesti
Accompagnare quel baron defunto
Al loco eletto per lo suo sepolcro.
Poi non fu alcun del gran popol di Roma
Nè giovane, nè femmina, nè vecchio.
Clic non si ritrovasse ad onorarlo,
E non piangesse la sua dura morte.
Cosi con quel bell’ ordine n’ andare
Fino a la chiesa u’ fu deposto il corpo ,
Con tanti torchi c luminari intorno.
Che parca tutta quanta arder di fiamme.
ITALIA LIBERATA.
Quivi U bella Elpidia c le sue donne ,
Tagliar, piangendo , le lor chiome blonde,
E le gettar sopra il barone estinto ;
Ma prima Elpidia disse oste parole :
Signor, pigliate le infelici chiome
Di quella che doveva esserv i sposa ,
Se ben unqua da voi non fu veduta ,
Se non presso a Brandizio una sol volta ,
La cui vista crudel v’ ha date molte
Fatiche, e ne la fln mandovvi a morte,
Senza sua colpa; ond'elia per dolore
Non vuol mai più veder luce del sole.
Cosi dicendo e lacrimando insieme.
Pose le chiome d' or dentro a le mani
Soluto, e molli de l’ estinto duca ,
Che mosse in quei baron dirotto pianto ;
40
Ma più d’ogni altro l'onorato Achille,
Piangea con voci dolorose ed alte.
Che facea lacrimar tutta la gente.
Poi ne la piazza eh’ t ’nanzi a la chiesa ,
S'apparecchiava una superba tomba
Di finissimi marmi , e dentro a quella,
Dopo la mesta orazlon funebre
Ne la qual dottamente 11 buon Terpandro
Narrò tutte le laudi del defunto ,
E dietro al canto de i devoti preti ,
Vi fu rinchiuso l'onorato corpo,
Con molte spoglie gloriose Intorno ,
Che acquistò già ne le battaglie orrende.
Poi tutti I gesti suoi furon descritti
Entro a quei bianchi e ben politi marmi
Con lettre d’ oro e con parole elette.
MARINO.
ADONE.
CANTO DI FAUNI.
Quanti favoleggiò numi profani
L'etade antica, han quivi I lor soggiorni.
Lari , sileni , semicapri , e pani ,
La man dì tirso, Il crin di vite adorni ,
Geni salaci , c rustici silvani ,
Fauni saltanti , e satiri bicorni ,
E di ferule verdi ombrosi i capi
Senza fren, senza vel bacchi, e prìapi.
E menadi , e bassaridi vi scemi [ce,
Ebbre pur sempre, c sempre a bere accon-
Cbc intente or di latini , or di falerni
A votar tazze, ed asciugar bigonce.
Ed agitate dai furori interni
Rotando i membri in sozze guise e sconce
Celebran l' orgie lor con queste o tali
Fcsccnninc canzoni , c baccanali.
Or d'ellera si adornino, c di pampino
1 giovani , c le vergini piu tenere ,
E gemina nell’ anima si stampino
L’ immagine di Libero, e di Venere.
Tutti ardano, si accendano, ed avvampino
Qual Semole , che al folgore fu cenere ;
E cantino a Cupidìnc , ed a Bromio
Con numeri poetici un encomio.
La cctcra col crotalo , e con l' organo
Sui margini del pascolo odorifero ,
li cembalo, e la fistula si scorgano
Col zufolo, col timpano, e col piffero;
E giubbilo festevole a lei porgano ,
Che or espero si nomina, or lucifero;
Ed empiano con musica, che crepiti,
Quest'isola di fremiti, e di strepili.
I satiri con cantici , e con frottole
Tracannino di nettare un diluvio.
Trabocchino di lagrima le ciotole,
Che stillano Pusllipo, e Vesuvio.
Sien cariche di fcscine le groltolc ,
E versino dolcissimo profluvio.
Tra frassini , tra platani , c tra salici
Esprimansi dei grapDOll nei calici.
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50 POEMI
Chi cupido è di suggcre l'amabile
Del balsamo aromatico , e del pevere ,
Non mescoli il carbuncolo potabile
Col Rodano, con l’ Adice, o col Tevere;
Che fc perfido, sacrilego, e dannabile,
E gocciola non merita di bovcre
Chi tempera , chi intorbida , chi incorpora
Coi rivoli il crisolito , e la porpora.
Ma guardimi gli spiriti die fumano.
Non facciano del cantaro alcun strazio,
E l’ anfore non rompano, che spumano ,
Già gravide di liquido topazio ,
EROICI.
Citò gli uomini Ire in estasi costumano,
E si altera ogni stomaco che è sazio;
E il cerebro che fervido lussuria.
Più d’Èrcole con impeto si infuria.
Mentr’elle ivan cosi con canti e balli
Alternando evoè giollvo e liete.
Intente tuttavia negl’ intervalli
Sgonfiando gii otri, ad inaffiar la sete;
Passando Adon di quelle amene valli
Nelle più chiuse viscere segrete ,
Trovò morbida mensa , ed apprestati
Erano intorno al desco i seggi aurati.
(Canto settimo, intitolato Le Dtliae.)
LE MARAVIGLIE.
ARGOMENTO. •
Di sfera in sfera colassi salita
Venere con Adone in cict scn viene
A cui Mercurio poi quanto contiene
li maggior mondo in piccol mondo addita.
CANTO
Musa, tu che del elei per torti calli
Infaticabilmente II corso roti ,
E mentre de’ volubili cristalli
Qual veloce , c qual pigro accordi i moli ,
Con armonico piede in lieti balli
Dell’ Olimpo stellante il suol percoli.
Onde di quel concento il suon si forma ,
Che è del nostro cantar misura e norma;
Tu, divina virtù, mente immortale,
Scorgi l’audace ingegno, Urania saggia,
Cile oltre I propri confin si leva c sale
A spaziar per la celeste piaggia.
Aura di tuo favor mi regga l’ale
Per si alto scntier siedi’ io non caggia.
Movi la penna mia, tu clic il del movi,
E detta a uovo stil concetti novi.
Tifiprimicr per l’ acque alzò l’ antenne,
Con la cetra sotterra Orfeo discese.
Spiegò per l’ aure Dedalo le penne ,
Prometeo al cerchio ardente il volo stese.
Ben conforme all’ ardir la pena venne
Per cosi stolte e temerarie imprese;
DECIMO.
Ma più troppo badi rischio, e di spavento
La strada inaccessibile ch’io tento.
Tento insolite vie, dal nostro senso,
E dal nostro intelletto assai lontane.
Onde qualor di sollevarvi io penso
0 di questo , o di quel le voglie insane ,
Quasi debil potenza a lume immenso ,
Che abbacinala in cecità rimane, [po
L’ uno abbagliato , c l’ altro infermo ezop-
Si stanca al sommo, csi confonde al troppo.
E se pur, che noi vinca , c noi soverchi
L’infinito splendor, talvolta avviene,
E che il pcnsicr vi poggi , c che ricerchi
Del non trito cammin le vie serene.
Immaginando quei superni cerchi.
Non sa, se non trovar forme terrene.
So ben , che senza te toccar si vieta
A si tardo cursor si eccelsa meta.
Tu, che di Beatrice il dotto amante
Gii rapisti lassù di scanno in scanno,
E il felice scrittor, che d’Agramante
Immortalò l’alta mina, e il danno,
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ADONE. Si
Guidasti si, cbc sul destrlcr volante
Seppe condurvi il paladin britanno,
Passar per grazia , or' anco a me concedi
Dei tuo gran tempio alle sccrcte sedi.
Gii per gli ampj del ciel spazj sereni
Dinanzi al Sol Lucifero fuggiva,
E quei scolendo i suoi gemmati freni
L’ uscio purpureo al novo giorno apriva.
Fendean le nebbie a guisa di baleni
Anelando 1 destrier di fiamma viva,
E vedeansi pian pian nel venir loro
Ceder l’ ombre notturne ai fiati d’oro.
Dalle stalle di Cipro, ove si pasce
Gran famiglia d'augei semplici , e molli.
Sei nescelse in tre coppie, c in auree fasce
Al timon del bel carro Amor iegolli.
Torcer lorvedi incontr’al di, che nasce.
Le vezzose cervici, e i vaghi colli,
E le smaltate, e colorite gole
Tutte abbellirsi , e variarsi ai Sole.
Vengon gemendo, e con giocondi passi
Movon citati al bel viaggio il piede,
Al bel viaggio , ove apprestando vassi
Venere con colui , che il cor le diede.
Al governo del fren Mercurio stassi ,
E del corso sublime arbitro siede ,
Sovra la principal poppa lunata
Posa la bella coppia innamorata.
Sciolser d’ un lancio le colombe a volo
Legate al giogo d’or, l' ali d’ argento.
Si aprirò 1 cieli , e serenossi II polo,
Sparver le nubi , ed acquetossi il vento.
Di canori augellctti un lungo stuolo
Le secondò con musico concento,
E sparser mille passere lascive
DI garriti d’amor voci festive.
Quelle innocenti , e candide augelettc,
Da' cui rostri si apprende amore , e pace,
Non temon già, d'amor ministre elette,
Lo5mcrlo ingordo , o il peregrin rapace.
Con lor l'aquila scherza: altre saette
Nel cor, che nell'artiglio aver le piace.
1 più fieri dintorno augei grifagni
Son di nemici lor fatti compagni.
Precorre, c segueilcarroampia falange
(Parte il circonda) dì valletti arcieri,
Ed altri a consolar l’ Alba che piange ,
Col venir della Dea volan leggieri.
Altri al Sol, che rotando esce di Gange,
Perchè sgombri la via, van messaggieri.
Ciascuno il primo alle fugaci stelle
Procura dì annunziar l’ alte novelle.
0 tu , che in novo , e disusato modo
Saggia scorta mi guidi a quel gran regno
( Disse a Mercurio Adone), ove non odo.
Che altri di pervenir fusse mai degno.
Pria eh' in giunga lassù , solv imi un nodo.
Che forte implica il mio dubbioso ingegno.
E fors’ egli corporeo ancora il cielo ,
Poiché può ricettar corporeo velo ? [ tiene.
Se corpo ha il ciel, dunque materia
Se egli è material , dunque è composto ;
Se composto mel dai , ne segue bene
Che è dei contrari alle discordie esposto ;
Se soggiace ai contrari , ancor conviene.
Che alla corruzton sia sottoposto.
Eppur del ciel parlando, udito ho sempre,
Ch' egli abbia incorrodibili le tempre.
Tace , e in tal suono ai detti apre la via
Il dotto timonier del carro aurato :
Negar non vo’, che corpo il ciel non sia
Dì palpabll materia edificato,
Chè far col moto suo quell'armonia
Non potrebbe , eh’ ei fa , mentre è girato.
È tutto corporal ciò che si move ,
Eciòcheha, Il qual, e il quanto , il donde,
e il dove.
Ma sappi , che non sempre è da Natura
La materia a tal fin temprata e mista.
Perchè abbia a generar colai mistura ,
Quel che perde mutando in quel che ac-
quista ;
Ma perchè quantità prenda, e figura,
E del corpo alla forma ella sussista;
Nè di material quanto è prodotto
Dee necessariamente esser corrotto.
Materia dar questa materia suole
Al discorso mortai, che sovente erra.
Chi fabbricata la celeste mole
Di foco e fumo ticn , chi d' acqua e terra.
Se arrivassero al ver sì fatte fole,
Sarebbe quivi una perpetua guerra.
Cosi di quel che l’uom non sa vedere.
Favoleggiando va mille chimere.
La materia del ciel , sebben sublima
Sovra r altre il suo grado in eminenza,
Non però dalla vostra altra si stima ,
Nulla tra gl’individui ha differenza.
Ogni materia parte è della prima,
Sol la forma si varia, e non l’essenza.
Varietà tra le sue parti appare ,
Secondo che elle son più dense , o rare.
Bastili di saper, che peregrina
Impressione in sè mal non riceve
La perfetta natura adamantina
Di quel corpo lassù lubrico e lieve.
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POEMI EROICI.
Paragonarsi (ancorché pura e lina)
Qualità d'elemento a lei non deve.
Un fiore scelto, una sostanza quinta.
Da cui di pregio ogni materia è vinta.
La sua figura è circolare c tonda ,
Periferia continua , c senza punto.
Tcraiin non ha, ma spazio egual circonda ;
Il principio col fin sempre ha congiunto.
Linea, che appien d' ogni eccellenza ab-
Alla divinili simile appunto, [fionda,
E la divina Eternitadc imita,
Perpetua, indissolubile, infinita.
Or a questa del del materia eterna
L’anima, che l’ informa, è sempre unita.
Questa è quella virtù santa e superna,
Spirto, che le di molo , c le di vita.
Senza lei , che la volge, c la governa ,
Fora sua nobilti troppo av vilita.
Miglior foran del elei le pietre istessc.
Se la fonila motrice ei non avesse.
Qursta con lena ognor possente e franca
Della macchina sua reggendo il pondo,
Le rote mai di moderar non manca
Di quel grand' oriuol , che gira a tondo.
Per questa in guisa tal , che non si stanca,
L' organo immenso , onde ha misura il
Con sonora vertigine si volvc [mondo,
Ni si discorda mai , nè si dissolve.
Cosi dicea di Giove il mcssaggicro ,
Nè lasciava d’ andar , pereti' ci parlasse.
De' campi intanto, ov' ha Giunone impero,
Lasciate area le reglon più basse ,
E giù verso il più attivo, e più leggiero
Elemento drizzava il lucid' asse.
La cui sfera immortai mai sempre accesa
Passò senza periglio , e senza offesa.
Varcalo II puro, ed innocente foco,
Che alla gelida Dea la faccia asciuga.
L'etra sormonta, ed a più nobil loco
Giù presso al primo del prende la fuga,
E il suo corpo incontrando a poco a poco,
Clic par specchio ben terso, e senza ruga.
In queste note il favellar distingue
Il maestro dell' arti , e delle lingue :
Adon , so che saper di questo giro
Brami I secreti , ove siam quasi ascesi ,
Con tanta attenzlon mirar ti miro
Nel volto della Dea, madre dei mesi;
Chè sebben tu mi taci il tuo destro ,
E la dimanda tua non mi palesi ,
Ti veggio In fronte ogni pcnsicr dipinto,
Più che se per parlar fusse distinto.
Questo , a cui siam vicini , è della Luua
L’ orlve, che imbianca il ciel con suoi splen-
Candlda guida della Notte bruna , [dori ,
Occhio de' ciechi , e tenebrosi orrori.
Genera le rugiade , i nembi aduna ,
Ed è ministra de' fecondi umori.
Dagli altrui raggi illuminata splende.
Dal Sol toglie la luce , al Sol la rende.
Di questo corpo la grandezza vera
Minor sempre è del Sol, nè mai l' adombra,
Chè della terra a misurarla Intera
La trentesima parte appena ingombra.
Ma se s'accosta alla terrena sfera,
Egual gli sembra, egli può farqualch’om-
Sol per un sol momento allor si vede [bra.
Vincer li Sol, d'ogni altro tempo cede.
Ila varie forme , e molti aspetti c molli ;
Or è tonda, or bicorne, or piena, or scema.
E sempre tien nel Sol gli occhi rivolti ,
Clic la percolo dalla parte estrema
Onde sempre almen può l’ un de' due volli
Partecipar di sua beltà suprema.
Fa ciascun mese il suo periodo intero,
E circondando il ciel , cangia emispero.
Perchè s'appressa a voiplùche gli altri
orbi,
Suol sopra i vostri corpi aver gran forza.
Donna è de’ sensi , e Dea di mali c morbi ;
Ella sol gli produce , ella gli ammorza.
Quanto, o padre Ocean nel grembo as-
sorbì ,
Quanto In te vive sotto dura scorza,
E il moto istesso tuo cangiando usanza
Altera al moto tuo stato, c sembianza.
Il frutto, e II fior, la pianta, e la radice ,
Il mare, il fonte, il fiume, e l'onda, eilpe-
Prendon daquestaogni virtù motrice, [sce,
E il moto ancor, quanti’ ella manca o cre-
Del ccrebro ella è sol govcrnalrice ; [sce.
Di quanto II ventre chiude, c quanto
E tutto ciò, che In sè parte ritiene [n’esce.
D'umida qualità, con lei conviene.
Cosa , non dico sol Saturno, o Giove
Nel mondo infcrlor propizia, o fella.
Ma qual altra o che posa , o clic si move,
Stabil non versa, o vagabonda stella ,
Clic non passi perle! ; quante il ciel piove
Influenze laggiù, sccndon per quella.
Per quella chiara lampada d’ argento, [to.
Cheèdcir ombre notturne alto ornamen-
Ondese avvien, che giri il bel sembiante
Collocato c disposto in buon aspetto.
Ancorché variabile e vagante,
Partorisce talor felice effetto.
ADONE. SS
Ma Fortuna non mai, fuor clic incostante,
Speri chiunque a lei nasce soggetto,
Qie con perpetuo error fia clic lo spinga
Fuor di patria a menar vita raminga.
• Con più diffuso ancor lungo sermone
11 fisico divin volea seguire ,
Quando a mezzo il discorso il bel garzone
La favella gli tronca , e prende a dire :
D ima cosa a spiar l’alta cagione
Caldo mi move c fervido desire,
Cosa , che da che pria l' occhio la scorse ,
Sempre Ita la niente mia tenuta in forse.
D’alcune ombrose macchie impressa lo
veggio
Della triforme Dea la guancia pura.
Dimmi il pcrclu'; tra millcdublijondegglo,
Nè so trovarne opinion secura.
Qual Immondo contagio (ioti ricliieggio)
Di brulle stampe il vago volto oscura?
Cosi ragiona, d’altro un’altra volta
La parola ripiglia , c dice : Ascolta.
Poiché cotanto addentro intender vuoi,
Al bel quesito soddisfar prometto.
Ma di ciò la ragion ti dirà poi
L’ occhio vie meglio assai , clic l’ intelletto.
Non mancali già filosofi tra voi.
Che notato hanno in lei questo difetto.
Studia ciascun d’ investigarlo a prova,
Ma chi si apponga ai ver raro si trov a.
Afferma alcun, clic d’altra cosa densa
Sia tra Febo, c Felica corpo framesso,
La qual dello splendor, di’ ci le dispensa.
In parte ad occupar venga il refiesso.
Il che se fosse pur, come altri pensa,
Non sempre il volto suo fora l’ìstcsso.
Nè sempre la vedria chi in lei si affisa
In un loco macchiata, e d una guisa.
llavvl chi crede, die per esser tanto
Cintia vicina agli elementi vostri.
Della natura elementare alquanto
Cornici! purché paricela si mostri.
Cosi la gloria immacolata , c il vanto,
Cerca contaminar de’ regni nostri ,
Come cosa del del sincera c schietta
Possa di vii mistura essere infetta.
Altri vi fu , che esser quel globo disse
Quasi opaco cristal , che il piombo ha dic-
E clic col suo reverbero venisse [tro,
L’ombra delle montagne a farlo tetro.
Ma qual si terso mai fu, che ferisse
Per cotanta distanza, acciaio, o vetro?
E qual vasta cerviera in specchio giunge
L’imagine a mirar cosi da lunge?
Egli è dunque da dir, che piò secreta
Colà s'asconda, ed esplorata Invano
Altra ragion , che penetrar si vieta
All’ ardimento dell' ingegno umano.
Or io li fo saper, che quel pianeta
Non è (coni' altri vuol] polito c piano.
Ma ne’ recessi suol profondi e cupi
Ha non men che la terra, e valli, c rupi.
I.a superficie sua mal conosciuta
Dico, clic è pur come la terra istcssa.
Aspra, ineguale, c tumida, c scrlgnuta,
Concava in parte, in parte ancor convessa.
Quivi veder potrai (ma la veduta
Noi pud raffigurar, se non s'appressa)
Altri mari, altri fiumi, ed altri fonti,
Città, regni , provincie, c piani , c monti.
E questo è quel , che fa laggiù parere
Nel bel viso di Trivia i segni foschi.
Benché altre macchie, clic ornon puoi ve-
dere [noschl,
Vo’clic entro ancor vi scorga, e vi co-
Clic son più spesse , e più minute, c nere,
E son pur scogli, ccolii, crampi, e boschi.
Son nel più puro delle bianche gole.
Ma da terra affissarle occhio non potè.
Tempo verrà, che senza impedimento
Queste sue note ancor fico note e ciliare.
Mercè di un ammirabile slroincnto.
Per cui ciò che è lonlan , vicino appare ;
Kcon un occhio chiuso , c l’altro intento
Speculando ciascun l’orbe lunare,
Scorciar potrà lunghissimi intervalli
Per un picciol cannone, c due cristalli.
Del telescopio a questa date ignoto
Perle fia, Galileo, l’ opra composta, (lo.
L’opra, clic al scuso altrui, benché remo-
Fatto molto maggior l' oggetto accosta.
Tu sol osservator il' ogni suo moto,
E di qualunque ha in lei parte nascosta ,
Potrai , senza che ve! nulla le chiuda.
Novello Endimion , mirarla ignuda.
E col medesmo occhiai non solo In ld
Vedrai dappresso ogni atomo distinto,
Ma Giove ancor sotto gli auspicj mici
Scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
Onde lassù dell' Arno i semidei
Il nome lasccrà sculto, e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allor fia giusto,
E dal Medici tuo sia vinto Augusto.
Aprendo il sor dcll'Occan profondo.
Ma non senza periglio, e senza guerra,
Il ligure Argonauta ai basso mondo
Scoprirà novo cielo , e nova terra.
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54 POEMI EROICI.
Tu del ciel, non del mar Tifi secondo, Lucida ampolla, onde traspar di fora
Quanto gira spiando, e quanto serra Sempre agitata, e prigioniera arena ,
Senza alcun rìschio, ad ogni genteascose Nunzia verace delle rapid'ore.
Scoprirai nove luci, c nove cose. A filo a filo per angusta vena
Ben dei tu molto al ciel, clic ti discopra Trapassa, e riedc al suo coniinuo errore,
L’ imenzlon dell’ organo celeste , E mentre ognor si volge, e sorge, e cade ,
Ma vieppiù il ciclo alla tua inibii opra. Segna gli spazi dell’umana etade.
Che le bellezze sue fa manifeste. Di servi, eserve, ad ubbidirgli avvezza
Degna è l'imagin tua, che sia là sopra Moltitudine intorno ha reverente,
Tra i lumi accolta, ondosi fregia c veste, Di quella maestà, die il tutto sprezza ,
E delle tue lunette 11 vetro frale Prov ida esecutrice e diligente.
Tra gli eterni zaflìr resti immortale. Mostrava Adon desio d'aver contezza
Non prima no , che delle stelle istesse Qual si fusse quel loco , c quella gente ;
Estingua II ciclo 1 luminosi rai , Onde cosi di quel secreti immensi
Esser dee lo splendor, che al crin ti tesse 11 suo conducitor gli aperse i sensi:
Onorata corona, estinto mai. Sacra a colei, che gli ordini fatali
Chiara la gloria tua vivrà con esse. Ministra al mondo, è questa grotta annosa.
E tu per fama in lor chiaro vivrai, Non solo impenetrabile al mortali,
E con lingue di luce ardenti e bello Agli occhi umani, ed alle menti ascosa,
Favelleran di te sempre le stelle. Sicché alzarvi giammai la vista, o l’ali
Non avea ben quel ragionar fornito Intelletto non può, sguardo non osa.
Il secretarlo de’ celesti Numi, Ma gl’interni recessi anco di lei
Quando il carro immortai vide salito Quasi appena spiar sanno gli Dei.
Sovra il lume minor de’ due gran lumi , Natura universal madre feconda
Trovossi Adone , in altro mondo uscito , È la donna , che assisa ivi si mostra.
In altri prati , in altri boschi , e fiumi. In quella cava ha sua maglon profonda,
Quindi arrivò per non segnato calle Occulto albergo, c solitaria chiostra.
Presso un speco riposto in chiusa valle. Giusto è, che ognun di voi le corrisponda.
Circonda la spelonca erma e remota Vuoisi onorar qual genitrice vostra;
Verdeggiante le squame, angue custode, E ben le devi tu, come creato [lo.
Angue , che attorce in flessuosa rota Più bel d’ ogni altro, Adone, esser più gra-
Sue parti estreme , e sé modesmo rode. Quell’ uomo antico che alle spalle ha 1
Donna canuta 11 crin, crespa la gota, vanni
Del cui sembiante il ciel s' allegra e gode , É quei, clic ogni mortai cosa consuma ,
Dell'antro venerabile e divino Domator di monarchi, e di tiranni,
Siede sul limitare adamantino, [quelle Con cui non è chi contrastar presuma.
Pendonle ognor da queste membra e Parlo del Tempo dispensier degli anni.
Mille pargoleggiando alme volanti, Che scorre 11 del con si spedita piuma,
E tutta piena intorno è di mammelle, E si presto sen fugge, e si leggiero,
Onde allattando va turba d' infanti. Che é tardo a seguitarlo anco il pensiero.
Misurator de' cieli , e delle stelle , Con l'ali , che si grandi ha sulle terga,
E caneellier de’ suol decreti santi. Vola tanto clic il Sol l’adegua appena.
Le leggi , al cui sol cenno II lutto vive. Sola però l'Eternità, che alberga
Ne’ gran fasti del fato un veglio scrive. Sovra le stelle, Il giunge, e l'incatena.
Calvo è il veglio , e rugoso, e spande al La penna ancor, che dotte carte verga ,
Delia barila prolissa il biancopelo. [petto Passa 11 suo volo , e il suo furore afirena.
Severo in vista , e di robusto aspetto , Così (chi il crederebbe ?) un fragil foglio „
E grande si , che quasi adombra II cielo. Può di chi tutto può vincer l’orgoglio. I
£ tutto ignudo, e senza vesta, eccetto DI duro acciaio ha temperati i denti,
Quanto II ricopre un variabll velo. Infrangibili , eterni , adamantini.
Agii sembra nel corso, ha i piò calzati, Delle torri superbe, ed eminenti
Ed a guisa di augel , gli omeri alati. Rode e rompe con questi 1 sassi alpini ;
Ticndivisainduc vetri in sulla schiena Dei gran teatri i porfidi lucenti.
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ADONE. 55
Degli eccelsi colossi i marini lini.
Divorator del tulio , al fin risolve
Le più salde materie in trita polve.
Di sua forma non so se t’ accorgesti ,
Che non è mai ristessa alla veduta.
Faccia , ed età di tre maniere ha questi ,
L'acerba, la virile, e la canuta.
Tu vedi ben, come sembiante, e gesti
Varia sovente, c d'or’ in or si muta.
L'effigie, che pur or n* offerse innanzi.
Altra ne sembra , e non è più qual dianzi.
Vedigli assiso ai piedi un potentato ,
Da cui tutte le cose han vita c morte,
Con un gran libro, le cui carte è dato
Volger (com'ella vuol) solo alla Sorte.
A questo Nume, che si appella Fato,
Detta quant* ci determina in sua corte.
Quegli lo scrive, ed ordina al governo.
Primavera, ed Autunno, Estate, e Inver-
no.
Comandati questi al secolo , c palese
Gli fan ciò che far dee di punto in punto.
Il secol poi che ha le sue voglie intese ,
Al lustro impon che l'eseguisca appunto.
Il lustro all* anno, e l'anno al mese, il mese
AI giorno, il giorno all’ ora, el’oraalpun-
Cosl dispon gli affari, c con tal legge [to.
Signoreggia i mortali , c il mondo regge.
Vedi que’ duo, 1* un giovinetto adorno ,
Candido, e biondo , e con serene ciglia ;
L'altra femmina, e bruna, c vanno intor-
E si tengono in mezzo una lor figlia, [no,
Son color (se noi sai) la Notte, e il Giorno,
E l’Aurora è tra lor bianca c vermiglia.
Or mira quelle tre, che tutto han pieno
Di gomitoli d’ accia il lembo , e il seno.
Quelle le Parche son , per cui laggiuso
É filata la vita a tutti voi.
Nel suo volto guardar sempre han per uso ,
Tutte dipendon sol dai cenni suoi.
Quella tienla conocchia, e questa il fuso,
L'altra torce lo stame , e il tronca poi.
Veti! la Verità figlia del vecchio , [chio.
Che innanzi agli occhi gli soslien lospcc-
Quanto in terra si fa, là dentro ei mira,
E dell* altrui follie nota gli esempi.
Vede l’ umana anibizlon che aspira
In mille modi a fargli oltraggi c scempi.
Crede fiaccargli alcun la forza , c 1* ira
Ergendo statue , e fabbricando tempj.
Altri contro gli drizza archi , e trofei ,
Piramidi, obelischi, e mausolei.
Ride egli allora, e sì sci prende a gioco ,
Scorgendo quanto 1' uom s’inganna, cd
erra;
E poiché in piedi ha pur tenute un poco
Quelle macchine altere, alfiu le atterra.
Dalle in preda dell'acqua, ov ver del foco.
Or le dona alla peste , ora alla guerra.
Le sparge in fumo in quella guisa o in
questa
Sicché vestigio alcun non ve nc resta.
E di ciò la ministra é sol quell’ una ,
Che è cieca, c d' un dclfin sul dorso siede,
Calva da tergo, e il crine in fronte aduna,
Alata, c tlen sovra una palla 11 piede.
Guarda se la conosci , è la Fortuna ,
Che al paterno terrei! passar li diede.
Mira quanti lesor dissipa al vento,
Mitre , scettri, corone, oro, ed argento.
Quattro donne reali a piè le miri,
E son le monarchie dell’ universo.
D’ or coronata è quella degli Assiri ,
D’ argento 1* altra , che ha 1* impero perso,
La Grecia appresso con mcn ricchi giri
Porta cerchialo il crin di rame terso.
L’ ultima , che di ferro orna la chioma
E la guerriera e bellicosa Roma.
Ma ciò die vai , se il tutto è un sogno
Stolto colui , che in vanità si fida, [breve ?
Dritto è ben, che d’ un ben che perir deve,
L’ un filosofo pianga , e 1* altro rida.
Sola Virtù del Tempo avaro, c lieve
Può l'ingorda sprezzar rabbia omicida.
Tutto il resto il crudel , mentre che fugge,
E rapace, c vorace, Invola, e strugge.
Guarda sull’ uscio pur della caverna ,
E vedrai due gran donne assise quivi ,
E quinci c quindi dalla foce interna
Di qualità contraria uscir duo rivi.
Siede 1’ una da destra , e luce eterna
Le fregia 11 volto di bei raggi vivi.
Ridente in vista , e di un aspetto santo,
I n man lo scettro, ed ha stellato il manto.
È la Felicità, de’ cui vestigi
Cerca ciascun, nè sa trovar la traccia.
Ma da larve deluso, e da prestigi
Di quella in vece, la Miseria abbraccia.
Stanno molte donzelle a’ suoi servigi
D' occhio giocondo , e di piacevo! faccia ,
Vita , abbondanza , e ben contente c liete
Festa , gioia , allegria , pace e quiete.
Lungo il suo piè con limpld’ onda e viva
Mormorando sen va soavemente
II destro fiumlccl, da cui deriva ,
Di letizia immortai vena corrente.
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56 POEMI
Ella un lambicco in man sovra la riva
Colmo dell’ acqua licn di quel torrente,
E (come vedi ben) fuor della boccia
In terra le distilla a goccia a goccia.
A poco a poco ingiù versa il diletto,
Perchè altri non può farne intero acquisto.
Scarso è 1* uman conforto , ed imperfetto,
E qualche parte in sè sempre ha di tristo.
Quel ben, che qui nel ciclo è puro e sellici-
Piove laggiù contaminato e misto, [lo ,
Perocché pria clic raggia , ci si confonde
Con quell’ altro rusccl, che amare ha
P onde.
L’altro rusccl , clic mcn purgato e chia-
Passa da manca , è tutto di veleno , [ro
Vieppiù clic fiel, vieppiù che assenzio
amaro ,
E sol pianti , e sciagure accoglie in seno.
Vedi colei , che il vaso, onde volaro
Le compagne d’Aslrea, tutto n’ha pieno,
E con prodiga man sovra i mortali
Sparge quanti mai fur malori e mali.
Pandora è quella ; il bossolo di Giove
Folle audacia ad aprir le persuase.
Fuggì lo sluol delle Virtudi altrove ,
Le Disgrazie restaro in fondo al vase.
Sol la Speranza in cima all' orlo , dove
Sempre accompagna i miseri , rimase;
Ed è quella colà vestita a verde, [de.
Che in ciel non entra , e nell’ entrarsi per-
Or vedi come fuor dell’ ampia bocca
Dell* urna rea, che ogni difetto asconde,
In larga vena scaturisce e fiocca
Il sozzo umor di quelle pcrfld' onde.
Dell’ altro fiume , onde piacer trabocca ,
Questo in copia maggior Tacque diffonde.
Perchè in quel nido di tormenti e guai
Sempre V amaro è più che il dolce assai.
Vedi Morie, Penuria, e Guerra, e Peste,
Vecchiezza, e Povertà con bassa fronte,
Pena, Angoscia, Fatica adii Ite e meste
Figlie appo lei d’ A verno , e d’ Acheronte.
Ve’ T empia Ingratitudine tra queste ,
Prima d’ ogni altro mal radice e fonte.
E tutte uscite son del vaso immondo
Per infestar, per infettare il mondo.
Non ti maravigliar , che affanni e doglie
In questo primo elei faccian dimora,
Perchè la Diva , onde il suo moto ei toglie ,
E di ogni morbo, e di ogni mal signora.
In lei dominio, e potestà s’accoglie
E sovra 1 corpi , e sovra T alme ancora.
Ma se di ogni bruttura iniqua e fella
EROICI.
Vuoi la schiuma veder, volgiti a quella.
Sì disse, e gli mostrò mostro difforme
Con orecchie di Mida , e inan di Cacco.
Ai duol volti parca Giano biforme.
Alla cresta Priapo , al ventre Bacco.
La gola al lupo avea forma conforme ,
Artigli avea d’arpia, zanne di ciacco,
Era iena alla voce , e volpe ai tratti ,
Scorpione alla coda , e simia agli atti.
Chiese alla guida Adon , di che natura
Fusse bestia sì strana , e di che sorte;
Ed inle.se da lui , che era figura
Vera , ed Idea della moderna Corte.
Portento orrendo dell’ età futura,
Flagri del mondo, assai peggior che morte,
Dell’ Erinni infernali aborto espresso ,
Vomito dell’ inferno , inferno islesso.
Ma di questa (dicea) meglio è tacerne,
Poiché ogni pronto sili vi fora zoppo.
Ben mille lingue, e mille penne eterne
In mia vece di lei parlerai! troppo.
Mira in quel tribunal , dove si sceme
Di gente intorno adulatrice un groppo ,
Donna con torve luci , e lunghe orecchie,
Che da’ fianchi si tien due brutte vecchie.
L’Autorità tirannica dipigne
Quella superba e barbara sembianza ,
E Tassistenti sue sciocche, e maligne
Son la Sospizìonc, e l’Ignoranza, [gne.
Labbra ha verdi e spumanti, e man sangui*
Mostra rigor, furor, fasto, arroganza ;
Porge la destra ad una donna ignuda.
Di cui non è la più perversa e cruda.
Questa tutta di sdegno accesa e tinta ,
E di dispetto , e di fastidio è piena ;
E da turba crudel tirata, e spinta
Giovinetta gentil dietro si mena,
f.hcT una cT altra mano al tergo avvinta
Porta di dura e rigida catena t
Smarrita il viso, c pallidetta alquanto.
Ed ha bianca la gonna , e bianco il manto.
La ('.alnnnìa è colei, che al trono angusto
Per mania traggo, c par d’astio si roda.
Bella la faccia ha sì , ma dietro al busto
Le si attorce di serpe orrida coda.
L’ altra condotta nel giudizio ingiusto,
A cui le braccia indegno ferro annoda,
E T incorrotta c candida Innocenza,
Sovraffatta talor dall’ Insolenza.
Il Livor T è dincontra , il quale approva
La falsa accusa , e la risguarda in torlo.
Aconito infornai nel petto cova,
E di squallido bosso ha il liso smorto,
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ADONE.
Slmile ad imm, che afflitto ancor si trova
Da lungo morbo, onde guarì di corto.
Coppia d'ancelle alla Calunnia applaude,
(Testimoni malvagi) Insidia, e Fraudo.
Segue costoro addolorata , e piange
Di tal perfidia il torto , e la menzogna
l.a Penitenza , che si affligge ed auge
Presso ia Verità , che la rampogna ,
E si squarcia la vesta, c il crìn si frange ,
E di duol si dispera , o di vergogna ,
E col fiagcl di una spinosa verga
Si batte il corpo, e macera le terga.
Oirnè, non sliam più qui, iasciam per
Di questi mostri abominandi il nido. [Dio
Tacqucsi , c lungo un tortuoso rio
Quindi svioilo il saggio duce fido.
D' un' oscura isolctta Adon scoprio
Non molto lungo , ancor’ incerto , il lido.
Caria avea d' ogn’ Intorno opaca e bruna
Qual fosca notte in nubilosa luna.
Giace in mezzo d' un fiume, il qual si
Dilaga 1' acque sue placide c chete , [roco
E va sì lento, c mormora sì poco,
Che provoca in altrui sonno, e quiete.
Ecco (Mercurio allor soggiunse) il loco,
Dove discorre il sonnacchioso Lete,
Da cui la verga mia forte , c possente
Prende virtù d’ addormentar la gente.
C isola d' ogni parte abbraccia e chiude
( Come scorger ben puoi ) l’ onda letale ;
Sembra oziosa c livida palude ,
Onde caligin densa in alto sale.
Vedi quante in quell' acque anime ignude
Vanno a lavarsi , ed a tufian i l' ale
Pria che le copra il corrotlibil velo,
Per obliar ciò che han veduto in ciclo.
Vedine molte, che a bagnar le piume
Vengon pur nelle pigre onde infelici,
E perdon pur dentro il medesmo fiume
I.a conoscenza de’ cortesi amici.
Soli gl' ingrati color che han per costume
Dimenticar favori , c beneficj ,
E scriver nelle foglie , e dare ai venti
Gli obblighi , le promesse , c i giuramenti.
Altre ne vedi ancor quassù dal mondo
Salire ad or ad or macchiate e brutte,
I.e quai non pur di quel licore immondo
Corrono a ber, ma vi s’ immergon tutte.
Genti son quelle, che da basso fondo
.So n per fortuna ad alto grado addutte.
Dove ciascun divicn si smemorato.
Che più non gli sovvien del primo stato.
0 dei terreni onor perfida usanza ,
S7
Con cui l’ oblio di subito si beve ,
Onde con repentina empia mutanza
Vlcnsi l’ uomo a scordar di quanto deve ;
E non solo d' altrui la rimembranza ’
In lui s' offusca , e si smarrisce in breve ,
Ma sì del tutto ogni memoria ha spenta,
Che di sé stesso pur non si rammenta.
Il paese dei Sogni è questo , a cui
Pervenuti noi siamo a mano a mano.
Vedi che appunto nei sembianti sul
Simile al sogno , ha non so che del vano ,
Che apparisce, e sparisce agli occhi alu ui,
E visibile appena è di lontano.
Qui da Giove scacciato II Sonno nero
Contumace del elei, fondò l’impero.
Ma per poter varcar l'onda soave
Sarò buon, clic alcun legno orsi prepari.
Ed ecco allora in pargoletta nave
Strania ciurma apparir di marinari ,
Datone, e Tarassio il remo grave,
E Plutocle, c Morfeo movean del pari.
Era 11 vecchio Fantasio il galeotto ,
Al niestler del limone esperto c dotto.
Presero un porto , ove d' elettro puro ,
All' angel vigilante un tempio e sacro.
Quindi scolpito sta l’ Èrebo oscuro ,
Quinci d' Ecatc beila il simulacro.
In sull’ entrar, pria che si passi al muro
V ha di duo fonti un gemino lavacro ;
Che fan cadendo un mormorio secret •> ,
Pannicelli.! è detto l’ un, l'altro Negrcto.
Fa cerchio alia città selva frondosa ,
Che dà grato ristoro al corpo lasso
La mandragora stupida, c gravosa ,
E il papavero v ' ha col capo basso.
L’orso tra questi languido riposa,
E riposanvi all’ ombra il ghiro , e il lasso.
Nò d’abitar quei rami osano augelli,
Fuor clic nottole , c gufi , e pipistrelli ,
D’un lri a più color case, c contrade
Statisi tra lumi tenebrosi occulte.
Quattro porte maestre ha la cittade.
Due di terra, e di ferro incise e sculte.
Le quai rispondon per diritte strade
Della Pigrizia alle campagne inculle ;
E per queste sovente o falsi , o veri
Escono i Sogni spaventosi c fieri.
Dell’ altre due ciascuna il fiume guarda ;
L’ una ò d' avorio , e si disserra allora ,
Che è nel suo centro la slagion più tarda ,
L'altra di corno, e s’apre in sull aurora
Perquellaaschernirl’uom turba bugiarda
D’ Ingannatrici ìuiaglni vien fora.
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M POEMI
Da questa soglion trar Tallirne vaghe
Visioni dei ver spesso presaghe.
La bella coppia entrò per l'uscio ebumo,
E fur quell’ ombre da’ auoì raggi rotte.
Il suo palagio ombroso , e taciturno
Nella piazza maggior lenea la Notte.
Dall'altra parte di vapor notturno
Velato , e chiuso tra profonde grotte
L’ albergo ancor del Sonno si vedea ,
Che sovra un letto d’ ebano giacca.
O di quante fantastiche bugie
Mostruose apparenze intorno vanno !
Sogni schivi del Sol , nemici al die ,
Fabri d’iliuslon, padri d'inganno.
Minolauri , centauri, idre, ed arpie,
E gerirmi , c briarei vi stanno.
Chi sirena, chi sfinge al corpo sembra.
Chi di ciclopo , e chi di fauno ha membra.
Chi par bertucci, ed è qual bue cornuto,
Chi tutto è capo, e il capo poi seni' occhi.
Altri han com’ hanno i mergl 11 becco acu-
Altri la barba a guisa degli alocclii. [to,
Altri con faccia umana è si orecchiuto ,
Che convlen , che ogni orecchia il tcrrcn
tocchi.
Altri ha piè d’oca, e di falcone artiglio.
L’occhio nel ventre, e nel bellico il ciglio.
Vedresti effigie angelica , e sembiante ,
Poi si termina il piede in piedistallo.
Visi di can con trombe d’ elefante ,
Colli di gru con teste di cavallo.
Busti di nano, e braccia di gigante.
Ali di parpaglion , creste di gallo ,
Con code di pavon grifi , e pegasi ,
Fusi per gambe , e pifferi per nasi.
Alcun di lor, quasi spalmalo legno,
Vola a vela per l' aure , e scorre a nuoto ,
Ma di due rote ha sotto un altro ingegno ,
Onde corre qual carro , c varia moto.
Con un mantice alcun di vento pregno
Gonfia , e sgonfia soffiando il corpo voto ,
E tanti fiali accumula nell'epa,
Che come rospo alibi ne scoppia e crepa.
E questi, ed altri ancor più contraffatti
Ve n' ha, piccioli e grandi , interi e mozzi ,
Quasi vive grottesche , o spirti astratti ,
Scherzi del caso , e del pensiero abbozzi.
Parte alle spoglie , alle fattezze , agli atti
Son lieti e vaghi, e parte immondi e sozzi.
Molli al gesto, al vestir vili e plebei ,
Molli di regi in abito, c di Dei.
Tra gii altri Adon vi riconobbe quello ,
Che in Cipro gii, quand’ei tra' fior dormiva
EROICI.
Rappresentagli il simulacro bello
Della sua bella , ed amorosa Diva.
E gii quel pigro e lusingliier drappello
Dietro alla Notte, che volando usciva,
Gli s'accostava in mille forme intorno
Per gravargli le ciglia, o torgli il giorno.
Ma il suo dottor si se n'accorse, e presto
Gli fc’ le luci alzar stupide , e basse.
Vener sorrise, ed ci poscia che desto
L’ebbe non volse più che ivi indugiasse.
Ma mostrandogli a ditoor quello, or que-
AIT altra riva un'altra volta il trasse, [sto.
Dimandava!» Adon di molte cose.
Ed a molte dimande egli rispose.
E giunta a mezzo di suo corso ornai
L'umida Notte ali’Ocean scendea,
E con tremanti , e pallidetti rai
Più d' un lume dal ciel seco cadea.
Cinto di folte stelle , c più che mai
Chiaro il pianeta inargentato ardea ,
Vagheggiando con occhio intento e vago
In fresca valle addormentato il Vago.
Deb perdonimi il ver, se altrui par forse.
Ch'io qui del ciel la dignltate offenda,
Poiché laddove Tempo unqua non corse ,
L' Ore non splegan mal notturna benda.
Facciol, perchè cosi quel che non scorse
Il senso mai, l'intendimento intenda.
Non sapendo trovar fuor di Natura
Agli spazi celesti altra misura.
In questo mezzo il condottier superno
Le sei vaghe corsiere al carro aggiunse.
Fece entrarvi gli amanti , ed al governo
Assiso poi, ver l'altro elei le punse.
Ed ai bei tetto del suo albergo eterno
In poche ore rotando, appresso giunse.
Intanto il parlator facondo e saggio
La noia alleggeria del gran viaggio.
Eccoci (gli diceva), eccoci a vista
Della mia stella , che più su si gira ,
Candida no , ma variata e mista [ tira ,
Di un tal livor, che al piombo alquanto
Picciola si , che quasi appena è vista ,
E talor sembra estinta a chi la mira,
E nelle notti più serene e chiare
Dell’ anno sol per pochi mesi appare.
Questo gli awicn non sol perchè minore
Dell' altre erranti, e delie fisse è molto,
Ma però clic da luce assai maggiore
Gli è spesso il lume inecclissato e tolto.
Sotto i raggi del Sole il suo splendore
Nasconde sì , che vi riman sepolto ,
E tra que’ lampi , onde si copre e vela ,
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ADONE. 59
Quasi iu lucida nebbia , altrui si cela.
Ha dall' essere al Sol tanto vicina
Maggior fora e vigor prende sovente,
Come ancor questa del tuo cor retna
Per l' istessa cagione è più possente.
Seco, e col Sole in compagnia cammina,
Seco la rota sua compie egualmente.
Benché tra noi sia gran disuguaglianza,
Chè assai di lume , e ili beltà mi avanza.
La qualità di sua natura è bene
Mutabile, volubile, inquieta.
Si varia ognor, nè mai fermezza tiene.
Or infausta, or seconda, or trista, or lieta ,
Ma questa tanta instabiltà le viene
Dalla congiunzion d' altro pianeta ,
Perch’io son tal, che negli effetti miei
Buon co’ buoni mi mostro , e reo co’ rei.
Nascon per la virtù di questa luce
Luminosi Intelletti, ingegni acuti.
Senno altrui dona , ed uomini produce
Cauti agli affari , e nell’ industrie astuti.
Vago desio dì nuove cose Induce,
E d'incognite al mondo arti, e virtutì.
Per lei sol chiaro e celebre divenne
Delle lingue lo studio, e delle penne.
E quando questa tua dolce lumiera
Vi applica il raggio suo lieto benigno ,
Quei fortunato, al cui natale impera.
Riesce in terra il più famoso cigno.
Così lo Dio della seconda sfera
Parla al vago figliuol dei re Ciprigno,
E tuttavia, mentre cosi gli conta
Le proprie doti , il patrio del sormonta.
Avean l’aureo timon per la via torta ,
Drizzato già le mattutine ancelle.
Già su 1 confìn della dorata porta
Giunto era il Sole , e fca sparir le stelle ;
La cui leggiadra messaggera , e scorta
Sgombrando intanto queste nubi, e quelle,
Per le piagge spargea chiare, ed ombrose
Della terra, e del del rugiade, c rose.
Quando vi giunse, e con la coppia scese
Sovra le soglie del lucente chiostro ,
Come fu dentro Adon, vide un paese [slro;
Con più bel giorno, epiùbeldel,eheilno-
Poi dietro alle sue scorte il cammin prese
Per un ampio senticr, che gli fu mostro ;
E in un gran pian si ritrovalo adagio ,
Nel cui mezzo sorgea nobil palagio.
Palagio , che al modello .alla figura
Quasi d’anfiteatro avea sembianza.
Ogni edificio , ogni artifizio oscura ,
Ogni lavoro , ogni ricchezza avanza.
Vista nel primo giro hai di Natura
(Disse ClUenioJ la secreta stanza.
Or ecco, o bell' Adon , sei giunto in parte
Dove l’ albergo ancor vedrai dell’ Arte.
Dell' Arte emula sua la casa £ questa ,
Eccola là , se di vederla brami.
Di gemme in fil tirate è la sua vesta.
Trapunta di ricchissimi ricami.
Mira di che bei fregj orna la testa.
Come l’ intreccia de' più verdi rami.
Di strumenti , c di macchine ancor vedi
Qual c quanto si tien cumulo a’ piedi.
Mira penne , e pennelli , e mira quanti
Vi Ita scarpelli, e martelli, asce, ed incudl,
Bulini , e lime , circini , e quadranti ,
Subbj, e spole, aghi, e fusi, e spade, e scudi
Cosi diceagll , e procedendo avanti ,
La gran maestra tralasciò suoi studj ,
E riverente , e con cortese inchino,
Umitfossi al messaggier divino.
Dal divin messaggiero Adon condutto
La porta entrò della celeste mole.
DI diamante ogni muro avea costrutto ,
Che lampeggiando abbarbagliava il Sole ;
E P Immenso cortile era per tutto
Intorniato di diverse scolo,
E molte donne in cattedra sedenti
Vedeansi quivi ammaestrar le genti.
Queste d'etate, o di bellezza eguali
(Mercurio ripigliò) vergini elette
Sono ancelle dell’ arte, c liberali,
Perocché l' uom fan Ubero, son dette.
Fonti inesausti , oracoli immortali
Del saper vero , e non son più che sette
Fidate guide, illuslralrìci sante
Del senso cieco , e dell’ ingegno errante.
Colei, che è prima, e tiene in man le
Della sublime, c spaziosa porta, [chiavi
Di (ulte le altre facoltà più gravi
Agli anni rozzi è fondamento , e scorta.
Quella , che con ragion belle c soavi
Loda, biasma, difende, accusa, esorta,
È la diletta mia , che dalla bocca
Mentre che versa il mel , l’ aculeo scocca.
Ve’ l'altra poi con la faretra a lato,
Sottile arciera a saettare intenta,
Che bene acuti ognor dall* arco aurato
Di strali in vece i sillogismi avventa.
Passa ogni petto d’aspri dubbj armato.
Nega , prova , conferma , ccl argomenta ,
Scioglie, dichiara, e dalle cose vere
Distingue il falso, alBn conchiude c fere.
Vedi quell’ altre ancor quattro donzelle
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CO POEMI
Dì sembiante , e dì volto alquanto oscure.
Tutte (l’un parto sol naequer gemelle,
E traltan pesi, c numeri, c misure.
L'una contemplatrice è delle stelle ,
E suol vaticinar cose future.
Vedi clic ha In man la sfera, c dei pianeti
Si diletta di espor gli alti secreti.
L’ altra , che con la pertica disegna
E triangoli , c tondi , c cubi , e quadri ,
Con linee, e punti il ver mostrando, insegna
Righe, c piombi adoprar, compassi, c squa-
li terza di sua man figura e segna [dri.
Tariffe egregie, e calcoli leggiadri.
Sottrae la somma, la radice trova,
Moltiplica il partito, e fa la prova.
Instruiscc a compor l’ ultima suora
E fughe, e pause, e sincope, c battute,
E temprar note all* armonia sonora
Or lente c gravi , or rapide ed acute.
Altre vederne non mcn sagge ancora
Oltre queste potrai fin qui vedute ,
Benché le sette, ch’io l’ hoconteemoslre,
Sien le prime a purgar le menti vostre.
Ecco altre due sorelle, c del Disegno,
E della Simmetrìa pregiate figlie.
L’ una con bel colori in tela , o in legno
Sa di nulla formar gran meraviglie.
L’ altra, che nell’ industria, e nell’ ingegno
Non ha (trattane lei) chi la somiglie.
Sa dar col ferro al sasso anima vera.
Al metallo, allo stucco, ed alla cera.
Eccoti ancor col mappamondo avaute,
E con la carta un’ altra giovinetta.
Che scoprendo I paesi , c quali c quante
Regioni ha la terra , altrui diletta.
Sentenze poi religiose c sante
Damigella celeste altrove detta.
Di Dio discorre , c dell’ eterna vita
Al discepoli suoi la strada addita.
Mira colà quella matrona augusta.
Che per toga c per laurea è veneranda.
£ la Legge cìvil, che santa, e giusta
Sol cose oneste c lecite comanda.
Quella , che porge d’ altrui febbre adusta
Amara, c salutifera bevanda,
£ di ogni morbo uman medicatrice.
Che sua virtù non chiude erba , o radice.
Guarda or colei , che spirili divini
Spira, sebben fattezze alquanto ha brutte,
E par, che ognun l’ onori, ognun l’ inchini,
Qual madre univcrsal dell’ altre tutte.
Quella è Sofia, clic rabbuffata i crini,
Magra , e con guance pallide c distrutte,
EROICI.
Con scalzi piedi , c con squarciati panni
Pur di dotti scolari empie gli scanni.
Azione , passione , atto , c potenza ,
Qualità, quantità mostra in ogni ente.
Genere , c specie , proprio , c differenza ,
Relazione , sostanza , ed accidente ,
Con qual legge natura, c previdenza
Crea le cose , c corrompe alternamente ,
La materia , la forma , il tempo , il moto
Dichiara, c il sito,c l’infinito, e il voto.
Tion due donne da’ fianchi. Una che sic-
Sovra quel sasso ben quadrato c sodo , [de
£ la Dottrina , che a chiunque il chiede
Di ogni difficoltà discioglie il nodo.
L’ altra clic con la libra in man si vede
Pesar le cose, ed ha II martello, c il chiodo,
£ la Ragion , clic con accorto ingegno
A nessun crede, c vuol da tutti il pegno.
Ma quell’ altra colà, che ha si leggiere
Le penne, è Dea del mondo, anzi tiranna.
Di fallace cristallo ha due visiere ,
Che l’ occhio illude , e 11 buon giudicio ap-
E le fa guatar torto, c travedere , [ panna
Sicch’altrui spesso, e sè medesma inganna.
Di un tal cangiacolor la spoglia ha mista ,
Che l’ apparenze ognor mula alla vista.
Nè di tanti color gemmanti c belle
Suol l’augcl di Glunon rotar le piume,
Nè di tanti arricchir l’ ali novelle
Quel del Sole in Arabia ha per costume.
Nè di tanti fiorir veggionsì quelle
Dell’alato figliuol del tuo bel Nume,
Di quante eli’ ha le sue varie e diverse
Verdi, bianche, vermiglie, c rance, c perse.
Opinion s’appella, e molte ha seco
Ministre infami, c meretrici infide.
Larve , che uscite del tartareo speco
Ycngon dell’ alme incaute a farsi guide.
Ed è lor capo un giovinetto cieco,
Ch’Errore ha nome, c lusingando ride,
D’un licore incantato inebbria i sensi,
E lui seguendo a precipizio viensi.
Mira intorno astrolabi , ed almanacchi ,
Trappole, lime sorde, e grimaldelli.
Gabbie, bolge, giornee, bossoli, e sacelli ,
Labirinti , archipendoli , c livelli ,
Dadi, carte, pallon, tavole, e scacchi,
E sonagli, c carrucole, c succhielli,
Naspi, arcolai, vctticchi, c oriuoli,
Lambicchi, bocce, mjntlci, e crociuoli.
Mira pieni di vento otri , e vessiche,
E di gonfio sapon turgide palle.
Torri di fumo, pampini d’ ortiche,
ADONE. CI
Fiori di zucche, e piume Tordi , e gialle,
Aragni, scarabei, grilli, formiche.
Vespe, zanzare, lucciole, e farfalle,
Topi, galli, bigatti, e cento tali
Stravaganze d’ordigni, c d’animali.
Tutte queste , che vedi , c d’ altri estrani
Fantasmi ancor prodigiose schiere ,
Sono i capricci degl’ ingegni umani ,
Fantasie, frenesie pazze , e chimere.
V ha molini , e palei mobili c vani
Girelle , argani , e rote in più maniere.
Altri forma han di pesci , altri d’ uccelli ,
Vari , siccome son vari i cervelli.
Or mira all’ombra della sacra pianta
Fregiala il crin dell’ onorate foglie
La Poesia, che mentre scrive, e canta,
Il fiore di ogni scienza insieme accoglie.
La Favola è con lei , clic orna, ed ammanta
Le vaghe membra di pompose spoglie.
L’accompagna l’Istoria ignuda donna.
Senza vel, senza fregio, e senza gonna.
Vedi la Gloria , che qual Sol risplcnde,
Vedi l'Applauso poi, vedi la Lode,
Vedi 1’ Gnor, che a coronaria intende
Di luce eterna , onde trionfa e gode.
Ma vedi ancor coppia di furie orrende,
Clic di rabbia per lei tutta si rode.
La persegue rinvidia empia , e crudele,
Che ha le vipere in mano, in bocca il fiele.
La maligna Censura ognor l’ è dietro,
E quant’ella compone emenda, e tassa.
(k>l vaglio ogni suo accento , ogni sitome-
Crivella , e poi perla trafila il passa, [tro
Posticci bagli occhi in fronte, c son di
Orse gli affigge, or gli ripone e lassa [vetro,
Nota con questi gli altrui lievi errori ,
Nò scorge intanto i suoi molto maggiori.
Ciò detto , dì diaspri , c di alabastri
Gli mostra un arsemi capace e grande,
Che sovr’ alte colonne , e gran pilastri
Le sue volte lucenti appoggia c spande,
Turba v’ ha dentro di diversi mastri ,
Ingegner d’opre illustri e memorande.
Qui di lavori ancor non mal più visti
Soggiornan (dice) i più famosi artisti.
Di quanto mai fu ritrovato in terra ,
0 si ritroverà degno di stima ,
0 sia cosa da pace , o sia da guerra ,
Qui ne fu l’esemplar gran tempo prima.
Qui pria per lunghi secoli si serra
Ignoto ad ogni gente, ad ogni clima,
Poi si pubblica al mondo c si produce
All’ umana notizia , ed alla luce.
Vedi Prometeo figlio di Iapeto,
Che di spirto celeste il fango informa.
E vedi Cadmo autor dell’ alfabeto.
Da cui prendon le lingue ordine c norma.
Vedi il Siracusan , che il gran secreto
Trova, ond’un picciol cielo ha moto, c
E ilTarentin, che la colomba imÌta;[forma.
E il grand’ Alberto , che al metal dà vita.
Ecco Tubai primo Inventor de’ suoni ,
11 Tebano Anfione , e il Trace Orfeo.
F.cco con altre corde , ed altri tuoni
Lino, lopa, Tamira , c Timoteo.
Ecco con nove armoniche ragioni
Il mirahil Terpandro , c il buon Tirtco ,
Fabri di nove lire, c nove cetre,
Animatori d’arbori, c di pietre.
Mira Tcsiblo, e mira Anassimcne
Su la mostra segnar 1* ore correnti.
Mira IMrode poi, che dalle vene
Trae della selce le scintille ardenti.
Anacarsi ò colui, mira che tiene
In mano il folle , e dà misura ai venti.
Mira alquanto più in là metter in uso
Esculapio lo specchio, c Giostro il fuso.
K Gige v’ ha , ciie la pittura inventa ,
Ed havvl col pennello Apollodoro,
E Corcbo ò con lor , che rappresenta
Della plastica industre il bel lavoro,
E Dedal , che agguagliar non si contenta
Con sue penne nel volo e Borea , e Coro ,
Ma macchinando va d’asse, c di legni
Ingegnoso architetto alti disegni.
Epiinenide , Furialo , Iperbio , e Dosso
Templi , e palagi ancor fondano a prova ,
E Trasonc erge il muro , c cava il fosso
Danao , che il primo pozzo in terra trova.
Navi superbe edifica Minosso,
Tifi il timon , con cui 1* alTreni , c mova.
Bellorofonte ò tra costor , eh’ io narro ,
Ed Eriionio co’ cavalli , c il carro.
Guarda Aristeo con quanto util fatica
Del mel, del latte alla cultura intende.
Tritolemo a’ mortai mostra la spica,
Bige l’ aratro , che la terra fende.
Prcto allo scudo , Midia alla lorica
Travagliamolo il dardo a lanciar prende.
Scile pon 1* arco in opra, e la saetta,
L’ asta Tirren , Pantasilca l’ accetta.
Havvl poi mille fabricali e fatti
Da Cretensi , da Siri , c da Fenici,
Mossi da rote impetuose , c tratti
Altri arnesi guerrieri , altri artificj.
Vedi arpagoni , c scorpioni , e gatti ,
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C5 POEMI
Macchine di citladl espugnatele! ,
E da cozzar con torri , e con pareti
Catapulte , baliste , ed arieti.
Bertoldo vedi 11, nato in sul Reno,
Che per strage del mondo , e per rulna
D' irreparabil fulmine terreno
Fonde, temprato airinfernal fucina.
Quegli e Giovanni ;o fortunato appieno !
Che le stampe introduce in Argentina ;
E ben gli dee Magonza eterna gloria,
Come eterna egli fa I* alimi memoria.
Cosi parlando per eccelse scale
Sovt' aureo palco si trovar saliti,
E quindi cntraro in galleria reale ,
Che volumi accoglica quasi infiniti.
Eran con bella serie in cento sale
Riposti in ricchi armari c compartiti ,
l egali in gemme, ed ogni classe loro
Distinguea la cornice in linee d' oro.
Ceda Atene famosa , a cui già Serse
Rapi gli archivj d’ogni antico scritto,
Che poi dal buon Seleuco all’ armi perse :
Ritolti , in Grecia fer nuovo tragitto.
Nò da’ suoi Tolomci d' opre diverse
Cumulato Museo celebri Egitto.
Nò di lai libri in quest’ etatc , e tanti,
l'rbin si pregi , o il Yatican si vanti.
Molti n’ eran vergati in molle cera ,
Molti in sottili, e candide membrane.
Parte in fronde di palma , e parte n' era
Di piombo in lame ben polite c piane.
In caldeo ve n’ avea scritta una schiera ,
Altri in lettre fenicie , c soriane.
Altri in egizj simboli, e figure.
Altri In note furtive, e cifre oscure.
Questo ò l’ erario , in cui si fa conserva
Segui Mercurio) de’ più scelti inchiostri
Di quanti mai scrittor Febo, e Minerva
Sapran meglio imitar tra’ saggi vostri.
I nomi , a cui non noce età proterva ,
Vedi a caratter d’ or scritti ne' rostri.
Qui stan le lor fatiche , c qui son state
Pria che composte sieno, e che sien nate.
Quanti d’ Illustri e celebrati autori
SI smarriscon per caso empio c sinistro
Degni di vita, e nobili sudori,
Ed or Nettuno , or n’ ò Yulcan ministro 1
Or qui di tutti quel ricchi tesori )
Che si perdon laggiù , si ticn registro.
Sacre memorie, ed Involate agii anni.
Che traman morte agli onorati affanni.
La libreria del dotto Stagirita ,
Che il liorconlicn d’ ogni scrittura eletta ,
EROICI.
Di cui Teofrasto in sull’ uscir di vita
Lascerà successore , è qui perfetta.
D’ Empedocle , Pittagora , ed Archita
Vi ha le dottrine , e qualunque altra setta.
Di Talete , Democrito , e Solone ,
Parmenide , Anassagora , e Zenone.
Petronio vi ha , di cui gran parte ascose
Torbido Lete in nebbie oscure e cieche.
Di Tacito vi son l' ultime prose,
Tutte di Livio le bramate deche.
La Medea di Nasone , ed altre cose
De' Latini miglior, non men che greche.
Cornelio Gallo con Lucrezio Caro, [ro.
Ennio , ed Accio , e Pacuvio, e Tucca, e Va-
D’ Andronico, e di Nevio I drammi lieti.
Di Cccilio , e Licinio anco vi stanno ,
E di Publio Terenzio I più faceti
Sali , clic alle salse acque In preda andran-
E non pur d'altri istorici, e poeti [no;
Le disperse reliquie albergo v' hanno.
Ma gli oracoli ancor delle Sibille,
Scampati dal furor delle faville.
Tacque , c volgendo Adon l' occhio in di-
vide gran quantità di libri sciolti, [sparte
Clic avean malconce e lacere le carte ,
Tutti sossopra In un gran mucchio accolti.
Glaccan negletti al suol , la maggior parte
Rosi dal tarlo , e nella polve Involti.
Or perchè (disse) esposti a tanto danno
Dal bell’ ordine questi esclusi stanno ì
E perchè senza onor, senza ornamento
Di coverta , o di nastro io qui gli trovo?
Un fra gli altri gittato al pavimento
Ne veggo là fra Drusiano, e Rovo,
Che (se creder si deve all'argomento)
Porta un titolo illustre : Il Mondo novo.
Ma si logoro par, s’io ben discerno.
Clic quasi II mondo vecchio è più moderno.
Di scusa certo, c di pietà son degni
(Sorridendo l' Interprete rispose)
Quei , elle d’ ogni valor poveri ingegni
Si sforzan d' emular l’ opre famose;
Chò Ingordigia d'onor non ha ritegni
Nelle cupide menti ambiziose ,
E quando alto volar ne voggion' uno,
A quel seguo arrivar vorria ciascuno.
Non mica a tutti è di toccar concesso
Della gloria immortai la cima alpina.
Chi volar vuol senz’ all , accoppia spesso
All’ audace salita alta rulna.
Ma quantunque avveuir soglia l'islesso
Quasi in ogni bell'arte, e disciplina.
Non si vede perù maggior tracollo ,
ADONE. 61
Che di chi segue indegnamente Apollo.
Dietro ai chiari scriltor dì Smirna , e
Manto,
Per cui sempre vivranno i duci , e l'armi ,
Tentando invan di pareggiarli al canto ,
Più d' uno arroterà io stile , e i canni.
0 quanti poi , con quanto studio c quanto
Dell' italico stuol di veder panni
Tracciar con poca lode i due migliori ,
Che in sul PA canteran guerre ed amori.
Che di poemi in quella lingua cresca
Numerosa farragine , e di rime ,
La facil troppo invenzton tedesca
N’ è cagion , che per prezzo il tutto impri-
Ma se alcuna sarà , che mal riesca , [me.
L’opra, che tu dicesti, A tra le prime.
Cosi figliano i monti, e il topo nasce.
Ma poi nato eh' egli è , si more in fasce.
Polche si fatti parti un breve lume
Visto appena han laggiù nei vostro mondo,
Il vecchlarci dalle veloci piume ,
Quel che vedesti già nell' altro tondo ,
Qui ridurle in un monte ha per costume
Per seppellirle in tenebroso fondo.
Alfin te porta ad attuffar nel rio.
Che copre il tutto di perpetuo oblio.
Ma più non dimoriam , che polche a que-
Tihoscortoetcrnlelumlnosimondi, [sti
Converrà , che altro ancor ti manifesti
Dei secreti del Fato alti e profondi,
E vie molto maggior, che non vedesti ,
Maraviglie vedrai , se mi secondi.
Qui tacque , e in ricca loggia e spaziosa
Il coudusse a mirar mirabii cosa.
Vasto edificio d’ ingegnosa sfera
Reggea , quasi gran mappa, un piedistallo,
Che si appoggiava ad una base intera
Tutta intagliata del miglior metallo.
Era d’ ampiezza assai ben grande , ed era
Fabrìcala d’ acciaio , e di cristallo.
La cerchiavan per tutto In molti giri
Fasce di lucidissimi zaffiri. [dea
Forma avea d’ un gran pomo, e risplcn-
Più che lucente, e ben polito specchio,
E d ' aurei seggi intorno intorno avea
Per rlsguardaria un comodo apparecchio.
Quivi , mentre che intento Adon tenca
L' occhio alla palla , al suo parlar I’ orec-
Mercurio seco, e con la Dea s' assise, [chio,
Indi da capo a ragionar si mise.
Questa ( dicra J sovramortal fattura ,
La qual confonde ogni creato ingegno ,
Opra mirabii e , ma di Natura ,
E di dlvln Maestro alto disegno.
L* artefice di tanta architettura,
Che d' ogni Miro artificio eccede il segno ,
Fu questa mia del gran Fattor sovrano
( Benché imperfetta] imitatrice mano.
Sudò molto la man, nè l' intelletto
Poco in si nobil macchina sofferse ,
E lungo tempo inabile architetto
Sue fatiche , e suol studj Invan disperse ;
Ma quei , eh’ e sol tra noi fabro perfetto ,
Dei bei lavor l’ invenzton m’ aperse ,
E il secreto mi fc’ facile e lieve
Di raccorre il gran mondo in spazio breve.
E die sia ver, rivolgi a questa mia
Adamantina fabrica le ciglia.
Di’ se vedesti , o se esser può , che sia
Istromento maggior di meraviglia.
Composta è con tant’arte e maestria,
Che al globo universa! si rassomiglia.
Mirar nel cerchio puoi limpido e terso
Quanto 1’ orbe contien dell' universo.
Formar di cavo rame un cielo angusto
Fia forse in alcun tempo altrui concesso,
Dove or sereno , or di vapori onusto
L’ aere vedrassi , e il tuono , e il lampo
E tener moto regolato e giusto [espresso,
La bianca Dea con l’ altre stelle appresso,
E con perpetuo error per l’ alta mole
Di fera in fera ir tra le sfere il Soie.
Ma dove un tal miracolo si lesse ,
0 chi senno ebbe mai tanto profondo,
Cile compilar, compendiar sapesse
La gran rota del tutto in picciol tondo?
Al magistero mio sol si concesse
Fare un vero model dei maggior mondo ,
Lo qual dei mondo insieme elementare
(Non che sol del celeste ), è l’ esemplare.
Onde di quante cose o buone , o ree
Passate ha il mondo in qualsivoglia etade,
E di quante passar poscia ne dee
Per quante ha colaggiù terre , e contrade ,
Qui son le prime originarle idee,
Dove scorger si può ciò che vi accade.
Riluce tutto in questo vetro puro
Col passato , c il presente , anco il futuro.
Vedi le zone fervide , e l’ algenti ,
E dove bolle, e dove agghiaccia l'anno.
Vedi con qual misura agli elementi
Tutti I corpi celesti in giro vanno.
Vedi il scntier, laddove i duo lucenti
Passeggieri del cicl difetto fanuo.
Vedi come veloce il moto gira
Del del , che ogni altro cicl dietro si lira.
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C4 POEMI
Ecco 1 tropici poi , quindi discenti
Volgersi il cancro, e quinci il Capricorno,
Dove agguagliati dei pari i corsi alterni
La notte al sonno , alia vigilia il giorno.
Ecco i colliri, uniti ai poli eterni.
Clic sempre il ciel vati discorrendo intor-
Ecco con cinque linee i parale!!! , [ no.
E nel bel mezzo il principal tra quelli.
Eccoti là sotto il piti basso cielo
Il foco , che sempr* arde , e mal non erra.
Mira dell’ acque il trasparente gelo.
Olle II gran vaso del mar nel ventre serra.
Mira dell’ aria molle il soltil velo.
Mira scabrosa e ruvida la terra.
Tutta librata nel suo proprio pondo,
Quasi centro dei del, base del mondo.
Himira, c vi vedrai distinti, c chiari
(loschi, colli, pianure, e valli, e monti.
Vedrai scogli, ed arene, isole, e mari,
E laghi, c fiumi, c ruscelletti, c fonti,
Provincie, c regni, e di costumi vari
Centi diverse, c d’abiti, c di fronti.
Vedrai cou peli , e squamine , e penne, e ro-
E fere, e pesci, ed augclletli , e mostri, ^stri,
Vedi la parte, ove 1’ aurora al tauro
li rapo indora, e l' oriente alluma.
Vedi P altra , ove lava al vecchio inauro
Il piè di sasso I’ africana spuma.
Vedi là dove spula il fioro cauro
Sulle balze rifee gelida bruma.
Vedi ove il negro con la negra gente
Suda sotto 1’ arder dell* asse ardente.
Ecco le rupi, ondo trabocca il Nilo,
Clic la patria, e il natalsi ben nasconde.
Ecco I’ Eufrate clic per dritto filo
Le due gran reglon parte con Tonde.
L’ Indo è colà, cito per antico stilo
Fa di tempeste d* or ricche le sponde.
Quell’ è il terrai , là dove sferza c scopa
Le sue fertili piagge il mar d’Europa.
Vuoi I* Arabie veder per le famose,
La Petrea, la Deserta, c la Felice?
Eccoli il loco appunto ove l’ espose
La trasformata già tua genitrice.
Ve’ le rive di Cipro, ambiziose
Di una tanta bellezza abitatrice.
Conosci il prato , ove perdesti il core ?
È quello il tetto, ove t’ accolse Amore?
Grande è il teatro, c nei suoi spazi im-
mensi
Chi langue in pena , e chi gioisce in gioco.
Ma per non ti stancar la mente , e i sensi
In cose ornai , clic ti rilevati poco ,
EROICI.
Tanto sol mostrerò, quanto appari icnsi
Alla Iteli' esca del tuo dolce foco.
Sai pur , cl»e protettrice è questa Dea
Della stirpe di Dardano, e d’ Elica.
Le diede soi ra Pallade , c Giunone
Paride già delle bellezze il vanto.
Benché tragico n’ebbe il guiderdone,
E corscr sangue il Simoenta , c il Santo*
Questa ( ma non già sola J é la cagione ,
Ch’ella il scine troiano ami cotanto.
Mirolla in questo dir Mercurio, c rise.
L’ altra arrossi col rimembrar d’ Anelli se.
Or mentre [ seguì poi } del cavo fianco
Uscito del destrier , clic insidie chiude,
Sluol di greci guerrieri il Frigio stanco
Assai con armi impetuose c crude,
Sotto la scorta del buon duce franco
Ricorra alla mcotica palude
Una gran parte di reliquie vive,
Esuli, peregrine, e fuggitive.
Taccio il corso fatai di queste genti ,
E de’ suoi >ari casi il lungo giro;
Per quanti forluncvoli accidenti
In Germania passar con Marcomiro;
Come di Marcomiro I discendenti
Nel gallico terrai si stabilirò,
Dappoiché Ferraniondo al mondo venne ,
Clic dello scettro il primo onor vi tenne.
Né fin d’ uopo additarti ad uno ad uno
Di quest' ampia miniera i gran monarchi.
E le palme , c le spoglie , c di ciascuno
L’ eccelse imprese, e gli onorati incarchi.
La folta selva degli eroi , elio aduno
Consenti pur die brevemente io i archi,
E scelga sol del numero eli’ io dico.
Col degno figlio il valoroso Enrico.
Volgi la vista ove il mio dito accenna ,
E la lega vedrai T insegne sciorre,
E quasi armata, ed animata Ardcnna,
Tre foreste di lance in un raccorre.
Ma d’ altra parte il paladin di Senna
Vedile pochi c scelti a fronte opporre.
Vedi con quanto ardire oltre Garona
Fa le truppe marciar contro Peroni.
Montagna, die del del tocchi i con-
fini ,
Selva d'antiche, e condensate piante.
Fiume die d’ alta rupe in giù mini,
Tempesta in nembo rapido c sonante.
Neve indurata in freddi gioghi alpini ,
Fiamma eh’ Euro alle stelle erga fumante.
Mar, cielo , inferno all* animosa spada
Forano agcvol guado, c piana strada.
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ADONE. 65
Guerrlcr , destrieri atterra , armi , sten-
dardi
Spezza , e sprezzando gli urti , apre le stra-
Nembi di sassi , grandini di dardi , [de.
Turbini d’ aste, fulmini di spade
Piovongli sopra, ed ri dei più gagliardi
Soslien gl’ incontri , agl' impeti non cade ,
Nè stanco posa , nè ferito langue ,
Fatto scoglio di ferro in mar di sangue.
T ulto del sangue ostil molle , e vermiglio
Abbatte, impiaga , uccide , ovunque toc-
chi.
Vcdil v ibrando a prova il ferro , c li ciglio,
Ferir col brando, c spaventar con gli oc-
Sc altri talor nell’ orrido scompiglio [chi.
SI rivolge a mirar quai colpi ei scocchi ,
Dal gnardoè pria , clic dalla spada ucciso ,
E citi fogge la man non campa il > iso.
Olii gli contenderà l’ alto diadema.
Se un oste tal d’ ogni poter disarma?
Nè sol dappresso il liodano ne trema.
Ma fa da iungc impallidir la Parma.
Ecco del Tago la speranza estrema,
li signor degli Allohrogi clic s' arma.
Ecco clic in prova al paragon concorre
Con l’ italico Achille il gallo Ettorrc.
Odi Parigi i fieri tuoni , e vedi
Quanti Pirata man fulmini avventa?
Deli clic pensi ? o clic fai ? perchè non cedi ?
Già co’ giganti suol Flcgra paventa.
Stendi stendi le paline, c pietà chiedi,
E P auree chiavi al regio piè presenta.
Stolta sei ben se altro pcnsicr li move,
Cosi si vince sol l’ ira di Giove.
Vedilo entrar nelle famose mura ,
Ed occupar le mai difese porte.
Van con la fuga cieca , c mal scruta
Declinando il furor del braccio forte,
L’ Ignohil pianto, c la pietica paura;
Chi non fugge da lui segue la morte.
Battuto dal timor cade il consiglio,
E I’ ordine confuso è dal periglio.
Eccolo aitili, eli' è con applauso eletto
De' Galli alteri a governare il freno.
Nè studia quivi con tiranno a (Tetto
Beni usurpati accumularsi in seno.
Con larga man , con gioviale aspetto [no.
Versa d’ oro , ov’ è d’ uopo , il grembo pie-
fi d' or in or regnando altrui più scopre
Generosi pcnsicr , magnanim' opre.
Non vi ha più loco ambizione ingorda ,
Non più stolto furor, discordia fiera.
Non vi ha prudenza cieca , o pietà sorda ,
Pace , e giustizia in quell’ impero impera.
Sa far ( si ben le repugnanze accorda )
Autunno germogliar di Primavera,
Mentre fra gli aurei gigli a Senna in riva
Pianta dopo la palma anco I' oliva.
Virtù quanto è maggior, tanto è più spcs-
Dell' invidia maligna esposta ai danni , [so
La qual suol quasi a lei far quell’ (stesso.
Che il tarlo ai legni, e la tignuola ai panni.
Qual ombra, che va sempre al corpo ap-
presso ,
La perseguita ognor con vari affanni.
Mason gli oltraggi suoi, che olTendon poco,
Lime del ferro, e mantici dei foco.
Mira il (lorde’ migliori, al cui graniume
L’ altrui sciocco livor divicn farfalla ,
Mercè di quel valor , clic per costume
Quanto si attornia più, più sorge a galla ,
Malgrado di chi nocergli presume.
Ai pesi è palma , alle percosse è palla ;
Onde dì novo onor doppiando luce
È fatto inclito re d' inclito duce.
Del guerrier forte, 1 cui gran pregj esal-
Fia tale c tanta la sublime altezza , [lo
Glie come Olimpo olirà le nubi in alto
Non tenie i venti , e I fulmini disprezza ,
Così d’ Invidia , oppur d’ insidia assalto
Danneggiar non potrà tanta grandezza ,
Anzi ogni offesa, ed ogni ingiuria loro
Sarà soffio alla fiamma, e fiamma all' oro.
Se non eli' lo veggio di furord' Inferno
Di una furia terrena il petto acceso,
E punto dalle vipere d’ Averno
L'n cor malvagio a perfid’ opra inteso.
Non vedi là , conte colui , clic a scherno
Prese eserciti armali , a terra ha steso
Mosso da folle , c temeraria mano
Con un colpo crudel ferro villano?
Quando all' alte sperameli) sen conrei te
Tenendo il mondo già tutto converso.
Cinto d’armi forbite, c genti elette
Spaventa il Moro , ed atterrisce il Perso,
E gli appresta fortuna, c gli promette
Lo scettro universal dell’ universo,
Pria che egli vada a trionfar d' altrui ,
Viro Morte iniqua a trionfar di lui.
Vansi le Virtù tutte a seppellire
Nel sepolcro, chechiudeil sol de’ Franchi,
Salvo la Fama, che non vuol morire.
Perchè alle glorie sue vita non manchi ;
E come al caso orribile a ridire
1 suoi lant’ occhi lagrimando ita slancili ,
Cosi per farlo ancor sempre immortale
66 PORMI
Si apparecchia a stancar le lingue , c 1* ale.
Ma che ? Se da colei, clic vince il tutto ,
È vinto alfine il sempre invitto Enrico ,
L'alto onor dc’Borbon quasi distrutto
In parte a ristorar vien Lodovico,
Che da si degno stipite produtto.
Aggiunge gloria al gran lignaggio amico,
E sotto l’ombra del materno stelo
Alza felice i verdi rami al cielo.
Or mi volgo colà , dove Baiona
Smalta di gigli i fortunali lidi.
Veggio superbo il mar che s’ incorona
Di gemme , e d* or , qual mai più ricco il
Già già l’arena sua tutta risona [vidi.
Di lieti bombi , c di festivi gridi.
Veggio per Tonde placide e tranquille
Sfavillar lampi , c lampeggiar faville.
Nè T indico oceano orientale
Tante aduna nel seti barbare spoglie :
Nè lo stellato elei cumulo tale
Di bellezze , e di lumi in fronte accoglie.
0 spettacol gentil, pompa reale,
0 ben nato consorte , o degna moglie '
Qual concorso di regi , c di rei ne
Scende a felicitar Tacque marine ! [mostro,
Risguarda in mezzo al fiume, ov* io li
Vedrai colonne eburnee , aurei sostegni
Con un gran sovraciel di lucid* ostro
Far ricca tenda a un’ isola di legni , [stro
Che fianco a fianco aggiunti, c rostro a ro-
Porgono il nobil cambio ai duo gran re-
gni.
Mentre prendono , c dan Spagna a Parigi
Lisabelta a Filippo, Anna a Luigi.
Ma vedi opporsi agl’ imenei felici
Suddite al Callo, e ribellanti schiere,
E coprir di Guascogna i campi aprici
Quasi dense boscaglie, armi guerriere.
Quinci, e quindi avversarie, e protettrici
Spiegan Guisa, c Comi è bande, e bandiere.
Ma del figlio d’Enrico il novo Enrico
Si mostra sì , non è però nemico.
L’uno è colui, che sotto ha quel destrie-
Baio di pelo , itallan di razza. [ro
Di tre vaghi aironi orna il cimiero,
E di croci vermiglie elmo , e corazza.
Benché misto di bigio abbia il crin nero ,
Gli agi abbandona, ed esce armato in piaz-
E carco in un d’ esperienza, e d’ anni, [za,
Torna di Marte ai già dismessi affanni.
L’altro è quei piùlontan,che lacampa-
Scorre di ferro, e d’or grave lucente, [gna
1 sul verde degli anni , e l’ accompagna l
EROICI.
| Fiera , e di novità cupida gente.
! Ila nello scudo ì gigli , c di Brettagna
(Cavalca ubero un corridor possente,
E tien dal fianco attraversata al tergo
Una banda d’ azzurro in sull’ usbergo.
Già già numero immenso ingombra U
Di tende annate, e di trabacche tese, [piano
Piagne disfalle il misero Aquilano
K le messi , c le moli al bel paese.
Già tinto il giglio d’or di sangue umano,
(ìlio è pure ( ahi ferità ! ) sangue francese ,
Sembra quel fior, che del suo re trafitto
Nelle foglie purpuree il nome ha scritto.
Gallia infelice , ahi qual s'appiglia, ahi
Nelle viscere tue morbo intestino ! [quale
Rode il tuo se n profondo interno male
Di domestico losco c cittadino.
Pugnai) discordi umori in corpo L'ale
Sì eh’ io preveggio il tuo morir vicino ;
Ed al tuo scampo ogni opra , ogni arte è
Se Medica pietà non li risana. [vana,
Pon colà mente alla gran donna d’Arno
Con qual valor la sua ragion difende.
Nò con petto tremante , o viso scarno
Fra tante cure sue posa mai prende.
Vorrebbe (e il tenta ben, ma il tenta indar-
Senza ferro estirpar le teste orrende, [no)
Le teste di quell’ idra empia ed immonda.
Di veleno infemal sempre feconda.
Che non fa per troncarle ? ecco pospone
Alle pubbliche cose il ben privato ,
Ed all'impeto oslil la vita espone
Per salvar del gran pegno il dubbio stato.
Ad accordo venir pur si dispone ,
E sospende tra T ire il braccio armato ,
Purché il furor s’ acqueti , e cessi quella
D' orgoglio insano aquilonar procella.
Ma quando alfin la gran tempesta scorge.
Che T aria offusca , e il mar conturba e
E che Tonda terribile più sorge, [mesce,
E che il vento implacabile più cresce,
Al l>cn saldo timon la destra porge.
Drizzasi al polo , e di cammin non esce.
Or con forza reggendo, or con Ingegno
Tra tanti flutti il travagliato legno.
Fissa dritto colà meco lo sguardo ,
Dove T ampia riviera il passo serra.
Quivi campeggia il gran campion Guisar-
Contro cui non si tien torre, nè terra, [do,
E par che dica intrepido e gagliardo ,
Chi la pace ricusa , abbia la guerra ;
E con prodezza alla baldanza eguale
Dell’ avversario i miglior forti assale.
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ADONE.
L* esercito reai cauto provvede [stanca
Di genti, c d’armi, e non s’ allenta , o
Per eseguir quanto giovevol crede,
0 necessario alla Corona franca.
0 senza esempio incomparabil fede, [ca,
Quando ai casi opportuni ogni altro man-
Sol questi al par delle più forti mura
Mostra petto costante , alma serura.
Fa gran levate di cavalli e fanti.
Che può contro costor V oste nemica ;
Gente miglior non vide il Sol tra quanti
Qnser spada giammai , vestir lorica.
Non sanno in guerra indomiti e costanti
0 temer rìschio , o ricusar lalica.
Usi in ogni stagion con l’armi grevi
Bere i sudori , e calpestar le nevi.
0 qual fervor di Marte, o qual già tocca
Al re crescente il cor foco d’ardire!
Brama di gir tra’ folgori , che scocca
Piu d’ un cavo metallo , a sfogar l’ ire.
Ma dappoiché non può là dove fiocca
La tempesta del sangue , in pugna uscire,
Vassenc o caccia esercitando, o giostra,
Che una effigie di guerra almen gli mostra.
Cosi leon dalla mammella irsuta
Uso ancora a poppar cibi novelli ,
Tosto che l’ unghia al piò sente cresciuta ,
Alla bocca le zanne, al collo i velli ,
Già la rupe natia sdegna e rifiuta ,
La lana angusta , e le vivande imbelli ;
Già segue là tra le cornute squadre
Per le gelide selve il biondo padre.
Ma quella Dea (ch’altro che Dea non deve
Dirsi colei, che a dii in’ opre aspira)
Smorza intanto quel foco , e non 1* è greve
Per la comun salute il placar l’ ira.
1 congiurati principi riceve,
E l'accampato esercito ritira.
Ed al popol fellone c contumace
Perdonando il fallir , dona la pace.
Ecco d’ astio privato ancor bollire
De’ duci islessi gli animi inquieti ,
E in stretta lega ammutinati ordire
Di novelle congiure occulte reti.
Ecco l’accorto re viene a scoprire
Di quel trattato i taciti secreti,
E da' sospetti d’ogni oltraggio indegno
Con la prigione altrui libera il regno.
Poiché 11 pensier del macchinalo danno
Vano riesce, e d'ognl effetto voto,
Del capo afflitto le reliquie vanno
Qual polve sparsa allo spirar di Nolo.
Ma per nove cagion pur anco fanno
Novo tra lor sedizioso moto ;
Eppur con nove forze, e genti nove
La regia armata a' danni lor si rnove.
Fuor de’ materni imporj intanto uscito
Passa il re novo a possedere il trono.
Da cui pria calcitrante, c poi pentito
Chi pur dianzi l’ offese, otticn perdono.
Richiamata è Virtù , Marte sbandito
Per quell’ allo donzel , di cui ragiono,
L’alto donzel, che sostener non pavé
Con si tenera man scettro si grave.
Il Tamigi , il Danubio , il Iteti , il Reno
L’ama, il teme, l’ammira anco da lunge,
Anzi fin nell’ italico terreno
A dar le leggi col gran nome giunge.
E se pur di vederne espresso appieno
Un degno esempio alcun desio li punge ,
Risguarda in riva al Pò, come si face
Arbitro della guerra, c della pace.
Io dico , ove tra il Pò , che non lontano
Nasce, e la Dora, c il Tanaro risiede
Il bel paese, al cui fecondo piano
La montagna del ferro il nome diede.
Vedrai Savoia con armala mano.
Che due cose in un punto a Mau toa chiede,
Il pegno della picciola nipote,
E de’ ronfio la patteggiata dote.
Vedi di Cadmo il successor, che viene
In campo a por le sue ragioni auliche,
E perchè l’una nega, e l’altra tiene,
Case unite in amor toman nemiche.
Forse nutrisci , o Mincio , entre le vene
Il seme ancor delle guerriere spiche ,
Poiché veggio dal sen della tua terra
Pullular tuttavia germi dì guerra?
Veder puoi di Torin 1* invitto duce.
Cui non ha Roma , o Macedonia eguale ,
Che carriaggi , c salmerie conduce
Con varie sovra lor macchine , e scale.
Su lo spuntar della diurna luce
A Trino arriva, c la gran porta assale.
Vedi stuol piemontese, e savoiardo
Quivi attaccar l’espugnator pettardo.
Ecco rollo 11 rastei , passato il ponte.
Non però senza sangue , e senza morti,
Le genti alloggia all’ alta rocca a fronte ,
Prende i quarller più vantaggiosi e forti ,
Manda la valle ad appianar col monte,
I picconieri , c l manovali accorti ,
Mette i passi a spedir scoscesi e scabri
Con vanghe, e zappe, e guastadori, e fabrl.
Fa con gabbie , e trincee steccar dintor-
De’ miglior posti 1 più securi sili ; [ no
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68 POEMI
Col sembiante rcal vergogna c scorno
Accresce ai vili, ed animo agli ardili.
Par fiamma, o lampo, or parte, or fa ritor-
Cercando ove conforti, cd ove aiti , [no
Mentre il camion, che fulminando scoppia,
Nel rivcllin la batteria raddoppia.
Ed egli in un co' generosi figli
Studia, come talor meglio si balla,
Sempre occupando infra i maggior perigli
La prima entrala, c V ultima ritratta.
Convicn, che pur di ceder si consigli
La terra alfin per non restar disfatta,
Ed apre al \incitor, clic l’ assecura
Dalla preda, dal ferro, c dall' arsura.
Moncaho a un tempo espugna anco c
conquista;
Ma chi può qui vietar che non si rubo?
Va il tutto a sacco. 0 qual confusa e mista
Scorgo di fumo , c polve oscura nube!
E se pari l’udir fusse alla vista,
Risonar v'udirei timpani, c tube.
Rendersi i difensor già veder panni,
Salve le vite con gli arnesi, e l'armi.
Pur nell'Alba inedesma Alba è sorpresa,
Eppur dalle rapine oppressa laugue.
Il miser ciltadin non ha difesa
Per doglia afilitto, c per paura esangue.
Va il soldato, ove il trae fra l' Ire accesa
Fame d’ or, sete d* or più clic di sangue.
Suscita l’oro, eli’ è sotterra accolto,
E seppellisce poi chi l’ ha sepolto, [nisce
Di buon presidio il gran guerrier for-
Le prese piazze, ed ecco il campo ha mos-
Nova milizia assolda, e ingagliardisce [so.
DI gente elvezia, e valesana il grosso.
Ecco della città, che Impallidisce
Là tra il Delfio, c la Nizza , il muro ha
Ecco a difesa del signor di Manto [scosso.
11 vicino Spagnol moversi intanto.
Per reverenza dell’ insegne iberc
Toglie a Nizza l’assedio, c si ritragga.
Quindi van di cavalli armate schiere
D’Incisa, e d* Acqui a disertar le piagge.
Tragedia miserabile a vedere
Le culle vigne divenir selvagge,
E dal furor del foco, e delle spade
Abbattuti I villaggi, arse le biade.
Trema Casale; a temprar armi intesi
Sudano I fabri alle fucine ardenti.
L’acciar manca a tant* uopo , onde son
Mille dagli ozi lor ferri innocenti, [presi
Rozzi non solo , c villarecci arnesi ,
Ma cittadini artefici slromcnti
£IlOKCI.
Forma cangiano, cd uso , e far nc vedi
Elmi , c scudi , aste , cd azze , c spade , e
spiedi.
Il vomere già curvo, or fatto acuto,
A bellona donato, a Ceree tolto,
Su la sonante incudine battuto,
D'aratore in guerrier vedi rivolto.
L’antico agricoltor rastro forcuto,
Nel fango, e nella ruggine sepolto,
Vestendo di splendor la viltà prima,
Ringiovcnisce al foco, ed alla lima.
Intanto e quinci e quindi ecco spediti
Vanno, c vengono ognor corrieri, e messi.
Clic il buon re , eh’ io dicca , vuol che so*
pili
Sieuo 1 contrasti , c la gran pugna cessi ;
Ed acciocché gli afTar di tante liti
In non sospetta man restin rimessi ,
Ai deputali imperlali, e regj
Fa consegnar della vittoria I pregj.
S'induce alfin, capitolati I patti.
L’eroe dell’ Alpi a disarmar la destra,
E dei defilnitor de* gran contratti
Tra le mani il deposito sequestra.
Ma (piai rio sacrilegio è che non tratti
L* empia discordia d’ogni mal maestra?
Ecco da capo al rinnovar dell’ anno
Novi interessi a nove risse il iranno.
Tornano a scorrer 1’ armi, ove ancor
La prateria sì desolata c rasa , [ stassi
Che nc stillano pianto, c sangue i sassi.
Poiché fabbrica in pié non v’é cimasa.
Né resta agli abitanti afflitti c lassi
Villa, borgo, poder, castello, o casa.
Già s' appresta la guerra , c già la tromba
Altri chiama alla gloria, altri alla tomba.
Colui, clt’é primo , e la divisa ha nera,
E sull' usbergo bruii bianca la croce
(Dcn il conosco alla sembianza altera),
È Carlo, il cor magnanimo e feroce.
Di corno in corno, c d’ una in altra schiera
Il volo impenna al corridor veloce.
Per tutto a tutti assiste, c il suo valore
Intelletto è del campo, anima, c core.
Spoglia di grosso, c mal curato panno,
Lacerala da lance, c da quadretta,
L' armi gli copre, e fregio altro non hanno.
Nè vuol tanto valor vesta più bella.
Spada , splendido don del re britanno ,
Cinge, nè v’ha ricchezza eguale a quella.
Ricca , ma più talor suo pregio accresce,
Chè i rubiti tra i diamanti il sangue mesce.
Mira colà , dove distende e sporge
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ADONE. C9
Asti Terso Aquilon l’ antiche mura.
Poco lungo di fuor vedrai clic sorge
lTn picclol colle in mezzo alla pianura.
Quindi (fuor clic la testa) armato ci scorge
Le classi tutte, c li suo poter misura.
Quindi del campo ili generai rassegna
Rivede ogni guerricr , nota ogn' insegna.
Quasi pastor, che le lanose gregge
Con la proiida verga a pasco adduca.
Con leggiadre ordinanze altrui dà legge
Il coraggioso, il bellicoso duca.
Per mostrar quivi a chi I’ .infrena c regge
Come di ferro, e di valor riluca ,
Spiega ogni stuol vessilli , e gonfaloni ,
Gonfia stendardi, e sventola pennoni.
Quanto d'Insubria il bel confin Circoli-
Fin sotto le ligustiche pendici , [da
Quanto di Sesia, e lìormia irriga l’onda
Voto riman di turbe abitatrici.
Quei , che nella vallea cupa e profonda
Soggioman del Monviso alle radici
Vengonvl , e di Provenza , e di Narbona
Quei , che bevon Durenza , isara, c Sona.
Ni pur d'Augusla solo , c di Lucerna
Le valli incultc, e le montagne algenti.
E dagli aspri cantoni Agauno , e Rema
Mandami copia di robuste genti;
Ma giù dall' Alpi , ove mai sempre venia ,
V inondan quasi rapidi torrenti
Per le vie di Bernardo , e di Gebenna
Quei, che lasciano ancor Ligerl, e Senna.
Un che con armi d' or va seco al paro ,
È l'Aldighirra, il marescial temuto,
Che sotto giogo di pesante acciaro
Doma il corpo mgoso, e li crin canuto.
Ecco di Damian l’eccidio amaro.
Da' due franchi guerricr preso e battuto,
Ed ecco d' Alba la seconda scossa.
Citi fia, die impeto tanto afircnar possa?
Pon mente a quel cimirr,chccon tre ci-
Di bianca piuma si rincrespa al vento, [me
E di Vittorio, il principe sublime.
Del Piemonte alta speme, allo ornamento.
Ben l’ interno valor negli atti esprime ,
Ha di latte il destrier, l’armi d'argento,
E d’un aureo monll, che al petto scende,
Groppo misterioso al collo appende.
Vedi con quanto ardire, c in che fier
Inaspettato a Messeran s' accampa, [atto
E giunto a Cravacor quasi in un tratto
Di mina mortai segni vi stampa.
Gii questo, e quel, poiché del giusto patto
Non fur contenti, in vive fiamme avvampa.
Gii d' ambedue con estcrminio duro
Spianato è il forte, c smantellato il muro.
Vuoi veder un, che nato a grandi impre-
D' emular il gran padre s'afTaliea ? [se ,
Mira Tommaso, il giovane cortese.
Che tinta di sanguigno ha la lorica,
E il cuoio del leon sovra l'arnese
Porta , dell' avo Alcide insegna antica.
Di seta Ila i velli, c con sottil lavoro
Mostra il ceffo d'argento, el' unghie d’oro.
Vedilo in dubbia c perigliosa mischia
Passar tra mille picche, e mille spade.
Già dal volante fulmine, che fischia.
Trafitto 11 corridor sotto gli cade.
Ma ne’ casi maggior vieppiù s’arrischia
Quel cor, clic col valor vince l’clade,
E picn d'ardir più generoso cd alto
Preso novo destrier, torna all’ assalto.
Miralo poi, mentre il maggior fratello
Con gran guasto di morti , e di prigioni
Itompe il soccorso, e il capitan di quello
Uccide, che confuso è tra' pedoni ,
Della cavalleria giunto al drappello
Torre i regj stendardi a due campioni ,
Indi mandarli per eterno esempio
D’alta prodezza ad appiccar nel tempio.
Solo il gran Filiberto altrove intanto
Dubbioso speltator, stassi in disparte.
Ma il buon Maurizio con purpureo manto
Regge il paterno scettro in altra parte ,
E l' alte leggi del governo santo
Con giusta lance ai popoli comparte.
Talor pio cacciatore al fidi cani
Del devoto Amedeo dispensa i pani.
0 se mai prenderà, Tifi celeste.
Il gran timon della beata nave.
Da quai scogli sccura , a quai tempeste
Sottratta , correrà calma soave !
Già la vcgg'lo per quelle rive e queste
Portar, nov’Argo, di gran merci grave,
Scorta da dlvln Zollìro secondo,
li vello d'oro a vestir d’oro il mondo.
Ma vedi or come freme , e come ferve
Contro costoro il fior d'Italia tutta.
Genti all' Ibero o tributarie, o serve,
Gioventù ben armata, c meglio instrutta.
Ben a tante, e si fiere armi , e caterve.
Si oppon l’inclito Estense, c le ributta.
Aitili pur all’ esercito , che passa,
Libero il cammin cede, e il varco lassa.
Passali l'ardito schiere, e di Milano
Il prefetto maggior tra’ suoi 1’ accoglie.
Eccolo là sovra un corrente ispano,
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70 POEMI
Che l’ insegne reali all'aura scioglie.
Il baston generai di capitano
Tlen nella destra , c veste oscure spoglie.
Mira poi come in un feroci c vaghi
S'arman dall* altro lato i gran Gonzaghi.
Quei, eh’ ha d* un verde scuro a flocco a
fiocco
La sopravesla, è di Niverse il pregio.
Vedi un che ha d’ or lo scudo , c d’ or lo
stocco ,
Quegli è Vincenzo U giovinetto egregio.
L* altro , che splende di lucente cocco,
E in sembiante ne viene augusto e regio,
Ili posai onci gesto, c venerando,
Quegli (s’io ben comprendo) è Ferdi-
nando.
Lascia l bei studj , c prende a guerra ac-
Dai tranquilli pensier cura diversa, [cinto
Manto che il fior dei lucid* ostri ha tinto,
Fa ricca pompa all’ armatura tersa.
Groppo di gemme in cimali tiene avvinto
Sicché l’omero, e il petto gli attraversa.
Ma pur Tacciar con argentata luce
Sotto la lina porpora traluce.
Vedi il Toledo, che Vercelli affronta,
Già T ha di stretto assedio incoronata.
La città tutta alle difese pronta
Sta sulle mura, e sulle torri armata,
Vedi lo scalator, che su vi monta,
K il cittadino a custodir T entrata;
Ma poiché assai resiste, c si difende.
Per difetto di polve alfin si rende.
In questo mezzo il capitano alpino
I)i far gualdane , e correrie non resta.
1-ilizzano, cd Annone, e il Monferrino
Gon mille piaghe in mille guise infesta.
Oltre il fruito perduto, il contadino
Forza é che paghi or quella taglia, or que-
Corre T altrui licenza, ove T alletta [sta
Desire o di guadagno, o di vendetta.
Così divisa, e dell’ istorie ignote
Svela il fosco tenor lo Dio d’Egitto,
Quando nel terso acciar, tra le cui rote
Quanto creò Natura è circoscritto,
Adone in parti alquanto indi remote
VolgesI e vede un non minor conflitto,
Dove la gente in gran diluvio inonda ,
E diffuso in torrenti il sangue abbonda.
Onde rivolto al messagger volante,
Della bella facondia arguto padre,
Disse, o nunzio divin, tu che sai tante
Meraviglie formar nove e leggiadre,
L’ altra guerra , che fan quindi distante
EROICI.
L’ altre, che altrove io veggio armate
squadre, [cor quivi
Fammi conto, onde avvien , poiché an-
Par si combatta, c corra il sangue in rivi.
Io ti dirò (risponde); altra cagione
Austria in un tempo a guerreggiar sospin-
Con la donna reai del gran leone, [ge
Che per Adria guardar la spada stringe.
Nè pur del sangue di più d’ un squadrone
La terra sola si colora e tinge.
Ma il mare istesso in tionmen fiero assalto
Rosseggia ancor di sanguinoso smalto.
Se gola hai di vederlo , or meco affisa
Dritto le luci, ov’io T affiso e giro.
Egli girolle, c in disusata guisa
Vide ondeggiar lo sferico zaffiro.
Già di Anfitrite a mano a man ravvisa
I v asti alberghi entro l’angusto giro,
E di gran selve di spalmati legni
Popolali rimira 1 salsi regni.
Dalle rive adriatichc, c dal porto
Di Partenope bella alate travi
Già del ferro mordace il dente torto
Spiccano onuste di metalli cavi.
Già quinci e quindi a par a par s’ è scorto
Un naviglio compor di molte navi ,
I.c cui veloci , e vclalrici antenne
Per non segnate vie batton le penne.
Volan per l’alto, e de’ cerulei chiostri
Arano i molli Solchi i curvi abeD.
Rompon co’ remi , e co’ taglienti rostri
Di lle prore ferrate il sen di Teti.
1 fieri armenti dei marini mostri
Fnggono spaventali ai lor secreti.
Sotto l’ombra degli arbori che aduna
Quest* annata, e quell* altra, li mar s’ im-
bruna.
Appena omeri quasi ha il mar bastanti
li peso a sostener di tanti pini.
Appena il vento istesso a gonfiar tanti
Può co’ fiali supplir, candidi lini.
Fugaci olimpi, e vagabondi atlanti.
Alpi correnti, e mobili appennini
Paion, sveltì da terra, e sparsi a nuoto,
I gran vascelli alla grossezza , ai moto.
Veder fra lami affanni in tanta guerra
La vergili bella a Citcrea dispiacque ,
La vergili bella, che s’annida e serra
Tra i lucenti cristalli, ov’ ella nacque;
Ond’ hanno insieme il mar lite, c la terra,
L’una gli offre le rive, e l’altro T acque.
Pugnan con belle ed ambiziose gare
Per averla tra lor Ja terra , e il mare.
ADONE.
Ecco clic gorghi gii di foco, e polve
Vomita il bronzo concavo, e forato.
Scoccando sì , che 1 legni apre e dissolve,
Con fiero bombo il fulmine piombato.
Nebbia d’orror caliginoso involse
E mare, e ciel da questo , e da quel lato.
Sembra ogni canna (tante fiamme spira;
La gola di Tifco, quando si adira.
Già vicnsi ad afferrar poppa con poppa,
Già spron con sprone impetuoso cozza,
Già vola il fuso, c il fil, che Cloto aggroppa
1)1 mille vite a un punto Atropo mozza.
Spada in spada , asta in asta urtando in-
toppa.
L'acqua già ne divien squallida e sozza,
E del sangue comun tinta , somiglia
Del gran golfo Eritreo Tonda vermiglia.
L’ima classe nell’ altra avventa e scaglia
Pregni d'occulto ardor globi, e volumi,
Onde , mentre più stretta è la battaglia ,
Incendio repcntin vien che s’allumi.
Scoppiai! le cave palle , c fan che saglia
Turbo alle stelle di faville , e fumi.
Tra il bitume, e la pece, e il nitro, e il zolfo
Chi sbalza al cicl,chi sdrucciola nel golfo.
Scorre Vulcano, e mormorando rugge,
E tra i ruggiti suoi vibra la lingua.
Gabbie intorno, e castella arde c distrugge,
Nè sa Nettuno ornai , come l'estingua.
L'esca del sangue, che divora e sugge ,
Alimento gli porge , onde s’ impingua.
Vince, trionfa, e con la man rapace
Depreda il tutto imperioso, e sface.
In ben mille piramidi vedresti
Sorger la fiamma dagli ondosi campi ,
Alzar le punte , ed a quel venti, e questi
Crollar le corna, e scaturirne i lampi.
Tra sì fieri spettacoli, e funesti [pi.
Par che la fiamma ondeggi, e l'onda avvam-
par che torni alla lite, onde pria nacque ,
Fatto abisso di foco , il del dell' acque.
L' eccelse poppe , c le merlate rocche
Son cangiate in feretri , c fatte tombe.
Con rauche voci , e con tremende boccile
Romoreggian tamburi , e stridon trombe.
Lanciansi i dardi , e votansi le cocche ,
Yibransi Paste, e rotansi le frombe,
Chi muor trafitto, e chi mal vivo langue,
Solcan laceri busti il proprio sangue.
Tremendi casi , la spietata zuffa
Mesce di ferro In un , d’acqua , e di foco.
Chi nel fondo del pelago s'attuffa,
Chi del sale spumante è fatto gioco ,
Chi galleggia risorto, e il flutto sbuffa,
Chi tenta risalir, ma gli vai poco.
Che ricade ferito, ed a versare
Vien di tepido sangue un mar nel mare.
Strepito di minacce , e di querele ,
Di percosse, e di scoppi i lidi assorda.
Altri con man delle squarciate vele
S’altien sospeso in aria a qualche corda,
Ma giunto dall'arsura empia e crudele
Vassi a precipitar nell’onda ingorda,
Onde con strana e miserabil sorte
Prova quattro clementi in una morte.
Or quando più crudel bolle la guerra ,
E va baccando la discordia stolta,
Quando di qua di là l’onda, e la terra
Tutta è nel sangue , e nell’ orrore involta ;
Ecco del fior Bifronte il tempio serra
Colui clic anco il serrò la prima volta.
Placa gli animi alteri , c fa che cada
L’ ira dai cori , e dalla man la spada.
E per fermar con sempre stabil chiodo
La pace che è gran tempo ita in esigilo,
Cristina bella in sacrosanto nodo
Stringe del re dei monti a) maggior figlio.
Vcdrassl il groppo , onde si gloria Rodo ,
Insieme incatenar la palma, e il giglio.
E tu di gigli allor, non più di rose
Tesserai , Dea d' amor , trecce amorose.
Già d’ età. già di senno , e già cresciuto
Tanto è di forze il giovinetto Augusto,
Clie otlicn dei pari amabile , c temuto
Vanto di buono, c titolo di giusto.
Ma T orgoglio dei principi abbattuto
Sorge ancor più superbo , c più robusto ,
E il bel regno da lor stracciato a brani
Rassomiglia Atteon tra i propri cani.
Movesi all’ armi , c ne va seco armato
Enrico, Il primo fior del regio seme,
Quei , che pur dianzi andò, quasi sdegnato,
Co’ mcn fedeli a collegarsi insieme.
Sdegno fu, ma fu lieve ; or che allo stato
Del gran cugino alto periglio ei teme,
Gli sovvien quando è d’ uopo in tanta im-
Di consiglio, d’ aiuto , c di difesa, [presa
Va con poche armi ad assalir la fronte
Dei nemici dispersi , e li sorprende.
Non vedi Can , che volontarie , e pronte
Gli disserra le porte, e gli si rende?
Vedi di Sei nel sanguinoso ponte
Quante squadre imbelle a terra stende.
Poi per domar la scellerata setta
Ver r estrema Biarne il campo affretta.
Cede lo sfono, e l' impeto nemico,
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POEMI EROICI.
Ingombra Navarrln terrore e gelo.
Gii %’entra, e nell' entrarli il re ch'io
>on meli elle ili lalors' arnia di zelo, [dico,
Rende ai distrutti altari il cullo antico,
A si stesso l'onor, ia gloria al cielo.
Ogni passo è vittoria, ovunque ei vada ,
E vince senza sangue, e senza spada.
Qual uom, che pigro e sonnacchioso
dorme ,
Giace col corpo in sulle piume molli ,
Con l'alma del pensier seguendo Torme,
Varca fiumi , e foreste , e piani , e colli ;
Tal rivolgendo Adon gli occhi alle forme,
Della cui vista ancor non son satolli ,
Non sa se vede, o pargli dì vedere
Tra lumi , ed ombre immagini e chimere.
Mentre eli’ ci pur dei simulacri accolti
Nel mondo crislallin l' opre rimira ,
Del silenzio in tal guisa : nodi hasciolli
I.' alto inventor della celeste lira.
Sappi , che dietro a molti corsi e molti
Del gran pianeta che il quar -l'orbe gira,
Priachcabbia effetto il ver staranno asco-
I.e qui tante da te vedute cose. [se
Ma quei successi, elle ancor chiude il
L’ Ilo voluto mostrar, come presenti, [fato,
Acciocché miri alcun fatto onorato
Delle più degne e gloriose genti.
Fin qui Giove permette, e non m' è dato
Più in Ih scoprirti dei futuri eventi.
Or tempo è da fornir T opra che resta ,
Vedi il Sol , che nel mar china la testa.
Vedi che armata di argentati lampi
Per le campagne del suo elei serene
La stella inferior, che ornai degli ampi
Spazi dell' orizzonte il mezzo tiene.
Mentre dell' aria negli aperti campi
A combatter coi di la notte viene,
Prende aschlerar delle guerriere ardenti
I numerosi eserciti lucenti.
Lungo troppo il cammino, e breve 6 Torà,
Onde convicn sollecitare il passo ,
Per poter, raccorciata ogni dimora,
Tornar per T orme nostre al mondo basso.
Perocché il suo bel lume ha gii l’ Aurora
Due volte acceso, ed altrettante casso
Da che partimmo, e qui (fuorché a felice
Gente immortale) il troppo star non lice.
Cosi Mercurio ; e l'altro allor dintorno
Dovei’ occhio il traea .volgendo il piede.
Le ricche logge dell’ albergo adorno
Di parte in parte a contemplar si diede.
E da clic prese a tramontare il giorno.
Clic Ivi all’ ombra però giammai non cede
Non seppe mai da tal vista levarse
Finché l’altr’Uba in oriente apparse.
la prigione.
CANTO XIII.
ARGOMENTO.
Tenta la maga inran Tarli profane.
Chi fu , che alla tua lingua, o Zoroast ro ,
Concesse in prima autoritl cotanta?
Donde apprese il tuo ingegno ad esser ma—
Dell' arte detestabile, che incanta ? [stro
L’ arte , clic contro ogni possanza d’ astro
Vincer Natura, c dominar si vanta?
E come nonno iniqui carmi c rei
Dell' inferno , cdel ciel sforzar gli Dei ?
Da qual forza fatai, che gli corregge,
0 da qual patto son legali c stretti ?
E necessaria, o volontaria legge,
Che si gli rendo altrui servi e soggetti?
Quasi chi tutto può, chi tutto regge
Tema d’un uom disubbidire ai delti?
E talento, o timor quel che gii move
Tant' opre a far prodigiose c nove?
Deli quante volte delle lievi rote.
Che si volgou si ratto intorno ai poli.
Veduto iia con slupor restarsi immote
Giove T immense c smisurate moli?
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—
ADONE.
Quante viti* egli alle malvage note
Le Lune in cicl moltiplicarsi , c ì Soli ?
Scorrere i tuoni a suo dispetto, e i lampi,
Scotersi il mondo, c titubarne i campi?
Turbasi al suon de' mormorati accenti
L* ordine delle cose , e si confonde.
Nettun senza procelle, c senza venti
Gonfio, 1 lidi del eie] batte con Tonde.
Poi quando più del mar fremon gli armenti
Ritira il piè delle vicine sponde;
E ricurvando in su I' umide fronti
Tornan per T erta i fiumi ai patrù fonti.
Ogni fera più fera, e piu rabbiosa
La sua rabbia addolcisce e disacerba.
Non è icone allier, tigre orgogliosa,
Che non deponga allor T ira superba.
Vomita il ficl la serpe velenosa ,
E 1 livid’orbi suoi stende per P erba;
E smembrata la vipera e divisa
Vive , e rintegra ogni sua parte incisa.
Ma com’ è poi, che i versi abbian potere
Di separare l più congiunti cori?
E il commercio reciproco , e il piacere
Santo impedir de’ maritali amori?
Come dell* alme il libero volere
Anco scaldar d’involontari ardori?
Ed agitar con empie fiamme insane
Di maligno furor le menti umane?
Falsirena aspettò , che piene avesse
Cintia dell’ orbe suo le parti sceme ,
Ed opportuno alfin quel tempo elesse,
Che congiunte avea già le corna estreme.
E veggendo anco in ciel le stelle istesse
Seconde all’arte sua volgersi insieme,
Nel loco usato a celebrar sen venne
De’ sacrilegi suoi P opra solenne.
Sorge nel sen più folto , e più confuso
D’ un bosco antico un solitario altare,
D’ alti cipressi incoronato , e chiuso
Là donde il Sole orientale appare.
Aperto a quella parte, ove ha per uso
Depor la luce , ed attutarsi in mare.
Opaco orror T ingombra , e lo nasconde
Sotto perpetue tenebre di fronde.
Quivi idoletti vari , e simulacri
L’innamorata incantatrice accolse,
E quivi a più color tre veli sacri
Con caratteri e segni Intorno avvolse ;
E poiché a’ membri suoi nove lavacri
D’ un’ acqua fe* , che da tre fonti tolse,
Discinta , e scalza del sinistro piede
Il foco , e P ostia ad apprestar si diede.
Con la casta verbena, il maschio incenso
Le fiamme pria dell’olocausto alluma ,
E di vapor caliginoso e denso
E l’ara, e P aria orribilmente afTuma.
Poi di virlute occulta al nostro senso
Dentro il magico incendio arde e consuma
Mille con falce tronche erbe maligne.
Erbe appena ancor note alle madrigne.
Dello stridulo alloro asperse in esso
Le nere bacche innanzi di recise ,
Della fico selvaggia il latte espresso,
E della felce il seme ella vi mise.
E la radice , eh’ ha comune il sesso
Dell’ cringe spinosa anco v’ intrise,
E fra gli altri velcn , che dentro v’ arse ,
La violenta ippomenc vi sparse.
Arse P erbe , c le piante ad una ad una ,
Sette volte T aliar circonda intorno.
Tre s’inginocchia ad adorar la Luna,
Tre la contrada, ove tramonta il giorno.
D’ una pecora poi lanosa e bruna
Con la manca tenendo il manco corno
Con la destra il coltel , tra i fochi , e i fumi
Trecooto invoca sconosciuti Numi.
E mentrechè di Stigc c Flegctontc
L' occulte Deità per nome appella ,
Versa di nero vino un largo fonte
Infra le corna alla dannata agnella.
Non pria però, che dalla fosca fronte
Di lana un fiocco di sua man non svella,
E che noi gitti entro le bragc ardenti
Quasi primi tributi , e libamenti.
Poscia con ferro acuto apre c ferisce
La gola all' agna , e la trafigge e svena,
E del sangue , che fuor ne scaturisce[na.
Caldo e fumante , un’ampia tazza ha pic-
Con l’estremo del labbro indi il lambisce
Lievemente cosi, che il gusta appena.
Poi con olio , e con mele in copia grande
Alla madre comune in sen lo spande.
Una colomba ancor vaga e lasciva
Uccise di candor simile al latte ,
E poiché quante piume ella vestiva
Tarpate T ebbe a penna a penna e tratte ,
Donolle in cibo a quella fiamma viva
Finché fur tutte in cenere disfatte;
Ma prima le legò nell’ ala manca.
Con rosso fil la calamita bianca.
Ciò fatto, strinse in tre tenaci nodi
Una ciocca di crin , eh* io non so come
Dormendo Adon, con sue sagaci frodi
Gli tolse Idonia dalle bionde chiome.
Sputò tre volle, e in tre diversi modi
Disse l’amante suo chiamando a nome :
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74 POEMI
Resti legato, nò mai più si scioglia
il crudo sprezzator d’ ogni mia doglia.
A sembianza di lui di vergincera
Imrnagin poi misteriosa ammassa,
E con un stecco di mortella nera
Ben aguzzo e pungente il cor le passa.
E mentre appo 1' arsura atroce c lìera
A poco a poco distillar la lassa.
Dice volgendo ilramosccl del mirto:
Cosi foco d’amor strugga il suo spirto.
D’ ippopotamo un core allineila preso,
Nella riva del Mi nato, e nutrito ,
Che della nova Luna ai raggi appeso,
Era alla sua fredd’ ombra inaridito;
E di faville oltracoccnti acceso,
E di spilli acutissimi ferito,
L’ agi La, il move, il trae come piùvolr.
Mormorando tra sè queste parole:
Ecco il cordi colui, eh’ io cotant'amo.
Ecco eh* io gli ho seti’ aghi in mezzo adissi.
Ecco che il tiro a me poi con quest' amo
Già fabbricalo sotto sette eclissi.
Ecco sette carlini) fatti del ramo.
Che già colse mia madre cnlro gli abissi ,
Desti dal sacro mantice ti aggiungo,
E sette volte intorno intorno il pungo.
Da' sacrifici abominandi ed empj
Cessò la fata, e si parti ciò detto.
Perche contro colui, che duri aoempj
Ognor facea del suo piagato petto.
Sperava pur dopo mill’ altri esempi
Di veder nova prova, e novo effetto.
Ma di tante fatiche al vciito spese
Alcun frutto amoroso indarno attese.
E come per magic mai , nè per pianti
Sperar polca rimedio a si gran male ,
Se la Dea degli amori , c degli amanti ,
Che invocava propizia avea rivale ?
Se colei , che ha negli amorosi incanti
Sovrano impero, c potestà fatale,
Avea malconcia delie piaghe istesse ,
In quel eh’ ella chiede», tanto interesse?
Poiché con lungo studio invan compose
Suggelli , e rombi , e turbini , e figure.
Nè seppe mai con queste , ed altre cose
Quelle voglie espugnar rigide e dure.
Tornossi in voci amare, e dolorose
Con Idouia a lagnar di sue sventure.
Lassa dice a le) in che mal puuto il guardo
Volsi da prima a que' bei raggi , ond’ ardo.
Per mia fatai (cred’ lo) morte e ruina
Vidi tanta beltà non più veduta.
Inim di quanto il del quaggiù destina
EROICI.
Difficilmente il gran tenor si muta.
Chi può per molte scosse in balza alpina
Ben robusta piegar quercia barbuta?
Quercia Ch'Austro prendendo e Borea a
scherno ,
Tocca col capo il del ,col piè l’inferno?
Amo statua di neve, anzi di pietra.
Pertinace rigor, fermo desio.
Egli gela alle fiamme , ai pianti impetra.
Nè di teglia cangiar mi loglio aneli’ io.
Io non mi pento , ei non però si spetra ,
Guerreggia 1’ odio suo con 1* amor mio.
L’ uno in esser nemico , c 1’ altra amante
Non so chi di noi duo sia più costante.
Veggio moversi i monti anco a’ miei ver-
Non ammollirsi un' animato sasso. [si,
Talor dei fiumi indietro il piè conversi ,
Fermar non so d' un fuggitivo il passo.
1 mostri umiliai fieri e perversi ,
Nè di un altier garzon l’ animo abbasso.
Da me l' inferno i stesso è tinto e domo ,
Nè son possente a soggiogare un uomo.
Semino in onda, e fabbrico in arena.
Persuado lo scoglio , e prego il vento.
All’aspe egizio, cd alla tigre armena
Scopro la piaga mia , narro il tormento,
idol crude!, di cui mi lice appena
Sol la vista goder, di placar lento.
Se far potesse a questa alcun riparo ,
Forse di questa ancor mi fora avaro.
Pregando, amando, lagrimando (ahi
Ottener I* impossibile credei. [ folk ! )
Fare una selce impenelrabil molle
Piuttosto che quel core, io spererei.
Quanto più foco in me vede che bolle.
Tanto schernisce più gli affanni miei.
Eppur volta ad amar bellezze ingrate.
Di chi mi fa doler prendo pietatc.
Nè per tante repulse io lascio ancora
Di correr dietro all’ ostinate voglie.
Ogni altra donna alita , che s' innamora ,
Sebbene il morso all’onestà discioglie.
Pur sfogando il marlir, che l’addolora.
Premio della vergogna, il piacer coglie.
Io senza alcun diletto averne tolto
Sol della propria infamia il frutto ho coito.
Vendo la libertà, compro il dolore.
Serva son di colui , che in career chiudo,
E pago a prezzo d’ anima , e di core
Pianti, c sospir, che il fanno oguor più cru-
Da così caldo , e così saldo amore [ do.
Qual mai potrebbe adamantino scudo.
So non solo quel petto andar securo ,
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ADONE. 75
Altrui tenero forse, a me sì duro?
0 beata colei, che il cor gl’impiaga.
Felici quei begli occhi , onde arde tanto.
Quanto o quanto sarei d’intender vaga
Chi sia costei, che ha di tal grazia il vanto !
Ma di pietra per certo , o d’erba maga
Egli in sè cela alcun possente incanto ,
Poiché giovan sì poco a far che mi ami
Maiìe tenaci , o magici legami.
Lungamente sospeso ( Idonia dice )
Tenuto ha questo dubbio il mìo pensiero.
Ma tu che badi ? ed a cui meglio lìce
Spiar di un tal secreto il fatto intero?
Potrai ben tu de’ fati esploratrice
Sforzar gli abissi a confessarti il vero.
Tu, che sì dotta sei nell’ arti ascose,
E sai cotanto dell’ oscure cose.
Qui tace, ed ella allor, che ben possiede
Quante ha Tessaglia incognite dottrine,
Non già di Dolo i tripodi richiede,
Non di Delfo ricorre alle cortine ,
Non dì Dodona ai sacri boschi il piede
Volge per supplicar querce indovine ,
Non a qualunque oracolo facondo
Abbia più chiaro, e più famoso il mondo.
Non il moto, e il color cura degli csti
Nell’ ostie investigar dei sacrifici.
Nè degli augei le cal giocondi , o mesti
Secondo il volo, interpretar gii auspirj,
Nè destri , o manchi 1 fulmini celesti
Osserva , o sieno Infausti , o sien felici ,
Nè specolando va le stelle , e i cieli ,
Ma più tacite cose, e più crudeli.
Notte era, allor che dal diurno moto
Ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo,
L'onde giacean, tacean Zefliro, e Noto,
E cedeva il quadrante all’oriuclo,
Sopìa l'uom la fatica. il pesce il nuoto.
La fera il corso, e l’ augelletto il volo,
Aspettando il tornar del novo lume
0 tra V alghe, o tra i rami, o sulle piume.
Quand* ella prese a proferir possenti
Con lungo mormorio carmi, c parole;
E bisbigliando i suoi profani accenti ,
Atti a fermar nel maggior corso il Sole,
Il corpo 5* impinguò di quegli unguenti ,
Onde volar, qual pipistrello suole,
E per la cui virtù spesso si è fatta
Cagna, lupa, leonza, istrice, c gatta, [ro,
Sovra un monton vieppiù che corvo nc-
Che la lana , eia barba ha folti e lunga.
Monta , ed acconcio ad uso di destriero ,
Vuol che in brev' ora a Babilonia giunga.
Quel piu che alato folgore leggiero
Per 1* aria va , senza che sprone 11 punga.
Ella alle corna attiensl, e non le lassa,
Cavalca 1 nembi , e i turbini trapassa.
Nata tra quel soldano era pur dianzi ,
E il re d’ Assiria aspra discordia e dura ,
E venuti a giornata il giorno innanzi ,
Colma di morti avean la gran pianura.
Giacean de’ busti i non curati avanzi
Sparsi sossopra in orrida mistura,
E gonfio con le corna insanguinate
A lavarsi nel mar correa l’ Eufrate.
Le campagne dintorno, e le foreste
Son di tronchi insepolti ingombre e piene»
Veggionsi tutte in quelle parti e in queste
Porporeggiar le spaziose arene ,
Fatte d’esca crudel mense funeste
A lupi ingordi , ed altre fere oscene ,
Che a monte a monte accumulate in terra
Le reliquie a rapir van della guerra.
Ma dalla maga, che dal del discende,
Son le delìzie lor turbate e rotte.
Onde lasdate le vivande orrende ,
Fuggon digiune, c timide alle grotte.
Ella di fosche nubi, e fosche bende.
Che raddoppiano tenebre alla notte,
Avvolta il capo, inviluppata i crini.
Di quel tragico pian scorre i confini.
Per que' campi di sangue umidi e tinti
Vassene col favor dell' ombra cheta,
E la confuslon di tanti estinti
Volge e rivolge tacita e secreta ;
E mentre de’ cadaveri indistinti,
A cui l’onor del tumulo si vieta,
Calcando va le sanguinose membra)
Oscura cosa , c formidabil sembra.
Non so se in vista si tremenda e rea
Là nella notte più profonda e muta
Per la spiaggia di Coleo uscir Medea
1/ erbe sacre a raccor fu mai veduta ,
Quand’ ella già rinnovellar volea
Del padre di Giason l’ età canuta.
Atropo forse sola a lei s’ agguaglia
Qualor d’ alcun mortai lo stame taglia.
Scelse un meschin di quella mischia sol-
Che passato di fresco era di vita. [za ,
Intero il volto, intera avea la strozza.
Ma d’ un troncon nel petto ampia ferita.
Se sia guasto il polmon , se rotta o mozza
Sia l’ aspra arteria , ond’ ha la voce uscita.
Prendendo a perscrutar, trova la maga.
Che ha le viscere intatte , e senza piaga.
Pende il fato da lei di moia uccisi ,
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76 POEMI
Che dell’ alta sentenza in dubbio stanno ,
E qual di tanti dai mortai divisi
Voglia alla luce rivocar, non sanno.
Se vuol tutti annodar gii stami incisi,
Convien che ceda rinfeinal tiranno.
E le leggi dell' Èrebo distrutte.
Benda alle spoglie lor l' anime tutte.
Or del misero corpo , a cui prescritta
L’ ultima linea ancor non era in sorte.
Lubrico Intorno al collo un laccio gitta,
E con groppi tenaci il lega forte.
Indi acciocché più lacera c trafitta
Resti la carne ancor dopo la morte ,
Fin dov’entra nel monte un cupo speco
Su per sassi, e per spine il tira seco.
Fendesi il monte in precipizio , e sotto
Apre la cava rupe antro profondo,
Che arriva a Dite, e discosceso e rotto
Vede I confin dell’ un e l’altro mondo.
Quivi il mesto cadavere è condotto.
Loco sacro per uso al culto immondo ,
Nel cui grembo giammai non s’ introduce
Se non fatta per arte , ombra di luce.
Nel sen , che quasi ancor tepido langue,
Fa nove piaghe allor la man perversa.
Per cui levando il già corrotto sangue ,
Il vivo , e il caldo In vece sua vi versa.
Gli sparge ancora in ogni vena esangue
Di varie cose poi tempra diversa.
Gò che di mostnioso iniqua, o di tristo
Partorisce Natura, entro v’ha misto.
Della Luna la spuma ella vi mesce ,
La bava, quando in rabbia entra il inastino
E il ilei vi mette del minuto pesce.
Che il volo arresta del fugace pino.
Ponvi l'onda del mar quando più cresce,
E di Cariddi il vomito canino,
E dell* unico augello orientale
Il redivivo cenere immortale.
L'incorruttibil cedro, e l’amaranto,
L’ immortai mirra, e il balsamo v* interna ,
La feconda virtù del grano Infranto,
E della fera fertile di Lerna.
Del fegato di Tizio ancor alquanto.
Che sè medesmo rinascendo eterna ,
E del seme del bombice v’ ha messo ,
Verme possente a suscitar sé s esso.
Il ccrebro dell’ aspido vi stilla ,
E la midolla del non nato infante,
E del nido aquilino, onde rapida,
VI pon la pietra gravida e sonante.
Hawl P occhio del lince, e le pupilla
Del basilisco, e del dragon volante,
EROICI.
Dell’ lena la spina, e la membrana
Della cerasta orribile africana.
Le polpe del biscion , clic nel mar Rosso
Guarda la preziosa margherita
Infra I’ altre sostanze , c insieme P osso
Del Ubico chelidra anco vi trita.
La pelle v’ è , eli* ha la cornice addosso
Dopo ben nove secoli di vita;
Nè vi mancan le viscere col sangue
Del cervo alpin, che divorato ha P angue.
Ferri di ceppi , e pezzi di capestri.
Fili arrotati di rasoi taglienti,
Punte d'aguzzi chiodi , c sangui , e mostri
Di donne uccise, e di svenate genti.
De’ fulmini la polve, e degli alpestri
Ghiacci il rigore, c gli aliti de' venti,
E i sudori del Sol, quand’arde luglio
Vi distempra confusi in un mescuglio.
V* aggiunse d'Etna P orride faville.
Di Fiegra I zolfi , e di Cerauno I fumi.
Del gran Cocito le cocenti stille.
Del pigra Asfalto 1 fervidi bitumi ,
K di mill' altri ingredienti c mille
Abominande fece, empj sozzumi.
Infamie, e pesti , onde la maga abbonda.
Incorporò nella mistura immonda.
Poiché tai cose tutte insieme accolte
Nelle fibre, e nel core infuse gli ebbe ,
E dal suo sputo infette altr'crbe molte
Virtuose c mirabili v* accrebbe,
Sovra il corpo incurvossi , e sette volte
Inspirò il fiato a chi risorger debbo.
Al miraeolo estremo alfin s’ accinse,
E il proprio spirto ad animarlo astrinse.
Vestesi pria di tenebrose spoglie.
Poi prende nella man verga nefanda.
Ed alle chiome , clic in sui tergo accoglie ,
Fa d' intrecciate vipere ghirlanda.
Vieppiù clic altra efficace indi discioglie
La fiera voce, che a Pluton comanda,
E move ai detti suoi sommessa e piana
Lingua , che assai discorde é dall' umana.
De' cani imita i queruli latrati.
Ed esprime de’ lupi i rauchi suoni.
Formai gemili orrendi, e gli ululali
Delle strigi notturne, e de’ buboni,
1 fischi de* serpenti infuriali,
Gli spaventosi strepiti de’ tuoni ,
Dell’aeque il pianto, il fremer delle fronde.
Tante voci una voce in sè confonde.
L’ aer puro e scren s’ ingombra c tigne
A quel parlar di repentina eclisse.
Veggionsi lagrirnar stille sanguigne
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ADONE. 77
L’ alte luci del del mobili e fisse ,
Bendò fascia di nubi atre e maligne
Come la terra pur la ricoprisse,
E le vietasse la fraterna vista ,
Della candida Dea la faccia trista.
Dopo i preludi di un susurro interno
Seco pian pian soniiuortuorato alquanto ,
Cominciando a picchiar I* uscio d’Avemo,
In più chiaro tenor distinse il canto.
Tartareo Giove , che del foco eterno
Beggi l’ impero, c dell’ eterno pianto.
Al cui scettro soggiace , al cui diadema
Tutto il volgo dell’ ombre e serve , e trema.
Perscfone triforme, Ecale ombrosa ,
Donna dell’ Orco pallido , e profondo ,
Al più crudo fralel congiunta in sposa
De’ tre monarchi , ond’ è diviso il mondo.
Notte gelida , pigra , c tenebrosa ,
Figlia del Cao confuso ed infecondo,
timida madre del tranquillo Dio,
Dell’orror, del silenzio, e dell'oblio.
Dive fatali , c rigorosi Numi ,
Che sedete a filar i’ umane vite,
E novo stame a chi già chiusi ha i lumi
Per di novo spezzarlo, ancora ordite.
Oocito, e tutti voi perduti fiumi,
Voi clic irrigate la città di Dite.
Dolenti case, antri nemici al Sole,
Aprite il passo all’ alte mie parole :
0 regi , e voi delle malnate genti
Conoscitori , ed arbitri severi ,
Che a giusti , e del fallir degni tormenti
Condannate gli spirti iniqui e neri.
E voi ministre ai miseri noceti ti
Di supplici , di strazj acerbi e fieri ,
Vergini orrende, che gli sligj lidi
Fate sonar di disperati stridi ;
E tu vecchio nocchicr , che altrui fai
A quelle region malvage c crude , [scorta
Solcando l' onda ognor livida e smorta
Della bollente e fetida palude.
E tu vorace can , che in sulla porta
Delia gran reggia , ove ogni mal si chiude ,
Perchè chi v’ entra più non n’ esca mai ,
Contro bocche , e sei luci in guardia stai.
Se voi sovente ne* miei sacri versi
Con labbra pur contaminate invoco ,
Se mai di sangue uman grate v* offersi,
Vittime impure in esecrabil foco.
Se la minugia dei bambin dispersi ,
E dal materno sen tratti di poco,
Posi gli aborti in sulla mensa ria ,
Assistete propizi all'opra mia.
Già rltor non pretendo al regni vostri
Le possedute, c ben dovute prede.
Nè spirto avvezzo a conversar tra mostri
Per lungo tempo , oggi per me si chiede.
Quel che dimando, de’ temuti chiosili
Pose pur dianzi in sulle soglie il piede ,
E di questa vi tal luce serena
Ha quasi i raggi abbandonati appena.
Non nego a Morte sua ragion , nè deggio
Del giusto dritto defraudar Natura.
Sol delle stelle , e non del Sol vi chcggìo
Si conceda a costui piccola usura.
Godan quegli occhi , che velati or veggio
Di caligine cieca , e d’ ombra oscura ,
Poiché per sempre pur chiuder gli deve ,
Di poca luce un’ intervallo breve.
Odi spirito ignudo, anima errante.
Odi , e ritorna al tuo compagno antico.
Solo qual sia l' amor, qual sia 1' amante
Kivela a me del mio crudcl nemico.
Diedi subito al loco, ove eri innante,
Dato che avrai risposta a quant' io dico.
Hi torna alma raminga, e fuggitiva.
Hi vesti il manto , e il tuo consorte avviva.
Ciò detto , non lontan mira , ed ascolta
Del trafitto guerrler l’ombra che geme.
Perchè del carccr primo , onde fu tolta ,
Tra' nodi rientrar paventa e teme.
Enei petto squarciato un’altra volta
Hiabilar dopo 1* cssequie estreme.
Chi fin laggiù ( prorompe) in riva a Lete
Mi turba ancor la misera quiete?
Lasso , echi della spoglia, ond’ io son
carco ,
L’odiato peso a sostener m’ affretta?
Dunque contro il dcstln severo e parco
11 fil tronco a saldar Cloto è costretta?
Deh eh’ io ritorni per l’ombroso varco
Alla requie interrotta or si permetta.
Miser, qual fato sì mi sforza e lega ,
Che di poter morire anco mi nega?
Ch* e! sia sì poco ad ubbidir veloce
La donna spiritai disdegno prende ,
Onde con sferza rigida e feroce
Di viva serpe il morto corpo offende.
Poi con più alla, e più terrlbll voce
Solleva il grido, che sotterra scende,
E penetrando 1 più profondi orrori
Minaeria all* alma rea pene maggiori.
Su su chè tardi ad Informar quest’ ossa?
Qual più forte scongiuro ancora attendi ?
Credi, che nell’abisso, e nella fossa
Non ti sappia arrivar , se mel contendi?
78 POEMI
0 che esprimer que’ nomi or or non possa
laudili, ineffabili, tremendi.
Che venir ti faranno a me davante
Ciò eh’ io t’ Impongo , ad eseguir treman-
Megera, e voi della spietata suora [te?
Suore ben degne, e degne Dee del male.
M’udite? a cui pari* lo? (anta dimora
Dunque vi lìce? e si di me vi cale?
E non venite ? e non traete ancora
Fuor dei penoso baratro infernale
Da serpenti agitata, e da facelle,
L’ alma infelice a riveder le stelle?
Io vi farò delle magion notturne
A forza uscir di scosse, e di flagelli.
VI seguirò per ceneri, e per urne.
Vi scarcerò da’ roghi , e dagli avelli.
Sarete voi si sorde e taciturne ,
Quand* io co’ propri titoli v’appelli?
0 con note più fiere ed esecrande
In vocar deggio pur quel nome grande?
A tai detti ( o prodigio ! ) ecco repente
Il sangue intepidir gelido e duro,
E le vene irrigar d’umor corrente.
Che già pur dianzi irrigidite furo,
Ripidi di spirto, c d'alito vivente
Movesi già l’immobil corpo oscuro.
Già già palpila il petto, ed ogni fibra
Ne* freddi polsi si dibatto e vibra.
I nervi stende a poco a poco , e sorge ,
E comincia ad aprir V egre palpebre.
Torna il calor, ma somministra c porge
Alle guance un color, eh’ è pur funebre.
Pallidezza si fatta in lui si scorge ,
Che somiglia squaEIor si lunga febre;
E con la morte ancor confusa e mista
Giostra la vita , clic pian pian racquìsta.
Di' di' (die* olla allor i per cui si strugge
Colui , per cui mi struggo? alzati , e dillo.
Qual il cor fiamma gli consuma e sugge?
Qual laccio il prese ?e quale strai ferillo?
Dimmi , ond’ avvien , che più m’ aborre c
fogge, [lo?
Quanl’io più il seguo, c più per lui sfavil-
Se fia mai che si muti , e quando , e come
Narra, e dimmi del tutto il loco, e il nome.
Se avverrà , clic tu chiaro il ver mi sco-
Non come fan gli oracoli dubbiosi, [pra,
Degna mercè riceverai dell’opra
In virtù de’ mìei versi imperiosi.
Farò, che più non tornerai di sopra.
Nè più verrà chi rompa i tuoi riposi.
Da chiunque incantar ti vorrà mai
Franco per tutti i secoli sarai.
EROICI.
Cosigli dice , c carme aggiunge a que-
sto,
Pcrcui quant’ ella vuol , saver gli ha dato.
Quei sparge alfine un flebll suono e mesto ,
Articolando in tal favella il fiato: [nesto.
Non io, non già nel mondo empio e fu-
Donde, giunto pur or, son richiamato ,
Delle Parche mirai gli atri secreti.
Nè vi lessi del Fato i gran decreti.
Pur quanto sostener potè il brev’ uso
D’ una fugace e momentanea vita,
Dirò ciò che d’ udirne oggi I aggi uso
Mi fu permesso innanzi alla partita.
Oggi ho di quel, eh’ a tua notizia è chiuso.
Dall’ empia Gelosia l’istoria udita;
Dall’empia Gelosia, furia perversa,
Che con l’ altre talor furie conversa.
Disse, che il bel garzon , eli’ a te si piac-
Echedeli’amor tuo cura non piglia, [que.
Dal re di Cipro è generalo , e nacque
Per fraudo già dell’ impudica figlia.
Ama la bella Dea nata dell’ acque,
Ella solo il protegge , ella il consiglia ;
E sebben or se n' allontana e parte ,
Ama pur tanto lui, che n’odia Marte.
Marte di sdegno acceso , e di furore
Morte già gli minaccia acerba e rea;
Onde se è l’anior tuo sterile amore ,
Infausto anco è 1’ amor di Citerea.
Volger ricusa alle tue fiamme il core.
Perchè fissa vi tieu l’amata Dea.
Poi coiai gemma lo difende c guarda ,
Cb’ esser non può, che d’altro foco egli
arda.
E poiché tu con fiero abuso c rio
Dell’ arti tue mi togli ai regni bassi,
E per un curioso, e van desio
Fai che Stigc di novo a forza io passi ,
Nè men crudel, clic all’ alma, al corpo mio.
Ucciso ancor, d’ uccidermi non lassi ,
Ascolta pur , eh’ lo voglio ora scoprirti
Quei che non intendea prima di dirti.
Permette il giusto ciel per questo scem-
E per r audacia sol del tuo peccato , [pio.
Che osò con strano e non udito esempio
Sforzar Natura, e violare il Fato,
Che non s* adempia inai del tuo cor empio
Il malvagio appetito e scellerato.
Nè te l’amato bene amerà mai ,
Nè tu del bene amato unqua godrai.
Più non diss’ egli , e ciò la maga udito *
Di geloso dispetto ebbra s’accese,
E il busto in negra pira incenerito.
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ADONE. 79
Alfin più di morir non gli contese.
Ritornò pur quel misero ferito
Poiché i terra ricadde , e si distese ,
Mandando l' ombra alle tartaree porte ,
Dopo due site alla seconda morte.
Ma giù si apre il glardin dell' Orizzonte,
Già Glori il elei di fresche rose Infiora ,
Già l’ Oriente il piano intorno, e il monte
D’ ostro, c di luce imporpora ed indora;
E già con 1' Alba a piè , col Giorno in fronte
Sovra un nembo di folgori l' Aurora
Per l’ aperte del del fiorite vie
Ea le stelle fuggir dinanzi al die.
CIIIABRERA.
DELLE GUERRE DE’ GOTI.
CANTO V».
ARGOMENTO.
Steso è Ridolfo al piano , a Flavia ardila
L' alma da] brando di Yitellio è sciolta :
Getuiio cerca Idalia, a cui la vita
Vitellio diè , ma liberiate ha tolta :
Poi da un latin guerrìcr, che sua ferita
Terge nel fiume, ov’ è sua donna ascolta.
L'uno all’altro in amor suoi casi espone,
Notte a Vitellio vincitor s'oppone.
Qual il mostro, eh’ aver mirò Tessaglia
L’ umane membra alle ferine inneste.
Pria che dappresso l’ inimico assaglia ,
Fa col corso tremar monti, c foreste;
Colai a rinfrescar l’aspra battaglia
Venia correndo il cavalicr celeste,
E volgendo la vista ai fier sembianti ,
Slavan da lungo i barbari tremanti.
Ed ci dovunque i torbid’ occhi gira,
Vede il campo d’Italia in fuga, e vinto,
E pur dappresso, e sotto i piè si mira ,
Del sangue amico ogni sentier dipinto.
Allor s’ affretta dal dolor, dall’ ira ,
Alla vendetta, alla vittoria spinto,
Nè prima ’1 corso agl'inimici appressa.
Che la primiera gente in fuga è messa.
Nè spinto in mezzo poi forze nimiche
Men caduche ritrova a suoi furori ,
Che qual fendendo le campagne apriche,
Parte l' aratro languidcttl i fiori ;
0 qual troncar le biancheggianti spiche
Suol mlctitor sotto gli estivi ardori ,
Egli in vendetta degli amici offesi.
Parila l' umane membra , e i duri arnesi.
11 duce allor, che l’infinita gente.
Imperioso alla battaglia guida.
Tutto di sdegno, e di vergogna ardente.
Crolla le tempie , alza le mani , e grida :
0 pur or vincitor, come repente
E eh’ un sol vi disperda 7 un sol v' .-incida?
Deli qual altra vittoria unqua sperate ,
S’ ai colpi d’ una destra in fuga andate ?
Ciò detto il tergo segna al cavaliero.
Per averlo al ferir fuor di sospetto ;
Ma fatto accorto del vilian pensiero.
Volge Vitellio, e gli appresenta il petto;
E ’l ferro alzando ai sommo del cimiero.
Fende li capo, c la gola entro l’elmetto;
Che con l’ intiere tempie. , c con le gote
Su ciascun fianco gelido percote.
Or come al gran guerrier l’alma disciolta
Vede fredda lasciar l’ arme , c la vita ,
Stia salute la gente In fuga volta
Commette al corso pallida , c smarrita ;
Nè più la voce delle trombe ascolta ,
Ch' alto sonando alla battaglia invita ;
Nè v' Ita chi prenda scorno, o sì disdegne.
Senza difese rimirar l’ Insegne.
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so PORMI
Gli elmi indorati , c gl' indorati scudi
Temprati già con sommo studio, c cura,
Gettansi a piedi , e se ne vanno ignudi
Da viltade sospinti , e da paura.
Sol tu ritolta a feminlli studj,
Kd usa all’arte di milizia dura,
Provasti, Flavia, in guerreggiar diletto,
Vergine orrenda, c rivolgesti il petto.
Costei là fra Sanniti aspro paese
Nacque del Tronto alla gelata riva,
E gli anni molli in rigide opre spese,
D'agi soavi , c di delizie schiva ;
Spiegò le reti , e i lacci , e l’ arco tese ,
Nè senza gloria cacciatricc ardiva,
Ch* entro le selve spaventosa all* orso
Lieve corvetta faticava il corso.
Quivi assetata , ed arsa al fiume hebbe ,
E posò stanca in su la dura terra ,
E I’ alterezza delle spoglie eli’ ebbe
Sol dalle fere, che tra monti atterra; [be
Ma poi, che *1 mondo odiò la pace, e creb-
L* ira, ed Italia surse armata in guerra,
Volta a più chiare imprese il suo pensiero,
L’arme vestì contra *1 romano impero.
Nè fra i gucrrier, che ’l barbaro racco-
Destra più certa, e più crudel feria, [glie,
Nè fra cotante sanguinose voglie
Ardeva voglia più superba, e ria ; [glie,
Ed or che’n fuga il piede ogni uom discio-
Ella non già l’alta virlude obblia,
Ma disdegnosa il cavalier disfida ,
E con orribil suon contra gli grida :
A che vii turba alla vii fuga avvezza
Cacci , che vita , e non la gloria brama ?
Dunque nel sangue di chi l’odia, e sprezza,
Speri ii merto trovar d’ inunortal fama ?
Se cerchi vero onor di tua fierezza,-
Rivolgi l’armi a chi t’attende, e chiama.
Cosi dicendo al fiero assalto mosse,
E con alto furor l’elmo percosse. [te.
Quel come ferro entro la fiamma arden-
Miile chiare faville al cielo ha sparle.
Ella i colpi raddoppia, c fieramente
Ratte l' aurato scudo, c gliel diparte ,
Ei , che dianzi le voci , c pur or sente
L* opere altiere nel mestier di Marte,
Sdegnoso che sul fine altri contende
La sua vittoria , di furor s’ accende.
E là ’ve cerchio di metallo cigne
La gola, e preme l’amorosa neve,
La vincitrice spada immerge , c spigne ,
Ch’ entro ’l bel latte il puro sangue beve ;
V alma cui dura angoscia assale, e striglie,
EROICI.
Vassene al quinto ciel rapida , e lieve ;
E morte rea la bella guancia oscura ,
Che con tanl’ arte già formò natura.
Presso ’l cader della guerriera forte
Una v’ avea delle donzelle armate ,
Clic seguita d’ Arpalice la sorte
Spendeano in arme la fiorita etale.
Costei scorgendo da vlcin la morte.
Ebbe degli anni suoi giusta pietate ,
E ratta discendendo dal destriero,
Umilmente inchinossi al cavaliero.
Vincca la neve il leggiadretto volto,
Vincea la rosa di gentil colore ,
E l’oro della chioma iva disciolto,
E gli ocelli fiammeggiavano d’ amore :
Mira il campo, die* ella, in fuga volto,
0 nobil cavalier, dal tuo valore;
Ornai poco di gloria aggiugner puoi
Col sangue d' una donna agli onor tuoi.
Per la tua destra gloriosa ardita,
Pel tuo valor, per la tua nobil fede,
Per la vittoria, eh’ a pugnar t’invita.
Comparti ad una vergine mercede;
Sospendi ’l braccio, e mia giovenil vita
Riponi , o cavalier, fra le lue prede,
E per umil tua sena mi destina,
0 chiedi gran tcsor da mia regina.
Così pregava , e i begli occhi tremanti
Volgea pieni d' affanno, e di tormento.
Si ch’ai delti soavi , ed ai sembianti,
Ch’a lei dettava 1' ultimo spavento.
L’ira del cavalier non corse avanti,
benché alle piaghe, ed alle morti intanto ;
Ma sotto nobil guardia ei la commise ,
Indi spronò sopra le schiere ancise.
Benché di tanti popoli confuso
Fumasse il campo d’ ogni orror funesto,
11 caso di costei non però chiuso
Fu colà, dove esser dovea molesto;
Gilè pronto Amor, siccome ei tien per uso.
Il fece ad un suo servo manifesto.
Gctulio, che da lei gli occhi non torse.
Tutto rimira di sua \ ita in forse.
Ei ben lieto riman di sua salute ,
Ma pur si duol , die le bellezze amale
A suoi martiri , a suoi disir dovute ,
Cieca Fortuna in strana forza ha date.
Nè potendo sperar tanta virtute,
E nell' uccislon tanta pietate ;
Sopra l’ altera cortesia pensoso,
A passo a passo ei ne divicn geloso.
E così quel mortifero veleno
Amaramente gli circonda il core,
l
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DELLE GUERRE DE’ GOTI.
Che in profondo pensiero ei venia meno,
Vinto d' insopportabile dolore.
Por alfin sprona, ed abbandona il freno,
E volge in quella parte il corridore ,
Per onde ci rimirò, che menata era
La bella, e disiata prigioniera.
Ma il moto di quei popoli infinito.
Che discordano in cosi spessi giri ,
Ed or un feritore, ora un ferito.
Diede tanto d’indugio a’ suoi disiri,
Qi’ei nulla scorge dalla pugna uscito,
Come clic si rivolga , e che si miri ,
Sebben loco non v’ha, dov’ci non spii.
Ove no *1 guardo, ove non l’occhio Invii.
Adunque ove destili non gli consente.
La donna ritrovar del suo dolore.
Più non gli cal, più non gli torna a mente
L’arme, la guerra, o’I barbaro signore.
Solo si vuol , solo disia dolente
Loco segreto a disfogar il core.
Cosi sen va poco da lungo , dove
Trai* ombre il fiume a lento corso move.
Quivi discende, e mentre gira il piede
A cercar solitario ermo ricetto.
Tutto pensoso, e disarmato vede
Giovine d’anni un cavalier soletto.
Egli sull'erba in riva al fiume siede
Grave d’ una percossa a mezzo *1 petto,
E con la man va procurando aita ,
E con l’ onda corrente alla ferita.
0 cavalier, che sia vaghezza , o sia
Destin qui, dice, a guerreggiar sci giunto,
K eli* or s’ io guardo, empia Fortuna, e ria
T ave pur meco nel dolor congiunto ;
Io , se l'opera mia grave non fia ,
La ti prometto infili da questo punto;
Ma tu, se ’l favellar non t’è tormento,
Di tua condizlon fammi contento.
E quei le luci al cavalier converse
Tinto di pa^slon ne’ suoi sembianti :
Tenne le labbia, e fin che non l'aperse,
Sparse fuorc sospiri , e sparse pianti,
indi rispose : Uom di fortune avverse
Fortuna avversa t'ha condotto avanti,
E mal richiedi , se piacer non hai ,
D’udir, guerrier, aspre miserie, e guai.
Ma se costume naturai ti sprona ,
Per diletto a spiar dell’altrui pene;
Io pur dirò, che quanto ne ragiona,
Tanto ne gode il cor, che le sostiene.
Cosi l’alta beltà, che le cagiona ,
Volgesse qui le luci alme serene ,
E mirasse la pena, che m’avanza,
Dall’empia, e sempre dura lontananza.
Là dove il mar, clic da’ Tirreni prende
Il nome, Italia in sull’estremo inonda;
Sotto l’altiero monte, che difende
Il freddo Borea all’arenosa sponda :
Savona all’ acque angusta falda stende,
Savona sempre di beltà feconda;
In quelle piaggic, hi que’ bei liti adorni,
Ebb’io, signor, nascendo 1 primi giorni.
Appena nato, a' duri mici tormenti
Sorte volle adoprar di sua fierezza;
Mi negò le lusinghe dei parenti ,
Mi pose in risse, m’involò ricchezza.
Amore alfin con le sue fiamme ardenti
Servo mi fc’ d’ una crude! bellezza.
Per modo che nè forza , nè desio
Ebbi poscia giammai d’ esser più mio.
Cosi dolente mi distrussi , ed arsi
Tutto Io spazio della verde ctate :
Gridi , sospiri dal profondo sparsi ,
Ebbi le guancic pallide , e bagnale ;
E pur quegli occhi avaramente scarsi
Mi negarono un guardo di pictate.
Nè sulla bella fronte altro mai lessi ,
Clic duri slrazj, e che tormenti espressi.
Tanto peso di affanno, e di martire.
Tante si lunghe feritadi estreme,
Non ben poteansi con ragion soffrire ,
Senza alcun refrigerio, e senza speme.
Però la mia miseria , c ’l mio disire
Venne palese, e la cagion insieme,
E tutto ’l mondo a riguardar si diede
La sua dura alterezza , c la mia fede.
Ed ella vergognando al suo bel volto
Farsi palese un amator si vile ,
Nel domestico albergo ebbe sepolto
L'almo splendor della beltà gentile.
Nè pel tempo avvenir poco, nè molto
Si fu pentita dell’ appreso stile ,
Nè giammai poscia io rimirar potei
Pur disdegnoso il sol degli occhi miei.
Allor feci pensier, benché dolente.
D'abbandonar quelle dilette arene ,
Pensando sol , ch’ai ritornar, la gente
Gli occhi non avria volti alle mie pene.
Cosi mi mossi entro la fiamma ardente,
Traendo dietro pur ceppi, e catene ;
K con angoscia , c con pensier di morte ,
In Tracia venni alla romana corte.
Quivi è soverchio 11 dir del mio dolore,
Se per prova l’amor conosciuto hai.
Ma se delle sue piaghe bai sano ’l core,
Che giova il dir ? noi crederai giammai.
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82 POEMI
L* estrema passlon d’ un che si more ,
Que* rei sospir, que’ rei martlr, que’ guai,
E quella pena tormentosa , c ria ,
M’ erano al cor, che Tolenticr sofTria.
Marte feroce Indi discordia accese
Vago dell’ opre sanguinose , c crude.
Gascun destossi a perigliose imprese,
Per trarne gloria, e per mostrar virtude :
10 lieto me ne corsi al bel paese ,
Ov'è la patria, che il mio ben rinchiudo,
Sperandomi da lungo al suo bel ciglio
Passar men grave il doloroso esigilo.
Ma dura sorte , clic di trarre è vaga
A fin acerbo la mia vita rea.
Vuol , che di Marte ancor senta la piaga
11 cor, che pur quella d’amor piangea;
Ma se ben di suo cibo or non l’appaga
La speme , che dappresso mi pascca :
Non però nel pensiero altro mai viene,
Fuor che Liguria , e le paterne arene.
Tal mi son peregrin , ed al ritorno
Veggio, che morte ornai la via mi serra.
Ma tu chi se’, che pur con Panni intorno
Spendi in riposo l’ore della guerra?
Gelulio il guardo di pietatc adorno
Sospirando piegò verso la terra ,
E poi di nuovo nel guerriero il fisse.
Ed a lui rispondendo così disse :
Perchè tu sappia , che con cor pietoso
Sono stati raccolti i dolor tuoi ,
Saprai , ch’io son nel carcere amoroso,
E provo duri i reggimenti suoi.
Ma perchè nel mio stato aspro, c noioso
Alquanto di quiete arrecar puoi ,
Prego, eh’ a consolar l’empia mia doglia
Pietosamente adoperarti voglia.
Dianzi pugnando ambe le genti armate
Prigioniera n’andò la donna mia;
Ned ebbi di disciorla polestate ,
Si trovai nel venir chiusa la via.
Or s'io posso riporla in libcrtale.
Chi più felice , e fortunato fia ?
Ma porla In liberiate indarno io spero.
Se contezza non ho del cavaliero.
Ei con moro destriero in guerra venne.
Che sol la fronte ha colorita in bianco;
Sopra *1 cimiero ha tre purpuree penne ;
E d’ostro fascia l’uno, e l’altro fianco.
Di cotanto valor, che sol sostenne
Le schiere avverse coraggioso, c franco ;
Nè d’ alcun’ altra destra anco vedute
Sono opre In arme di si gran virtute.
Tu , che nel campo dei Latin fai nido,
EROICI.
E con lor passi coll’esilio gli anni,
E saper devi i cavalier di grido,
E ’l nome loro rinvenir ai panni ;
Deh mi noma costui, che s’io ’i disfido
Troverò ’l fin degli amorosi afTanni ,
Chè vincitor, la donna mia disciolta ,
Vinto, mia pena col morir fia tolta.
E quel Latin , clic ’l cavalier sovrano
Avca raccolto a manifesto segno,
Grida : Oh che forte, oh clic feroce mano,
T invola, amico, il caro tuo sostegno : [no
Non ha '1 campo stranicr, non lia’l Roma-
Di lui pugnando cavalier più degno,
Ed esser può, che l’armi, c la battaglia
Seco vie men , che ’l ripregar ti vaglia.
Pur oggi al mondo il terzo di risplende,
Gi’ei n'apparse soiingo in sui mattino;
Gii ’l mandasse fra noi nulla s’ intende ,
Ma daU’Etruria ei mosse peregrino.
Solo Narscte del suo dir contende.
Gl* a noi discenda messaggier divino,
E quinci a lui commesso ha finalmente
Il governo dell’ anni e della gente.
Egli a fermar nostra fortuna avversa
Promette alto destin di sua persona ,
E clic vostra possanza andrà dispersa ,
Come di cosa certa altrui ragiona.
E certo se destin non s’attraversa ,
Il bel regno d’Italia or v'abbandona ,
E Roma nostra , in che fermaste albergo.
Vinti vedravvi, e con le braccia al tergo.
E se ’l mio detto, c la credenza è vera,
Sian testimonio 1 tuoi medesmi lumi.
Veduto hai folgorar la destra altiera ,
N’ hai rimirali i sanguinosi fiumi.
Questi si ticn l’ amata tua guerriera ,
Amico, per cui piagni , e ti consumi ,
E porti di martir sì gravi some :
Se ’l nome chiedi, ei di Vitcllio ha ’i nome.
Ei cosi gli rispose, e tenne alquanto
Gctulio a terra nubiloso il ciglio.
Indi soggiunse : E verità sia quanto
Del mio ragioni , e del comun periglio ;
Pensi ’1 re nostro a sue fortune, intanto
D’Amore io solo prenderò consiglio;
Ma la preghiera mia non ti sia greve
Per la pietà, che agli amator si deve.
Si tosto, come se’ tornato In campo,
Se pace , se conforto Amor ti dia ;
Trova la donna, del cui viso avvampo,
Sebben in sorte dispictala, e ria;
E dille tu per ine , come al suo scampo
La fcdcl opra di Gctulio fia,
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DELLE GUERRE BE’ GOTI. 8S
E che la servitù non le rincresca ,
Finché col novo di l’alba se n’esca.
Cosi detto riprende il suo destriero
Rivolgendo la mente alla partita ,
E ne porge la brìglia al cavalicro ,
Cui grato esser dovca per la ferita :
E dice : Ornai vicn notte all’cmispero,
E ’l sol partito a dipartir n’ Unita;
Monta in arcion , chi si piagato, e lasso,
Diffìcilmente moveresti ’l passo.
Ed egli alfln dopo, ch’lnvan contese
Con bel parlar di gentilezza adorno.
Pigliò ’l destrier del cavalier cortese
Ed al campo d'Italia fé’ ritorno.
Getulio poi , che dalle stelle accese
Mirò dal mondo ornai bandirsi ’l giorno,
Nulla col ferro ei più curò provarsi
A prò dei Goti fuggitivi, e sparsi.
Ma non Vitellio il gran furore alTrena,
Sebbcn lo stuol avverso in fuga è volto ;
E sebbcn cicca notte in giro mena
Ornai suo carro, c ’l più vedere 6 tolto.
Giù di gran tronchi la foresta i piena ,
E d’ atro sangue è tutto ’l campo involto.
Ed ci pur su gli estinti , c su i mal vivi ,
Batte con l' arme il tergo ai fuggitivi.
Qual il gran fiume, dove ancor sospira
Febo sul caso di Fetonte indegno,
Se per nevi dìscioltc unqua s’adira,
E ’l freno usato ha delle rive a sdegno;
Ondeggia altiero in gran diluvio, e tira
Seco a basso ogni sponda, ogni ritegno,
E selve, e paschi, e ciò, clic trova intorno
Ne porta a) mar sopra l’orribil corno;
Tal su lo stuol, che gli fuggiva binanti.
Alto fremendo il gran guerrier correa ,
E calpestando or cavalieri , or fanti
Spegnca la gente scellerata , e rea.
Sotto il fier ciglio, c sotto i fier sembianti
Il fiero sguardo minaccioso ardea,
E dal gran scudo, e dal grand' elmo e fuore
Dai grandi usberghi sfavillava orrore.
Per entro ’l sangue, che ne giva crran-
Eransuoi fregj d’atre macchie offesi; [do,
Sangue gli spron, sangue vedcasl il bran-
E sangue tutti distillar gli arnesi, [do,
Se cicca notte dall’Ibcro alzando
Non ingombrava allor tutti 1 paesi.
Franca era Italia : ma pei ciechi orrori
Interruppe Vitellio i suoi furori.
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84
POEMI EROICI.
BRACCIOLINI.
LA CROCE CONQUISTATA
LIBRO TERZO.
ARGOMENTO.
Segue Teodor a far palesi , e chiari
Ile gl* eroi pili famosi i nomi , e l’opre,
E il* Elisa , c d’ Alcesie i casi amari
Condolei note al saggio Arlemio acopre;
E cosi ne* diletti altrui si cari
Mostra, quanti travagli il mondo copre.
E che in metto del riso aspro dolore
Sempre si mesce a tormentare il core.
Signor, que’ due della seconda coppia
( Ricominciò Teodor) son capitani
Dì gente greca , c ben I un l’ altro accop-
D’ animoinvlttl, c di valorsovrani , [pia
Virtù, che fuor naturalmente scoppia,
Nè lascia 1 cor gentil parer villani ,
Ben mostra in lor con manifesta luce
La nobiltà dell" uno, e l’altro duce.
Quel da man destra , a cui si lunga , t
bionda
La chioma è sparsa i n sul lucente usbergo,
E quasi un fiume d’ or, che si dilTonda ,
Riga armato d’ accìar l' omero, e ’l tergo ,
Cleanto è detto, e’ n su la verde sponda
Del lucid'Ebro ha'l suo nativo albergo.
Nacque de I re di Tracia , ed egli i segni
Muove di tre provinole, anzi tre regni.
Sono i primi, eben forti I propriTraci,
Per sua ferocità squadra temuta.
I Macedoni poi , di pari audaci ,
Ma vie più lor la disciplina aiuta.
Terzi i Dardanl sono, e i feri Daci.
Chè nessun per onor marte rifiuta,
E quei di Ponto , c di Dalmazia mesce
Conquesti Insieme ,c la falange accresce.
Sono a pie diecimila , e novecento
Ne conduce a cavallo, e di lor porta
Famosa insegna un' aquila d' argento ,
Ch’ un altr' aquila ticnneli’ unghia torta ,
Che 'I sangue ha sparso , e le sue piume al
vento
Dall' artiglio maggior ferita, c morta,
Per dinotar, che rimarrà disperso
Dall' imperio romano il regno perso.
Vedi l' altro a man manca , c più raccolto
Su '1 tergo ha ’l collo , e più le spalle apcr-
Ed ha brune le chiome, efosco il volto, [te.
Quegli onor della guerra è Poliperte ;
Trae d’ Atene il natal , paese incolto ,
Fatti sono i giardin piagge diserte,
E di tanti edifici in fra l'arena
Riman dal tempo alcun vestìgio a pena.
Ma se cagglon le mura, estrazio indegno
Fa d’ ogn’ opra di man la lunga etade ,
A mal grado suo pur prova d’ ingegno
Fabbrica di scrittor giammai non cade.
Nelle carte fondata ha vita, e regno,
Se rovina nel suol l'alta ciltade,.
E mancar si vedranno al sole i rai
Pria, che manchi d’ Atene il grido mai.
E non sol Poliperte Atene aduna ,
Ma l' Epiro, c l’Acaia. All'Oriente
Dell' incolte provinole esposta è l’ una.
Guarda l'altra a Corfù verso Occidente.
Non può nulla temer l’ irsuta , c bruna
Per li monti Cerauni avvezza gente;
Che le fere solca di balza in balza
Saettando seguir leggiera, e scalza.
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I.A CROCE CONQUISTATA. 85
Tratti poi fuor del cui o.-o, c’nsicmeac-
Dalla tromba medesima conduce [colti
Quei del Peloponncsso , e seguon molti
1/ ardi to suoi! del fortunato duce,
K più altri di lor sparsi , c disciolti
Li per l’ isole Egee chiama, e riduce
Lesbo, e Creta concorre, e Negroponte
K le minute Cicladi : ma pronte.
Quasi a piè tuttaè la sua gente greca ,
Ma grave d’armi, e d'animo costante.
Sì eli' a danno minor morte s'arreca.
Che torcer mai dal suo dover le piante.
Porta ei per segno una dentala seca ,
Clic roder tenta un lucido diamante,
Nè pur vi lascia alcuna nota impressa,
E non potendo a lui , noce a sè stessa.
Dodicimila il capitan condutti
Tra pedoni e cavalli avea da prima,
Ma son gii quasi alia meli riduttl
Tanto il ferro, e l’eli distrugge, e lima.
Son più d'ogn’aitro a franger mura In-
Ne' duri assalti, csalir loro in clma,[strultl
Nè torre è mai , che resistenza faccia
Lungamente al crollar delle lor braccia.
Pon mente ai terzi .eciaschedun lorfre-
Vcdi Italico ornar dell’ armi il pondo; [gio
Triface è l’un per chiare prove egregio
fìentii di spirto, e di parlar facondo.
Sull’ Arno è nato , ov’ ci più raro ha 'I pre-
llcllc note d' Etruria, e puro,e mondo[gio,
Corre con lento piè, chè lo rattienc
l)e' cigni il canto alle famose arene.
Di membra è snello, e sovra i piè veloce
Nel corso a pena imprime d'orme il Ilio;
Fervido di voler, di cor feroce.
Ardito si, ma cautamente ardilo.
Nè del nettare d' I bla ha la sua voce
Men soave concento, c men gradito.
Se va, se sta, s’egli ragiona, o tace
ila sempre un non so che, clic s'ama, e pia-
Di concorde voler da lui condutti [ce.
'an gl’italici seco, i qua’ partirò
Con varie insegne, e non volcan riduttl
Andar soli’ una , e ’n ritrosir s’ udirò ,
Ma proposto Triface ei solo a tutti
Per duce piacque, ei sotto a lui s' unirò,
Ed ei si dolce or gli governa , e regge ,
Ch’ amore è ’l freno, e volontà la legge.
Novemilanc regge, e ne raccoglie
Di quelli ancodi là dal varco angusto,
< IT è fra Scilla , e Cariddi , onde si scioglie
Da Leucotc Peloro, c 'I monte adusto,
E con quei ch’abitar le bianche spoglie
Dell' Apennin di lunga neve onusto.
Tragge insieme Triface, e seco mena
Quei dell’onda adriallca , e tirrena.
l'n Icone è l’ insegna , c mentre dorme
Chetamente, un fanciullo il fren li mette ;
Mille premono il suol di ferrai' orme
Sparse le lancie lor d' archi , e saette.
Partenopee son le guerriere torme,
E fan chiaro veder le squadre elette,
Chè l’antica virtù che già fioriva
Negl' italici petti ancora è viva.
Vedi l'altro a man manca; a sue gran
Non è già punto inferlor la forza, [membra
D'csser nato mortai non si rimembra.
Il cuor feroce niun periglio ammorza :
1 ra gli armenti minor tauro rassembra ,
Rompe!' armi, e le schiere, e Paste sforza,
E qual leone orribil velli, e folti
Spargon la fronte sua capelli incolli.
Adamasto ècostui , sol ci non puotc
Emulo di Batran soffrirne il grido.
Per sangue è chiaro, c d'Alboin nepote
Nato di Lombardia nel ferlil nido,
Dove l’ Adda, c ’l Tesin con larghe rote
Traggon l'umido piè spargendo II lido,
E più volte fecondi i campi fanno
Pria che di neve incanutisca l' anno.
ISequani, e gli Elveti egli conduce,
E del ferro, c del vino amica gente.
Che simil di costume al fero duce
Non alberga timor, piaga non sente,
l'n Orlon, che le tempeste induce
Morte, c strage crude! delle semente,
Eia sua insegna , c la falange piena [pena.
Da prima ci mosse, or n'ha due quinti a
Vedi ilquarto amali manca; èquello il
figlio
Del canuto Silvan eh’ ha per cimiero
Grave d’alta pruina un bianco giglio.
Hello è d'aspetto, e d'animo guerriero.
Sventola il peunonceld' oro, e vermiglio.
E ’l generoso, e nobile destriero,
A cui l' omero preme , e stringe il morso ,
Sembra neve ai color, seffiro al corso.
Tra T fin del quarto, e'I cominciar del
quinto
Lustro degli anni suoi lieta stagione
Corre età favorita a gloria spinto
Da generoso, e volontario sprone,
E ben figliuolo al naturale istinto.
Ed al nobile fin, di' ci si propone.
Si dimostra a Silvan per via d’onore.
Emulando a gran passi il genitore.
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80 POEMI
Venturiero ò’I garzon leggiadro, e fran-
Seco è ’l duce Ardimeli , caricod’ oro , [co,
A cui pende ricurvo al lato manco
Gemmato il ferro in barbaro lavoro.
Sopra II nero ha ’l deslrier sottile il bianco
Pur coni’ un v elo , e i piedi e ’l capo è moro.
Non preme ei no , ma perchè rada il suolo ,
L’ali al corso non vedi , e vedi’! volo.
Condutti a noi del caspio monte ha fuorc
Gente , che ’n sè non Ita legge , nè freno,
Oh , se pari in costor fossi ’l valore
Al numero, all’ardlr ch’egli hanno in seno !
Ma fidar non ne può l’imperadore,
E nuoce, ovunque sia, l'empio veleno.
Son trenta mila, e più tulli gazzarri
Ingiuriosi, indomiti, c bizzarri.
Dall’ Ircania costui con le sue genti,
A cui serra le vie P orribll tosco
Nemiche a Cosdra , e di disdegno ardenti
A congiunger si venne in guerra nosco.
Quando ai giorni maggior gli atri serpenti
Fan viva siepe al duro varco, e fosco
E pur or, quando il velenoso calle
Chiuggnn le serpi alla profonda valle;
Tacile al penetrar del cieco sasso
Movean le schiere, e sospettose , e preste ,
Perchè dal suon del periglioso passo
Il diluvio degli angui non si deste.
Ma indarno pur, eh’ ad assalirle al basso
Sibilando strisciò l'orrenda peste ,
E la piaggia , e la valle , e ’l piano , e 1* erta
Di serpi è tutta a danno lor coperta.
Aran con larghe, e velenose rote
Gli adirati colubri il gran deserto.
Rigati lubrici il suolo, e ’l elei percotc
Di lor sibili ardenti un suono incerto.
Spaventosi sembianti , c forme ignote
Precipitose in giù scendon dall’erto.
Rassembraaiciel s’oscuro nembo il serra,
Seminata di fulmini la terra.
Suona r orrida valle , ogn’ antro geme.
Spargo» le biscic avvelenala spuma.
Con le spade i guerrier l’ orrendo seme
Troncatisi intorno, e’I varco ondeggia, e
Seguita il popol fiero, e nulla teme. [fuma.
E col ferro , e col piè la via consuma ,
ramo eh’ esco» d’ impaccio , e ne conduce
Liberi i suoi guerrier l’ardito duce.
La loro insegna è con argenteo corno
Quel pianeta, che in ciel giù mai non suole
Tal far altrui, qual si partì ritorno.
Compartendo alla notte i rai del sole;[no
Con quel da poi che non l' estingue il gior-
EROICI.
Il barbarico stuol mostrar ci vuole.
Che vai per buona, e piu per rea fortuna,
Qual notturna assai più luce la luna.
Vedi gli ultimi due, che d’ un colore.
Che nel bianco in vermiglia lian la divisa ,
Rara coppia gentil eh’ ha giunto Amore
Di legittimo nodo, Alceste, e Elisa.
Vive indistinto infra due petti un core,
E in due corpi è tra lor l’alma indivisa ,
Ella per lui, mercè d’ Amore, audace
(^imbatte in guerra, egli amoreggia in
pace.
Di dolore, e d'amor trafitta e punta
La giovanotta assai fu presso a morte,
E soffrendo, ed amando a tale è giunta.
Ch’eli’ è ben tra i più rari esempio forte.
Chè disperata , e dai suo amor disgiunta
Ben la tenne qualtr’anni acerba sorte
Sotto ruvide spoglie infra le piante
D’antica selva sconosciuta amante.
Sola è donna nel campo, e la permette
L’ imperador, quantunque pur sia tale ,
Però die doli in sè raccoglie elette.
Ch’ai virile valor la fanno eguale.
Sicuramente in cerio segno mette
Dall’ aurata faretra ogni suo strale.
Rompe ’l corso alle fere in mezzo al suolo,
E per l’aria agli augei la vita, e ’l volo.
E dall’arco promette, e se nc spera
Della man feiuinil prove maggiori ,
E l’istoria direi pietosa, c vera
Delle lagrime sue, de’ suoi dolori,
Pernii divenne in mezzo i boschi arciera,
S'io non temessi i suoi dolenti amori
Portarvi noia, e qui sì ferma, c tace,
Sovrastando a mirar, quel eh’ a lui piace.
Ma scorta allor nel principe Teodoro
Dai sacro ambasciatine l'aperta voglia,
Di contar di que' due, eh’ un tempo foro
Piangendo amando in disperata doglia,
Volgesi ad ascoltar gli affanni loro,
Benché i casi d'amor gradir non soglia.
Ma in lievi cose affabilmente in lui
Vinto 11 proprio voler, cede all’ altrui.
E rispondendo: a me l’udir Ha caro,
Purch’avoi forse II raccontar non grave.
De’ legittimi amanti il caso amaro
Dopo lunga stagion patto soave, [chiaro
Ciò detto ei tacque, e ’n suoli distinto, c
Ripigliando Teodor quei eh’ a dir ave.
Con lieta fronte al sacro messo, e pio
Più volgendosi ancor, cosi seguio:
Nel laconico mar Citerà siede,
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LA CROCE CONQUISTATA. 87
Isola, che più bella, e più feconda
Sopra ’l nostro orizzonte il sol non vede ,
Nè più bella a veder l’acqua circonda.
Qui>i nacquer gli amanti, c ’n quella sede
Pargoletti godean vita gioconda ,
Della tenera età nel dolce loco,
Partendo il riso, e I* allegrezza, c ’l gioco.
Quivi un amor, che non sapoa d’ amare,
D’un incognito affetto i cori univa,
Sospirava» talor Tallirne care
Nè sapean quel sospir d’onde ci veniva;
Chè temer non avean nè che sperare ,
E speranza, e timor l’anior nutriva.
E così semplicetti un tempo avanti
Che ’n tendessero amor, vissero amanti.
L’età crebbe, c le voglie, c furon poi
Dai letto maritai spente, e raccese.
Fin che Fortuna con gli assenzi suoi
A conturbar tanta dolcezza intese.
Cosdra affronta Cartagine, ed a noi
Convien repente apparecchiar difese
E già già parte, e se ne va per Tonde
La nostra annata e’I mar tra Degni ascon-
Cosi a partir dalia diletta moglie [de.
Dura necessità lo sposo astringe.
Da lei congedo lagrlmando toglie
E di mesto palior tutto si tinge.
Alfin si parte, e la sua rela scioglie
L' afflitto amante, e 1* Aquilini la spinge;
Vaisene senza cor, chè lo ritiene
La bella sposa alle paterne arene.
Pien di lagrime il volto, c 'I seti di duolo
Con l’ altre vele II doloroso amante
Sospirando, varcò l' umido suolo,
Ma fermò tardi in sul terren le piante.
Chè l’amica citta r avverso stuolo
Area disfatta alcuni giorni arante.
Più di fermossi a racconciar l’ antenne,
Per tornar quell’ armata, orni' ella venne.
Or tra queste dimore un cavaliero
Novellamente in Affrica venuto,
Per portar a Cartago , ove niesticro
Ne fusse a lei , con la sua destra aiuto ;
Quando alfin della cena ogni pensiero
Con poca guardia fi più dai cor tenuto,
Veggendo ei pur con basse ciglia, e meste
Dolente star l’ Innamorato Alcestc :
Deh, signor, li diss'ci, sbandisci orna)
Cosi tristo pensier, che t' ange il core ,
Cbfi nuli' altro può far, come ben sai ,
Nostro pensar, che raddoppiar dolore.
E se forse fi cagion di darti guai ,
Come fa spesso in età fresca amore ,
Sterpalo, chfi non fi maggior follia
I)’ noni , rifa femina vii soggetto stia.
Nfi feinina esser può, che non sia vile.
Nuli’ amor, nulla fedeltà 'I sesso avaro.
Non beltà , senno , non v irtù gemile ,
Ma l’oro fi sol ch'allc lor voglie è caro.
Provato ho mille , e mai diverso stile
Non vidi in una, ond’a fuggirle imparo;
E di molte il gucrrier narrando disse
Godute a prezzo, e l’ultima descrisse.
Sulla sponda a Citerà, ond’ ella vede
I) Asopo il dorso , fi gran magione eretta.
Che sporge fuorsopr’ uno scoglio, c siede
Quasi a specchio del mar, che l’ha ristretta.
Qui una donna gentil, ma per mercede.
Pur elib’io, come l’ altre. Elisa detta.
E se mai dal sembiante alcuna onesta
Comprender puossi , a me parca ben
questa.
Chè ’n sfi raccolta, e nel suo bruno man-
Del crine avara, e del pudico sguardo, [ lo
Nell’ andar schiva, e vergognosa alquanto
Movea guardingo ogni suo gesto, e tardo.
E chinando 11 bel viso a terra intento
Scoccava apifi de’ suoi begli occhi il dardo
Quasi a dir, non guard’ io, nessun mi miri.
Ch’io non porto pietà d'altrui martiri.
Ma '1 tesoro d' amor chi più raccoglie
Fa più caro parerlo, ond'ei più s'ama,
E cosi avvien, che dell' ardenti voglie
Mantice, fi ’l dinegar quel che si brama.
Tal io d' filisa in quelle honesle spoglie
Vie più m'accesi, e ne sfogai la brama.
Glifi per far me dell’ amor mio felice ,
Chiuse il patto tra noi la sua nutrice.
Costei dagli anni attenuala, r trista
Mostra ipocritamente atto devoto.
Formar preghiere ad or, ad or fa vista
Confondendo i bisbigli in suono ignoto.
Baciar sovente il terreo sacro fi vista.
Battersi, e risonarne il petto volo,
D' ogni inganno è maestra , e con suavi
Detti d'ogn' altrui cor volge le chiavi.
Costei di notte tacito, e soletto
Mi condusse a goder l' idolo mio.
Passai per varco inusitato, e stretto,
Cli’ad aprirmi sul mar la balla uscio.
La sua camera a lui descrisse, e T letto.
Tutte sue frodi il cavalier gli aprio ,
Loquacissimo fatto a mensa lieta.
Dove scioglie la lingua II vin di Creta.
Quindi accorto il marito, e certo ornai
Dello scorno da lui conira sfi fatto :
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K8 POEMI
Ahi, malvagio, gridò, tu dunque andrai
Superbo ancor di cosi reo misfatto ?
Tu di mia moglie, e l'onor mio tolt' hai?
Per pagarne le pene il cicl t' ha trailo
Nelle mie mani ; e ’l ferro trae dal fianco ,
Sospingendosi a lui feroce , c franco.
Or confuso l'adultero, e sorpreso.
Tratta con l’cbra man la spada a pena;
Mal accorto egualmente, e mal difeso
Trafitto cade a insanguinar l’arena.
Dalla mensa alia tomba inulil peso.
Passar gii ò forza alla dolente cena,
E tra i vasi ravvolto, e le vivande,
E col sangue , e col vin l' anima spande.
Non bada Alcesle ; un plcciol legno sale,
lasciando gli altri , c la sua vela scioglie.
Cui l'Austro gonfia, e per l’ondoso sale
Portatrice ne va d’amare doglie.
Tinto è nel volto di pallor mortale.
Dolor peggio, che morte in seno accoglie.
Tacilo è sempre, c ne’ sosplr di foco
Talor prorompe, e non ha posa, o loco.
E ’l quarto di, clic ’l disperato amante
Dal confine afTrican partito s’ era,
I)i lunghissimo spazio ancor distante
l’or lo piano del mar vide Citerà.
Sia ’l senlier torse c poi fermò le piante
Sul Icrrcn di Malica giunto la sera,
K quindi un messo alla consorte manda
Nel proprio legno, c a lui così comanda :
Vanne , e imbarca mia moglie, c come
Tu dall'isola sei tanto lontano, [poi
Che più visto, o sentito esser non puoi,
Dalle morte crudcl di propria mano.
0 se ’l sangue di lei sparger non vuoi ,
Cettala immantinente al flutto insano;
Fa ch’ella muoia, e non udir da lei
Scusa , o pregar, se tu fedel mi sci.
Pronto all’opra crudel vanne colui;
Giunge a Citerà, c l'innocente Elisa
Chiama per parte del marito, a cui
Menarla intende , e ’l suo ritorno avvisa.
Ch'eL giunto è là con altri amici suoi
Sulla riva del mar, quinci divisa.
Dove C stretto a badar per alcun giorno ,
Pria che far possa all'isola ritorno.
L’ amorosa consorte al noto messo
Volenterosa immantinente crede,
E tutta lieta allor, allor con esso
Mette nel legno suo l’incauto piede.
Lascia l'empio la riva, ed all' eccesso
Come il luogo opportuno, e ’l tempo vede,
Più feroce del mar, che lo sostiene
EROICI.
Contraila donna impetuoso viene.
E nel viso gentil , clic forza avrebbe
Tor lo sdegno alle fere, agii angui ’l losco.
E di pleiade intenerir potrebbe
Le dure querce al più deserto bosco;
Poiché fissato orribilmente egli ebbe
Spietatissimo in atto il guardo fosco,
Le man distende, e'i biondocrine avvolto
S’ ha già nell' una, c l' altra II ferro ha tolto.
E con aspra favella , ed interrotta
Dall’orror del misfatto : Elisa, dice.
Su disponti a morir, chè giunta è l’otta
Della tua fine , e viver più non lice.
0 vuoi ferro , o vuoi mar : cosi ridotta
Al partito crudel quell’ infelice, [smorte.
Tremante , e fredda , e con le labbra
Chiede almen la cagion della sua morte.
La cagione è ’l voler, le rispond' egli ,
Del tuo marito, ed ci cosi comanda;
E traendo a quel dir gl' aurei capegli.
Muove il ferro ad empir l'opra nefanda.
Rasserena allor queta i dolci spegli
lai giovanotta, e fuor le voci manda;
Eccoti il petto, il tuo signor, e mio.
Se cosi vuole, e cosi voglio anch'io.
Per lui sol non per me piacque la vita.
Per lui mi spiaccia or eh' ci l'abborre, e
schiva ,
Nodo eterno d’amor l’ha seco unita
Da lui dipenda, e per lui mora, e viva.
E se forse parer morte gradita
Non mi potrà, poi che di lui mi priva.
Di contentarlo il mio contento fia.
Tal ch’addolcisca ogn' amarezza mia.
Hcn mi resta un sol dubbio, e t’addi-
Pcr l’estrema mercò, che tu ridica, [mando
Queste parole al mio signor tornando,
Ch' ella del petto fuor trasse a fatica :
Elisa tua, che fedelmente amando
Non l'ofTese già mai , morì pudica.
E qui la mente a Dio converte , e nudo
Porge altera 11 bel fianco al ferro crudo.
Ma quel servocrudel, che s' era armato,
Contro i preghi d’ asprezza, e contra i pian-
Rendon (eh’ il crederla?) preso, e legato [ti.
Del magnanimo cor gli atti costanti.
E due , c tre volle il fiero braccio alzato ,
Quasi maga pietà l'arresti, e ’ncantl, [sa.
Non può muovere II colpo, e non l’abbas-
Anzi ’l ferro di man cader si lassa.
Si eh' ci l'opra abbandona, e volto a lei
Cosi spiegò più raddolcito il suono.
Deli , che morte mai dar non li potrei.
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LA CROCE CONQUISTATA.
Ma non è in poter mio darli perdono.
Che qual tu moglie al signor nostro sei,
Del crudel che mi manda, io servo sono;
Ma della morte eterno esilio in vece
Aver da me, se pur vorrai , ti lece.
Se la fede per pegno a me tu presti
Di partir quinci, e non mai più tornare,
TI lascerò su quelle spiagge agresti ,
E dirò poi che l'ho sommersa in mare.
E tu di là te ne potrai da questi
Nostri confin peregrinando andare.
Ma giura a me di ricovrarti dove
Qui non s' odali mai più d’Elisa nuove.
Risponde : amico , uccidi pur, trapassa
Purquesto petto, e che vuoi tu, ch’io viva.
Da quel crudel, clic, benché tale, ahi lassa,
È pur la vita mia, lontana, e priva?
Abbassa , oìmè , la mortai mano abbassa,
Non mi lasciar conir' a sua voglia viva,
Chè sarìa troppo a me tal vita amara,
E morte a piacer suo m’ è dolce , c cara.
Cosi pur ella il mortai colpo chiede ,
Perch’ adempiasi in lei l’ empio mandato.
Ma pietoso il morir non le concede
Olii la vita negar dovca spietato.
Or che lite ammirabile si vede
Nascer tra lor, che generoso piato !
Giovane donna, ed innocente prega
Pur la sua morte, e i’uccisor la nega.
Ma poi eh’ un tempo Inutilmente Elisa
All'omicida suo chiese la morte,
E dimostrò con disusata guisa
Ne' magnanimi preghi animo forte;
La speme alftn , se non rimane uccisa ,
Di scoprirsi innocente a miglior sorte ,
Fa che cede la misera , e dolente
All’ odioso suo viver consente.
E di lagrime sparse ambe le gote,
Qual rose intatte al mattutino giclo,
Dì trar l'esule plé tra genti ignote
Promette a lui sotto diverso cielo.
Indi , per variar più ch’ella puote
Suo sembiante gentil, depone il velo.
Tronca il bel crino, e la purpurea vesta
Piangendo spoglia, e’n servii manto resta.
Colui giicl presta, e sopr' un'erma
spiaggia
La depon lagrimosa, e se n' invola, [saggia
Pass’ ella i monti , c fuor chc’l pianto, as-
Poe’ altro cibo, e va dolente, e sola.
Parer si storia, e ruvida, e selvaggia
Nutrit' aneli’ essa in boscareccia scola
Tra dura gente ov'ella arriva, o parte.
Ma non giunge al desio lo studio, e l’arte.
Del bel viso gentil fa prova in vano
Nasconder l’aria, ei portamento, c’1 moto.
Non può l'atto civil farsi villano.
Nè restar di sue grazie il ciglio voto.
Troppo candida appar la (iella mano,
Troppo ad ogn’opra il nobil gesto è noto.
Cosi nuvola 11 sol con atri veli
Non può tanto celar che i giorno celi.
Ma poi ch’eli' ebbe e quattro lune, e sci,
Misera, e sconosciuta peregrina.
Trascorso errando, e con gli accesi omcl
Fall' ogni selva risonar vicina;
Tra la sua famigliuola a raccor lei
Un pietoso pastor pronto s’inchina,
E da quei panni un garzoncel creduta,
Pasce or greggia lanosa, ed or cornuta.
E con ruvida verga, e con accenti
Soavi troppo a cosi duri uffici ,
Correggendo conduce i bianchi armenti
A pascer l' odorifere pendici.
E spesso ai suoi dolcissimi lamenti
Fa pietose le selve ascoltatrici ,
E compiangon sovente al suo dolore.
Alternando i susurri, or l' acque, or l’ ore.
Ed ella un giorno insidiando , aggiunto
D'un selvatico capro il correr lieve,
Lui feri dall'agguato, e '1 fianco punto
Pasce ’l ferro la vita , e ’l sangue beve.
E l’un poi delle corna all'altro aggiunto
Ne compose ’l grand'arco, ond'eiia In
Divenne arciera, e sagittaria tale, [breve
Clic nè '! Parto, nè ’l Perso ha forse eguale.
Quindi corre la selva, e poi la sera
Ricca di preda il chiuso albergo riede,
E ’l di soletta, ov'è più folta, e nera
L* ombra d' antiche piante alfrena il piede,
Sfogando allor l' acerba doglia , c fera.
Che l’usato tributo agli occhi chiede,
E rimari poi della sua pena acerba
Tiepida ai sospir l'aura, ai piangerl'crba.
Durò lunga stagion l' amaro stile
Che ’l suo fior di bellezza In uggia tenne,
E ’l suo più vago addolorato aprile.
Per lei pur sempre oscurità mantenne.
Ferito intanto un cavalier gentile
Nel medesimo albergo a morir venne ,
Di cui la donna il luminoso arnese
Da lui lascialo , e ’l corridor si prese.
E con quell' armi ella pensò da poi
Fingersi un cavalier cangiando sorte ,
E passar con più laude i giorni suol ,
0 i suol lunghi dolor finir con morte.
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90 POEMI
E ben che grave al molle pelto annoi
Tropp’ aspro peso il duro arnese, e forte.
Vi s* avveri’ ella, e non so dir, se pure.
S’intenerisca ’l ferro, o ’I scn s’ induro.
Ma tornato il famiglio, a cui commise
La sua morte il marito , c inteso come
Egli in maria sommerse, c pria l’uccisc
Presala di sua man nell' auree chiome;
Data a lui ia mercè , qual ei promise.
Quindi il fa dipartir, però che ’l nome
Teme dell’omicidio, c ’l fatto ah borre
E *1 ministro si vuol dagli occhi torre.
Colui si parte, c poi nel cor martella
Più d’ un sospetto al credulo marito.
Dubbio della ragion d'opra sì fella
L’immaturo consiglio il fa pentito.
Torna a Citerà , e la nutrice appella
Ei con volto feroce, ella smarrito,
E le dimanda, ravveduto tardi, [di :
Col ferro insieme, e con gli ardenti sguar-
Di’ su, malvagia, io vo’ saperne il vero.
Chi fu colui eh’ a violar menasti
L* impudica mia moglie all’ aer nero,
Tu ’l sai, tu sei che l’onor mio macchiasti.
La mala vecchia a minacciar si fero
Tremante cade, e non ha cuor che basti ,
Ma gridando mercè , mostra in che guisa
Sol ella ha colpa ; ed è innocente Elisa.
Signor, vinta dall’oro, orecchia porsi
Ad un vano amntor, che qui venuto
Con desir mollo e poco senno io scorsi
A dimandarmi alle sue fiamme aiuto.
Ed io che bene ogni tentar m’accorsi
La casta Elisa tua, tempo perduto,
Mi rivolsi all* astuzie, e lui contento .
Fei d’amor con inganno, e me d’argento.
Persuasi a Terea d’ accoglier essa
D’Elisa in vece il folle amante in seno,
Chè d’ un’etade, e d* una forma impressa
Terea somiglia alla tua sposa a pieno.
E nella maritai camera stessa
Trassi il vano amator di gaudio pieno,
Chè l’ incauta tua moglie indussi ad arte
A trar la notte in più lontana parte.
Lascio in cantera il vago, c poi eli’ al-
quanto
Sovrastette in desio del mio ritorno.
Con l’ancella si ntil chiusa nel manto
Della mia donna, a dii m’aspetta io tonto,
E spento a un tratto un piccìol lume tanto.
Che mai vincer polca 1* ombra d’ intorno,
Avidamente nel tuo proprio letto
L’un dell’altro di lor prcser diletto.
EROICI.
Ed io prima che l’alba In Oriente
Rianclicggiar faccia alcuna parte ancora.
Affretto lui, che tacito, e repente
Partir sen voglia, e prevenir l’aurora,
Ed egli a pieno al creder suo contente
L’accese brame, uscì dell’uscio fuora;
E qui tace la vecchia, imntobil cole
Rintanai Alcesle, e poi s’ infiamma, e scote.
Ed ahi , grida, malvagia, io dunque a
Per te la donna , anzi la vita mia, [torto
Fedele, e casta , ed innocente ho morta?
Tanto error senza pena unqua non Ila.
Vuol trarre il colpo, e rlman poi, che
Ha ’l vile oggetto, in cui ferir desia, [scorto
La lascia, e corre a minacciar Terea,
Se narratole il ver la balia avea.
E cosi ’l trova, ond’ei non pur ferito,
Ma trapassato il cor d’aspra saetta,
Per soverchio dolor di senno uscito
Di sè far pensa Incontr’a sè vendetta.
E ’l suo spirito sciolto avrla seguito
Lei, che nuda si crede alma diletta.
Ma v’accorser gli amici, e gliel vietaro
E del morir la miglior via mostraro.
Persuaso da lor, clic *n lui non deggia
Morte d’eterno danno esser cagione ,
Passa il misero in Asia, e qui guerreggia;
Disperato ai perigli il petto espone, [già.
Ma quantunque il morir pur sempre cltieg-
Con mlll* opere ardite, ov’ci si pone.
Riserbandolo a meglio antica sorte
Gl’ incontra gloria , ov’el ricerca morte.
E già quattr’anni il lagriinoso amante
Avea miseramente ad ora ad ora
Le colpe sue rammemorate, e piante.
Nè sentito il dolor temprarsi ancora :
Quando un guerriero alle trincee d’avantc
Venne a chiamarlo a guerreggiar di fuora.
Tace il suo nome il cavaliero, e ’l volto
Tien dentr’ all* elmo ascosamente accolto.
Del guerrler peregrin più d’nn a voce
La disfida ad Alceste in fretta porta.
Subito ei s’arma, e sul destrier veloce
! Viensene al vallo, e s’apre a lui la porta.
! E ben del petto intrepido, e feroce
L’alta virtù nel fier sembiante è scorta.
La lancia stringe, e si rassetta in sella.
Ma pria, clic muova, al cavallcr favella:
Quell’ Alceste son io, che tu richiedi
Teco a pugnar, nè la ragion dir vuoi ,
Ma se neghi a me questo, almcn concedi
Prima dirmi il tuo nome , e giostrar poi.
E ’l peregrino : Un cavalicr tu Tedi,
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91
LA CROCE CONQUISTATA.
Da cui questo» e non altro intender puoi ;
Ch’odio non ti pori’ io, ma tu nemico
Non bai maggiore , c nulla più ti dico.
Equi punti i dcstrier corronsi incontra ;
Cader la lancia , il peregrin si lassa ,
E ben vedesi a studio, Alceste incontra
A lui lo scudo , e lo divide , e passa.
Ma meglio assai clic non vorrìa gl’ incontra
Perchè spezzasi l’asta, e si fracassa
Di lui più molle, e più pietosa, c solo
Lo scontrato guerrier batte nel suolo.
Dismonta Alceste , e corre al vinto a
piede.
Per torgli Tarmi, e tratto a lui T elmetto ,
Stupido, ed adombrato Elisa vede,
Riconosce ben ei l'amato aspetto.
La sua donna gentil, che morta crede,
E pur viva mantiensi in mezzo al petto.
Fermo attonito ei resta, e in tutto immoto
Non ha voce , nè suon , senso , nè moto.
E ben morto saria, eh’ erranti, e sparte
Sue virtù dal piacer fuggian dal core ,
Se non eh' in dentro alla più nobil parte
Premcalc il duol del suo commesso errore :
Quindi errando la vita, or toma, or parte
Nel reflusso di morte, e pur non muore;
Potea solo il dolor, sola la gioia,
Nè pon fare amendue , eh’ Alceste muoia.
L'amorosa consorte in fronte il mira
E veggendo, ch’ei resta , c non l’offende ,
Tacito un favellar dagli occhi spira
Che solo chiama , c nessun’ altro intende.
Crudel , poi dice , or chè non empi l’ira,
Chi mi salva da te , chi mi difende ?
Nelle tue mani è pervenuta Elisa,
Sol per restar dalle tue mani uccisa.
Già so ben io eh' è tuo piacere, Alceste,
Non ti turbar, non ti dirò consorte ,
Chè nè moglie nè viva Elisa reste.
Nè vo’che ’I viver mio noia t’ apporle.
Morir vogl’io, ma spargi tu di queste
Mie vene il sangue, c dammi tu la morte.
Fallo; chè più tardar? saziati ornai,
E sappi sol eh’ io non t* offesi mai.
E se già per pietade or è ’l quart’ anno
Ch’ebbe il servo di me, morta non fui,
Non ti doler, chè, benché viva , ni’ hanno
Poi tenuta sepolta i boschi bui.
E vengo a te per rimorire : avranno
Questo nuovo contento i desir tui,
Chè in quanto a te morrò due volte, e fla
Con tuo doppio piacer la morte mia.
Pentito Alceste a quel parlar tremendo,
Qual filo d'alga in sulla riva al mare.
La rea cagion dell' error suo contando ,
Versa per gli occhi fuor lagrime amare ;
E d'amor vinto, e di dolor parlando
Spesso ammutisce, e nel silenzio appare
Quel che serra la lingua , c più rivela
La v ista in lui , che ’l suo tacer non cela.
Ma poi eh’ a pieno il fallir proprio aper-
Le preghiere condì col pianto amaro, [lo,
Amaro a lui, ma ’l prntir suo scoperto
D’ ogni nettare d’ Ibla a lei più caro.
L’amorosa obliando ogni demerto [ro,
Con un guardo il mirò tranquillo, e chia-
Chc dell’ intimo cor nunzio verace
Perdon li porge , e li promette pace.
GRAZIANE
IL CONQUISTO DI GRANATA.
Colombo racconta la sua prima navigazione.
I ndi sorge il Colombo , e altrui palesa
II suo lungo viaggio , c T alta Impresa :
Poiché gii ordini appresi, e poiché tolto
Dai cattolici regi ebbi commiato ,
In Palo io mi trattenni . ove raccolto
De le mie navi era lo stuolo armato.
Qui pria che il sole il luminoso vottp
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92 POEMI
Da le rive del Gange avesse alzato ,
Del inio partir nel destinato giorno
Mi apparve in sogno un gioianetto adorno.
Di raggi adorno c di purpurea leste
Scote dorate piume , e in lieto aspetto
Cosi parlando il giovane celeste
M’ empie d’ alta speranza il dubbio petto:
Scaccia , amico , i timori e le tempeste
Che sinor ti agitar coti vario affetto;
Non errò tuo pensler quando ha creduto
Di trovar nuovo mondo, e sconosciuto.
Quel corpo clic universo il i ulgo chiama,
E che P acqua c la terra in sè comprende,
Forma una sfera, a cui l'antica fama
Duo poli consegnò con cinque bende.
Finse alcun per frenar l'umana brama
Che il mondo quindi agghiaccia, e quinci
incende;
Onde sotto i duo poli , e 1’ Equatore ,
0 non vada, o non viva abitatore.
Ma falsa è tal sentenza, c falso è il grido
De la gelida zona e «le l'ardente:
Vuol La somma Bontà che in ogni lido
Sia fecondo il terreo , viva la «;onle.
Circonda da l'aurora II mare infido
11 globo universale a I* Occidente;
E nel mondo non è strana contrada.
Ove l' noni non alberghi , ove non vada.
Con vario corso il Lusitano ardilo
Già scoprì l’Oriente, e resta solo
Che verso l’Occidente a l'altro lito
Tu spieghi adesso il fortunato volo.
Così il globo terrcn sarà compito.
Cosi fìa palesato il nuovo polo :
Misura i gradi , c le distanze osserva ,
Vedrai, che terre immense il mar riserva.
De P atlantica terra ancor si ascolta
Un debil suono a la presente etadc ,
E che un tremoto avendo 1* acqua sciolta,
Fece mar divenir quelle contrade.
Dal cupo oblio fu la memoria tolta
Di quell’ estreme c procellose strade,
Che possono guidare ad altri regni
Sottoposti a l'Occaso i vostri legni.
Nel trigono de l'acqua è già congiunto
Con massima unlon Saturno c Giove ,
Ed in sito partii mostrano il punto.
Che mostra usanze ignote, e terre nove.
Forse al mondo lunar tanto disgiunto
Fiachc l’uomo il commercio un di ritrove:
Vuol Dio eh* ogni secreto, ogni arte, ogni
lu secoli diversi a P uoni si scopra, [opra
Lo spazio che finora è sconosciuto.
EROICI.
Fia pari di grandezza al vostro mondo :
Quivi di gemme e d’or largo tributo
Porge d’ampi tesori il suol fecoiido.
Vanne, lo son P angel tuo, che reco aiuto ;
Ncn temer l'empia Dite, c ’l mar profondo ;
Vanne , soffri , confida ; a la tua gloria
Nuovo mondo rimbombai nuova istoria.
Qui tacque, c sparve, e me lasciò ripieno
Di piacer, di speranza e di stupore :
Sorgo , c parlo ai compagni , e sprono d
Con stimoli di gloria a nuovo onore, ^scno
Spirano aure tranquille in cicl sereno.
Solcano il cupo mar P ardite prore :
Fuggc il lito di Spagna , e solo appare
li mar del ciclo, e '1 ciel confiti del mare.
Per l' immenso Ocean drizzano il corso
Le navi a la sinistra, e si penieue
A P isole Canarie, ove soccorso [vene.
Di fresche acque prcndiam da fresche
Quinci veggiam d’ uu allo scoglio il dorso.
Clic versa fiamme in su le trite arene
De l’arsa Tenarife, onde altri crede
CIP indi si cali a la tartarea sede.
De la vergine Astrea varcava il sole
Con Palata quadriga i primi segni,
Quand'io, lasciale le Canarie sole.
Presi il viaggio ai desiati regni.
Di quel vasto Ocean per l’ampia molo
‘ A l’acquisto fatai volano i legni;
E s'internano ognor le vele ardile
Fra Pignole voragini infinite.
Nullo aspetto di terra a noi rimane,
Occupa l’orizzonte o il cielo , o il mare;
D’orrida morte infra quell’ onde insane
Fiero teatro ai naviganti appare.
Mirano ad or ad or le plaghe ispane
Quanto remote più, tanto più care.
Gli smarriti compagni , e loro avanza
Di salute e d’onor poca speranza.
Dei gradi de la Vergine celeste
Entrò ne la Bilancia il sol cadente ,
Nè terra apparve, onde vie più moleste
Cure agitar la sbigottita gente.
Freme, c par che a fatica ella si arresta
Di sfogar coulra me P impeto ardente;
E già mi accusa il pubblico timore
De la morte comun perfido autore.
Io tento di frenar l'impeto insano
Con sensi vari, e con ragion diverse
E di ricco tesor con larga mano
Prometto i premj a tante prove avverse.
Mentre ognun sospirava, ecco lontano
Verde prato nel mare a noi si offerse :
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IL CONQUISTO
Gode ognuno a tal vista, e spera ognuno
Di fecondo terren lito opportuno.
Ma fatti più vicini appar che l’ erba
Svelta dal lito era dal niar portata ;
Onde Tassi maggior la pena acerba
Ne la timida gente addolorata.
Quindi freme , minaccia , e disacerba
Con mordace parlar la mente irata ;
E de le sue querele e del suo sdegno
Divenuto son io ludibrio e segno.
Ma già P inferno a danno mio prepara
Novelle insidie , c congiurati l venti
Da le tetre caverne escono a gara ,
E gonfiano del mar Tonde crescenti.
Già si offusca nel cicl l'aria più chiara.
Se non quanto risplende ai lampi ardenti ;
Fulmina e piove e già confonde il loco
L'orribile procella a l’acqua e al foco.
Guerreggiando col mar l'aria imper-
versa ,
Questa con un diluvio, e quei con I* onde ;
Turba l vari pensier cura diversa,
E T periglio commi tutti confonde.
Stillato in pioggie il cicl in mar si versa ,
Il mar coi flutti urta dei del le sponde;
Pane allor, che dai venti in aria alzate
Navigassero in del le navi alate.
Fra sì vari perigli, e in mezzo a quella
Fiera tempesta alzo la mente a Dio ,
E V imploro a frenar l’alta procella
Con umil voce , e cor devoto e pio.
Vidi allor fiammeggiar lucida stella,
Che Tonde abbonacciò, Paure addolcio;
E quasi in pegno di futura pace
Dal ciel cadde nel mare un’aurea face.
Credono i flutti a lo splendor celeste
Che ai venti procellosi impone il freno ,
E i turbini fuggendo, e le tempeste,
Lasciano il mar tranquillo, e ’l ciel sereno.
Ma clic? se foche immense, orche funeste
Sorgono contra noi dal cupo seno?
Balene e tiburoni , c ciò che serra
Proteo di mostruoso, a noi fa guerra.
Spezzano i remi, assalgono i nocchieri
Gli orridi mostri, e rodono le navi.
Ed urtano d'intorno ingordi c fieri
Il nodoso timon, P ancore gravi.
Panni ancor di veder Lurgo , c (linieri,
Che i legni risarcian dai colpi gravi ;
ÀI primo un tiburon tronca una mano ,
L'altro un’orca inghiottì ne P Oceano.
A sì rigidi assalti , a si diversa
Forma di guerra oguun paventa e geme ;
DI GRANATA. 03
Ma sol io con la mente a Dio conversa
Ne Pimaginc sua fondo mia speme.
Questa di sangue in dura croce aspersa.
Questa, che adora il del, l’inferno teme,
Questa alzata da me sovra quei mostri
Gli rispinge del inar nei bassi chiostri.
Fuggon le belve, e prende alcun ristoro
La gente afflitta , affaticata e stanca ;
Ma breve è tal conforto appo costoro ;
Tosto scema P ardir che gli rinfranca.
Manca il vigor, mancano i cibi a loro ,
Varia la calamita, e se non manca
Il noto polo, almeno pigra e tarda
Con dubbiose vicende incerta il guarda.
Allor fu che occupò P animo afflitto
Del popolo confuso alta paura :
Già siam noi senza forze e senza vitto,
Già ne sembra fuggir la Clnosura.
Dispera ognun ; sol io mi serbo invitto ,
Poiché Pangel di Dio mi rassicura;
Spero, vinti i disagj e le procelle.
Vincere i mari , c dominar le stelle.
Ma non sperano gli altri ; anzi ciascuno
Contra me volge P ire , c i detti arrota ;
Contra me fremon tutti , e vuole ognuno
Che lo sdegno di tutti in me percola.
Il timor di naufragio e di digiuno.
Di mar sì vasto in regione ignota.
Fa che a mìo scherno in minacciosi detti
Sfoghi il vulgo adirato i chiusi affetti.
Dunque, dicean, per saziar d’uom vano
Il mal fondato ambizioso instinto
Fra gli abissi del torbid’ Oceano
Ha da restare il popol nostro estinto?
Sotto incognito clima, in mar lontano
Il nocchier temerario ecco si è spìnto :
Or che farà famelico e confuso ,
Se del polo c del mar perduto ha l’uso?
Questi sono gli acquisti c le venture
Che al re promise ? E noi seguirlo ancora ?
E noi lasciam che nel suo imperio ei dure ?
Chi si perde per lui dunque l’onora?
Deb perisca P autor di lai sciagure;
Del suo popolo invece egli sol mora ;
Si sommerga nel mar, sé stesso incolpe ;
Nacque r dal mar, castighi il mar sue colpe.
Direm che nel mirar le stelle e i sego) ,
In cui si aggira il portator del giorno.
Incauto sdrucciolò nei salsi regni
Pria eh’ aita recasse alcun d’ intorno.
Quinci, salvi noi stessi, c salvi i legni,
A le rive natie farem ritorno :
Altro non resta in così estrema sorte ,
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94 POEMI
Clic comprar mille vite in una morte.
Con lai detti accendean fili animi audaci
A muover contra me l’armi rubelle :
10 pien d’alte speranze, e di vivaci
Grazie espongo me stesso a tai procelle.
Deh, gridai, qual furore , o miei seguaci ,
La prudenza e la fè dal cor vi svelle?
Qual nube di follia la meute oscura ?
Chi vi spinge, infelici, a tal congiura?
Quella fè, che a gli Ebrei da rozza cole
Acque vitali a gli arsi labbri aperse.
Quella fè, che del Sol fermò le rote,
E la vittoria a Giosuè scoperse;
Quella può voi condurre a terre ignote
Fra Tonde procellose e Paure avverse :
L’ancora de la fede immobil reste.
Nè si temano i mostri c le tempeste.
Se fussc la mia vita oggi bastante
A comprar tante vite, io da me stesso
Vorrei precipitarmi al mar sonante,
E farmi autor di prospero successo;
Ma chi sarà che regga voi fra tante
Varie procelle, ov’io rimanga oppresso?
Chi dei venti , del mar, del del ignoto
Conosce T influenze, i siti e ’1 moto?
Ma concedo che siano amici i venti ,
Tranquillo il mare, e che torniate in corte.
11 re non crederà gli strani eventi
Che fingeste fra voi de la mia morte.
Vorrà con le promesse , o coi tormenti
li vero penetrar de ia mia sorte ;
E punirà quel barbaro pensiero
Clie a me la vita , a lui scemò l’ impero.
Meglio fia dunque avventu rarsi a l’ onde,
Che provar del re nostro il certo sdegno;
Del paese fatai le care sponde
10 già scorgo vicine a più d'un segno.
Mirate quegli augelli , e quelle fronde
Colà vaganti entro l’ondoso regno :
Questo è certo argomento, c mai non erra,
Clic non lungi di qua sorge la terra.
E che terra? Ivi l’ostro. Ivi gl’incensi,
Ivi nascon gli amomi, ivi gli odori,
E difendono sol quei regni immensi
Pochi, timidi e inermi abitatori.
Vedrete come largo il cicl dispensi
Al felice paese ampi tesori :
11 mar di perle, I rivi e le maremme
llisplendono colà d’oro e di gemme.
A che dunque temer? Duriamo, amia ;
Me stesso a tanti rischj anch’io confido;
Ecco tranquillo il mar, i’aure felici;
Ecco vidn T avventuroso lido.
EROICI.
Venti contrari , e turbini nemici
Non ci ponno vietare il fatai nido.
Duriam ; non ha l’inferno, o la fortuna
Su la nostra virtù possanza alcuna»
Così tentai con provvidi consigli
Del lor cieco timor fermare il corso;
Ma la ragion confondono i perigli ,
E ricusa la fame ogni discorso.
Non appare argomento onde si pigli
Speranza di salute c di soccorso;
E ci stimola ognor senso importuno
Di vigilia, di sete e di digiuno.
Quando tale io mi vidi, a Dio mi volsi,
E in brevi detti i miei desiri esposi :
Signor, questi a la patria io primo tolsi ,
Ed immense ricchezze a lor proposi.
Io spirato da tc primo rivolsi
Queste lacere vele ai regni ascosi :
0 tu, signor, mi scopri il nuovo polo,
0 salva gli altri , e fa che mora io solo.
Dissi ; e quasi che siano i nostri affetti
Favoriti nel del dai re sovrano.
Tosto volar duo candidi augelietli
Su la mobile antenna a destra mano.
Questi sgorgando armoniosi detti [no;
Temprar con lieto augurio il duolo insa-
E predissero altrui, ch’indi non lunge
La terra, onde volaro, il mar disgiunge.
Preso da tale augurio alcun ristoro,
Vediam che rosseggiava il di cadente,
E che d’altri augcilelti allegro coro
Cantando raddolcia T afflitta mente.
Fermiamo il corso infìn clic i raggi d’oro
Spieghi per l’orizzonte il sol nascente;
E con animo vario attende ognuno
Che succeda la luce a l’aer bruno.
De la somma Bilancia il Sol correa
Del temperato segno inverso il fine,
E dopo otto carriere entrar dovea
Del lucido Scorpione entro il confine,
Allor che di Tilon la bella Dea
Le bramale scoprì terre vicine :
Vaga è la spiaggia, e i riguardanti invita
D’odoriferi fior l’erba vestita.
Di tenerezza e di piacer discese
A ciascun per le guancie un lieto pianto,
E ciascun con le palme al cicl distese
Di Galizia adorò l’ apostol santo.
Quinci rendono a me de l’ alte imprese
Con vario applauso il fortunato vanto :
Tutti accordano i delti a mio favore ,
Tutti accusano umili il lor timore.
Da varie parti in su T amena riva
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IL CONQUISTO
Concorse intanto il popolo straniero
Per osservar chi sia coliti che arriva ,
E qual sia la sua patria e ’l suo pensiero.
Pende al color de la matura oliva
De gl* inculti abitanti il volto nero :
Sono essi ignudi , ed agili e robusti
Hanno dai caldi raggi i corpi adusti.
Sovra lievi battelli andiamo al Ilio,
E su il caro terren giunti in breve ora,
Lagriinando di gioia intenerito
Ognun bacia la riva, e ’l cielo adora.
Con lieta pompa e con solenne rito
11 possesso reai prendesi allora ;
E ’l governo de l’ Indie a la mia cura
Conferma il vulgo, e fedeltà mi giura.
Seguendo gli abitanti il chiaro esempio,
A l’ispanico re giurano omaggio :
10 dopo alzo una croce, e fondo un tempio
A memoria immortal del gran passaggio.
Quivi rendo le grazie, e i voti adempio
Del nuovo mondo, e del fatai viaggio :
Concorrou gl' Indiani , e mansueti
Osservano di Dio gii alti secreti.
Lungo sana, s’io raccontar volessi
Di quei regni idolatri ogni costume :
Basta saper, che in breve a lor porgessi
De la fede cristiana ii vero lume.
E sol breve dirò, drivi scorgessi
D'oro folgoreggiar gonfìo ogni fiume;
E clic nei monti , preziosi c fini
1 diamanti lampeggino e i rubini.
L’aria è salubre, e temperato il sole.
Misto al florido aprii ride il settembre.
Onde i pomi congiunti a le viole
Primavera d'autunno altrui rasserabre.
Donne sincere in semplici carole
Mostrano senza colpa igmide nieinbre ;
11 vizio non alberga in mente pura,
A cui norma di legge è la natura.
Producono le piante amomi c incensi ,
DI GRANATA. OS
Nutre porpore e perle il ricco mare,
Con fortunata messe i campi immensi
Danno miniere preziose c rare.
Par che prodigo quivi il ciel dispensi
Ciò che scarso e diviso altrove appare;
Con felice stagion la terra serba
Vaghi i fior, dolci i frutti , e verde l' erba.
Mentre io godea di quel paese ameno
Le delizie e i tesori, arriva al lilo
Gente armata di frrccie e di vencno.
Che move in guerra esercito influito.
Senza fò , senza legge e senza freno
Corre a libere prede il vulgo ardilo;
Sono delti Caribi , e ai loro insulLi
Lasciano gl’ìndi imbelli i campi Inolili.
Contra costoro a sollevar gli oppressi
Impugnai l’armi in generai conflitto;
Ruppi l’orgoglio, e l’ impeto repressi,
K tolsi al giogo indegno il vulgo afflitto.
10 primo dei Caribi il duce oppressi
Con duo ferite in mezzo al sen trafitto;
Mossa la gente mia da tale esempio
Fe’ del barbaro stuolo orrido scempio.
Vinti appena i Caribi , accese i cori
De gl’indiani ai nostri danni AlcttO;
Onde per rintuzzare i lor furori
Fui di pugnar, d’ incrudelir costretto.
S’inchinarono umili i perditori ,
E per legge accettaro ogni mio detto;
E fu mio vanto in sì remota sede
Stabilire il battesmo , alzar la fede.
A la riva del inar poco lontana
D’alta rocca fondai poscia le mura,
E con altri lasciai Diego d’ Arana ,
Che del loco difeso abbia la cura.
Quinci scorsa la terra, a cui d’ Ispana
11 titolo preposi c la ventura.
Io risolvo portar del memorando
Successo i primi avvisi al gran Ferrando.
CANTO VIGESIMOQUINTO.
Parlata di Fernando agii Spagnuoli e di Alimoro ai Mori
Già di belliche trombe il suono altiero
Chiama dal mar la sonnacchiosa Aurora,
Che presaga del di sanguigno e fiero,
D’un torbido vermiglio 11 ciel colora.
Sorge nel fcdel campo il re primiero,
E lieto in volto 1 popoli rincora ;
Indi gli schiera, e con mirabile arte
Divide 1 siti , c gii ordini comparte.
Con sembianza di luna In doppio corno
Il saggio re l’esercito dispose :
Egli il mezzo ritenne, c parte intorno
Col duca di Sidonia a destra pose.
Stese parte a sinistra «al mezzogiorno,
E ’l duca d’ Alva a cura lor prepose :
Stettcr distinti In debiti intervalli
A difesa comun fanti e cavalli.
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96 POEMI
Fremeano i (Catalani, c quei che manda
La fertile Sicilia al destro lato ,
Quei che Maiorca e Andaluzia comanda.
Quei che il freddo A ragone avean lasciato ;
Ma si vedea ne la sinistra banda
Di Cordova c Valenza il vulgo armato :
Quei di Leon, d’Àsturia, eque! che a prova
Con Murcia alpestre invia (bastiglia Nova.
Nel mezzo intorno al re viene il restante
Del campo invitto, ed ei medesmo è duce,
E con augusto intrepido sembiante
Sovra un baio corsier d’ostro riluce.
Fra i piti grandi lo siegucErnando avante,
Seco al pari Darassa il re conduce ;
Poi dice ad Allabruno : ove la selva
Copre il fianco nemico, i tuoi rinselva.
Quando Ha poscia il gran conflitto acce-
Tu del campo africano urta le spalle, [so,
Ond'egli ria con maggior danno offeso,
E di sangue nemico empi la valle.
Te di tale opra esecutore ho preso.
Che puoi della vittoria aprire il calle :
Cosa nuova da te non si richiede.
Ma l’usato valor, l’usata fede.
Andrò nel bosco, il ravalicr rispose,
Per insolite vie come ti aggrada ,
E dove più saran Tarmi dannose,
A la vittoria io li aprirò la strada.
Ben è ragion che tu T usate cose
Ti prometta, o signor, da la mia spada :
Mi fla legge fatale il tuo comando :
Vivrò vincendo, o morirò pugnando.
Tacque, c di sua fortuna i duri eventi
Troppo veri augurò con questi detti :
Indi i suoi di rapine e d’ ira ardenti
Entro al bosco vicln guida ristretti.
Trascorre il re veloce, c a Taltre genti
Propon di nuove glorie usali effetti ;
E magnanimo parla in tal maniera
A l’esercito suo di schiera in schiera :
Se non fossero a rne per tante prove
Note T opere vostre, o miei soldati.
Forse in voi tenterei con arti nove
Seminar di virtù sensi onorati.
Direi che le vittorie e i premj altrove
Sospirati da voi sono adunali
In questo giorno appunto, c in questo loco,
Dove immenso 11 guadagno, e ’1 rischio è
poco.
Direi che in quelle schiere ed In quel
È riposta dei Mori ogni speranza ; [duce
Onde , se il valor prisco in voi riluce.
Vinti costor, non altro intoppo avanza.
EROICI.
Direi che quella turba in guerra adduce
Priva d’armi, d’ardire e d’ordinanza.
Non rispetto d’onor, legge di fede.
Ma con tema servii brama di prede.
Direi eh* audace si, ma non esperto
D’arti guerriere il capitan garzone
Forse nei boschi d’orrido deserto
Con le belve africane ebbe tenzone.
Ma Tonor di tal opra e di tal merto
Diasi a privato awcnturier campione;
D’altra lode si vanta, e d’altra legge
Chi gli eserciti aduna, e chi gii regge.
Dirci più chiaro, e vi porrei davante
De la perdita il danno, e più lo scorno.
La patria lagrhnosa e supplicante,
I.’ afflitte mogli, e i mesti figli intorno,
lo vi direi che tante ingiurie e tante
O vendicar dovete in questo giorno,
O che avete a patir miseri servi
Del Moro vincitor gli odj protervi, [glio
Ma ciò tralascio, e rammentar non vo-
Quanto acerbo saria mirar da gli empj
Con grave sì , ma inutile cordoglio
Violati i sepolcri , ed arsi i tempj.
Pensate di veder barbaro orgoglio
Far de 1 teneri figli orridi scempj ;
Pensate di veder, che prigioniere
Servono a sozzo amor le donne ibcre.
Tutto lascio da parte, c non ritardo
Con le parole mie le vostre prove ,
Nò propongo, o miei fidi, altro riguardo
A la virtù già conosciuta altrove.
50 che voi non temete il suon bugiardo
Di linguaggio slranier, di genti nove;
Tirchi, Egizi, Etiopi ed Indiani
Sono vani romori , e nomi vani.
Quante volte da noi vinti restaro
In varie guerre i Saracini c i Mori,
Da cui per vanto, c per trofeo più chiaro
Questa gente deriva i suoi maggiori?
Con tra il ferro cristian dehil riparo
Son di cuoio e di lin rozzi lavori :
Durate voi , che in una breve pugna
51 vince il campo, e la città si espugna.
Così poi goderà dopo mille anni
Intiera libertà T afflitto regno,
E del vostro valor, dei vostri affanni
Nobil frutto sarà fatto sì degno. [ni
Mache più? Tonor vostro, e gli altrui dan-
lo preveggo distinti a più d’un segno :
Son vosco, ma per me nulla desio;
Le prede a voi , serbo le glorie a Dio.
Disse , e tonò da la sinistra il cielo ,
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IL CONQUISTO
Un baleno indorò con l'aria il campo ,
E dei suoi detti accompagnando il zelo
A ia nuora battaglia accese il campo.
Cinto Michel di luminoso volo
Fu l' autor di quel tuono, e di quel lampo :
Dei Cristiani a favor schierò quel segno
(Cosi crede pietà) l’empireo regno.
Da l’altra parte il giovine Alimoro
Con forma cgual l’esercito dispose :
Per sè tenne nel mezzo il popol moro ,
Gli Egizi , e quel di Barca a destra pose.
Collocò da sinistra incontro a loro
I Neri , e gii Etiopi , indi prepose
II circasso Orcomanne al destro lato ;
Da Termute il sinistro era guidato.
Chiama poscia i Numidi e i Trogloditi,
Esperti sagittari, e loro impone
Che precorrano ognun lievi e spediti ,
E dian principio a la crudel tenzone.
Con presidio opportun lascia muniti
Gli steccati , e gl'infermi ivi ripone,
E gl’ inutili a l’armi : in colai guisa
La gente saracina era divisa.
Schierato il campo, il giovine africano
Scorrendo va sopra un destrier feroce
Di pel morello , e di tre piè balzano ,
E col guardo favella , c con la voce :
Non varcaste l’Atlante, e l’Oceano,
E de l’erculeo mar l’orrida foce,
Guerrieri miei, perchè arrivali in Spagna
Voi perdeste , e fuggiste a la campagna.
So che dal patrio lido aura d’ onore
VI spinse a liberar gli oppressi amici j
E so che voi col solito valore
N’anUrete a soggiogar gli empj nemici.
Dunque inutil sarà che al vostro core
DI GRANATA. 9T
Io procuri accostar caldi artifici
Per infiammarvi a quella pugna istcssa
Chevoi tanto bramaste, e che si appressa.
Sol dirò che in breve ora èqui ristretta
Libertà, servitù, vergogna, e gloria,
E che quinci da voi PAfric’ aspetta
0 di biasmo, o di lode alta memoria.
Se vincete, lo vedrò tosto soggetta
I.a Spagna riverir la mia vittoria ;
Granata goderà gli antichi onori ,
E saran vostre prede ampi tesori.
Nè vi rechi, o soldati , alcun spavento
0 Ferrando,* l’esercito cristiano; fto.
Poiché alfine il lor grido è un fumo, un ven-
Che sparisce vicino , c appar lontano.
Quel titolo di Grande è un ornamento,
Che dona un re sagace a un popol van«,
Che non sa de la guerra i duri modi ,
Ma fra i lussi di corte usa le frodi.
Vinse talor, noi niego, e di ciò fanno
Questi campi distrutti aperta fede ;
Ma fu de l’ onor suo , del nostro danno
La discordia dei Mori unica sede.
Or non vagliono più l’arte c l’ inganno;
Sofferenza c valor l’ opra richiede :
A noi dunque farà breve contrasto
Di gente ambiziosa inutil fasto.
Su, a l’armi su, voi non sperate aitron-
Chè vincere, o morire oggi conviene ; [de ;
Del procelloso mar le torbide onde
Tolgono di fuggir l’ ultima spene.
0 drizzate i trofei su queste sponde ,
0 morite , o vivete a le catene.
Ma del vostro valor perchè diffido 1
Noi vinccrem, voi seguitate, io guido.
&
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POEMI SACRI
TORQUATO TASSO.
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
GIORNATA PRIMA.
Nell» quale Dio creò il Croio , U Terre, e la Luce, e la distinse dalle tenebre.
Padre del cielo , e tu del Padre eterno
Eterno Figlio , c non creata prole .
Dell’ lmmulabil mente unico parto;
Divina iminago, al tuo divino esempio
Egual ; e lume pur di lume ardente :
E tu, che d’aml>o spiri, e d'ambo splendi,
O di gemina luce acceso Spirto ,
Che se’ pur sacro lume , e sacra fiamma ,
Quasi lucido rivo in chiaro fonte ,
E vera immago ancor di vera iminago ,
In cui sè stesso ’1 primo rscmpioaggu iglia
(Sedircontiensi).c triplicato Sole, [stri;
Clic Palme accendi, c i puri ingegni i 1 In-
sani o don, santo messo, c santo nodo,
Che tre sante persone in un congiungi ;
Dio non solingo, in cui s'aduna ’l tutto,
Che ’n varie parti poi si scema e sparge :
Termine d’infinito, alto consiglio,
E dell'ordine suo; divino Amore,
Tu dal Padre, c dal Figlio in me discendi,
E nel mio core alberga ; e quinci c quindi
Porta le grazie, e ’nspira i sensi c i carmi,
Perch'io canti quel primo alto lavoro,
Ch’fc da voi fatto, c fuor di voi risplcndc
Maraviglioso, c '1 magistero adorno
Di questo allor da voi creato mondo ,
Jn sci giorni distinto. 0 tu l’ insegni, [so,
Cbc’n un sol punto chiudi 1 spazj.c’lcor-
Che per oblique vie sempre rotando
Con mille girl fa veloce il tempo.
Piacciati ancor clic del tuo foco all' aura
Canti ’l settimo di, soave e dolce
Riposo eterno, in cui prometti, e rendi
Non pur sedi lucenti, e gioia e festa.
Ma di breve, terrena, incerta guerra
Alfin certe lassù corone e palme,
E trionfo celeste. 0 pure intanto
Questa quiete, in cui m'attempo, e piango
(Se quiete è quaggiù fra '1 pianto c l’ira)
Somigli quella, a cui n’invita e chiama
D'iiifallibil promessa alta speranza.
Ch’ai suon d'eterna gloria ’l cor lusinga.
Tu le cagioni a me del nuovo mondo
Rammenta ornai , prima cagione eterna
Delle cose create innanzi al giro
De’ secoli volubili e correnti.
E qual pria mosse Te, cui nulla move,
Motor superno, alla mirabil opra.
Già novissima esterna, ornai vetusta, [bo ;
Che lutto aduna e tutto accoglie ’n grem-
E serba ancor le prime antiche leggi ,
Mentre risplcnde pur di luce c d’oro
E di vari colori e varie forme
Mirabilmente figurata a’ sensi.
Dimmi, qual opra allora, oqual riposo
Fosse nella divina e sacra mente
In quel d'eternità felice stato.
E ’n qual ignota parte, e ’n quale idea
Era l'esempio tuo, celeste Fabbro,
Quando facesti a te la reggia e ’l tempio.
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LE SETTE GIORNATE
Tu, che ’l sai, tu ’l rivela: e chiare e conte,
Signor, per me fa’ l’opre, I modi e Parti.
Signor, tu se’ la mano. Io son la cetra ,
La qual mossa da te , con dolci tempre
Di soave armonia risuona , e molce
D'adamantino smalto 1 duri affetti.
Signor, tu se’ lo spirto , lo roca tromba
Son per me stesso alla tua gloria ; e langue.
Se non m’ Inspiri tu , la voce e ’l suono
Tu le tue maraviglie In me rimbomba.
Signore : e Ila tua grazia ’l nuovo canto :
Perchè non pur s’ ascolti In riva al Tebro,
Al bel Sebeto, all* Arno, al re de* fiumi ,
Al Mincio, al Brembo, al Rcn gelato, all’ I-
Ma dove ’l Nilo i suo’ vicini assorda, [stro,
E quei che fa più sordi errore e colpa ,
Desta per tempo , o tardi a’ sacri accenti.
Pria che facesse Dio la terra e ’l cielo,
Non eran molti Del , nè molti regi
Discordi al fabbricar del nuovo mondo.
Nè solitario in un silenzio eterno
In tenebre viveasi ’l sommo Padre-
Ma col suo Figlio e col divino Spirto
In sè medesmo avea la sede e ’l regno;
De’ suo’ pensati mondi alto Monarca.
Perch’opra fu ’I pcnsicr divina, interna,
Nè d'uopo a lui facean le schiere e l’armi,
Nè teatro alla gloria, in cui rlsplende
Solo a sè stesso , e parte altrui s' Involve.
Ma narrarnon si può, nè ’n spazio angusto
Cape dell' Intelletto umano c tardo,
Come ’n sè stesso, e di sè stesso ’l Verbo
Generasse ab eterno ; c ’l sacro modo
Di sua progenie; e l’ineffabll parto
Del suo Figliuol , clic ’n maestà sublime
A sè medesmo adegua assiso a destra.
Taccia l’amica ornai Grecia bugiarda
La progenie di Celo e di Saturno,
E de’ cacciati Del le tronche parti ;
E i Giganti c 1 Titani al fondo avvinti
Della tartarea, tenebrosa notte;
E gli usurpati seggi , c ’l figlio ingiusto
Contaminato dal paterno oltraggio;
E quella , che dal capo el fuor produsse ,
Dea favolosa, e collo scudo e l’asta;
E con Osirl c col latrante Anubl
Taccia i suo' mostri 11 tenebroso Egitto,
Che d'antiche menzogne ’l vero adombra.
0 (se n’è degno) il chiaro suono ascolti
Di lei, ch'uscio dalla divina bocca
Dell'altissimo Padre innanzi ai tempo
Delle cose creale , e seco alberga
D’ antica eternità gli eccelsi monti ,
DEL MONDO CREATO. 99
Primogenita sua nell'alta luce,
A cui la mente umana aspira indarno.
Onesta nata di lui figliuola eterna
Sempre fu seco, e ’l raggirar de' lustri
Non l'è vicino, o ’l variar degli anni.
E non erano ancor gli oscuri abissi ,
Nè rotto avean la terra i primi fonti ,
Quando fu conccputa; e l'erto giogo
Non alzavano ancor Pirene ed Alpe,
Ossa, Pello ed Olimpo e ’l duro Atlante
0 gli altri monti ; e dall' aperto fianco
Non correan ondeggiando al mar i fiumi
Dalle quattro del mondo avverse parti ,
Quando lei partoriva ’l sommo Padre.
Seco era allor eh’ a’ ciechi abissi intorno
Egli facea l’oscuro cerchio e T vallo;
Seco era allor che ’n elei le stelle affisse,
K ('acque sue librando appese in alto;
Seco era allor ch’ali’ Ocean profondo
Termine pose , e diè sue leggi all’ onde.
E quand’ei collocò dell’ampia terra
1 fondamenti , era pur seco all' opre.
Seco ’l tutto fornio di giorno in giorno.
Quasi scherzando ; e fu l’oprar diletto.
Ma questa fatt'avea l’aurato albergo
Di chiare stelle e d’ oro adorno e sparso,
Alla creata Sapienza , e ’n parte
Lei dell'eternità felice e lieta.
Ma quell'albergo in disusate tempre
Per sua natura si trasmuta e cangia ;
h nel suo variar già quasi algente
Pur diverrebbe ottenebrato in parte;
E qtial caduca e ruinosa mole
' aclllar già potria; però s’appressa,
E giunge a lui che gli è sostegno, e ’l folce,
E tutto del su’amor l’illustra e ’nfiamma,
Talché non si dissolve e non paventa
Morte , o mina mai , nè caso , o crollo
Per vicenda di tempo, o per rivolta :
Benché pur d’IssTon la ruota , e il pondo
Del Mauri tano stanco altri racconti, (na
Ma ’n lui s’acqueta , e ’n contemplar s’eter*
La celeste magion, che ’n sè n'accoglie.
E quella da principio , a Dio presente ,
Pria ch’el facesse ’l suo lavoro adorno,
Seco era nel principio aliorch’ci volle
formar co' detti le mirabil opre.
É buono Dio , tranquillo e chiaro fonte.
Anzi mar di bontà profondo e largo,
Che per invidia non si scema , o turba :
Ma quel eh' è buono c ’n sè perfetto ap-
pieno,
La sua bonlate altrui comparlc , e versa.
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100 POEMI
Dunque ei di sua bontà fecondo e colmo,
La sparge, quasi un mar che ronde spar-
ga ;
La spiegò come un Sol che spiega 1 raggi :
E volere e natura In un congiunse.
E quinci fur quasi germogli o parti ,
Le cose poi creale, in cui si scorge
Più c men chiaramente; e dall’ eccelse
Insin all’ ime ancor riluce e splende.
E ’n tutte ’l Creatore alto vestigio
Dì lei c’impresse, c lìgurolle a dentro.
Ma della sua bontà la vera immago
In altre appare , c con sembianza illustre
Son degne d’innalzare al ciel la fronte.
Di sua divinità parte mostrando.
Anzi non è si vii di pregio, o ’n vista
Cosa fra le create , o si lontana
Dalle pure del ciel lucenti forme
Per faticosa via non move , o serpe ;
0 non s’ appiglia ’n terra, o ’n dura pietra,
Che bagni ’l mar, non si ritrova affissa ;
0 non giace in palude, o ’n ima valle,
In cui non si ritrovi , e non si mostri
Mirabil arte del suo Mastro eterno ,
Che fc’ di nulla ’l magistero c l’opre.
Questa fu l’ una del creato mondo
Alta cagion, ch'l vari effetti adempie
Di sè medesma, ed infinita avanza.
E non mai de’ suo* doni avara c parca ,
Sua largità comparto. A questa arroge
La gloria sua, che star non deve occulta.
Ma come in ciel fra gli stellanti chiostri ,
In quel sacro al suo nome, eterno tempio,
È chi l’ adori , e con perpetuo suono
D’alta voce immortale il lodi, e canti :
Sicché degli onor suoi lieto rimbomba
L’Orto c l’Occaso, l’Aquilone c l’Austro;
E dell’ eternità gli anticld monti
Risuonan tutti all'armonia superna;
Cosi deve quaggiuso aver la terra
Adoratori , c chi ’n sonoro carme
Sacrificio di laude a Dio consacri :
Perchè quanto adempiè superna ed alta
Bontà divina, ancor sua gloria adempia,
E colmi il tutto, c co’ suo' raggi illustri
Per le parti di mezzo c per l’ estreme.
Già di quel eh’ ab eterno in sè prescrisse
Dio, di’ è senza principio e senza fine,
Era giunto ’l principio c giunto ’l tempo
Col principio del tempo. E qual di gorgo,
0 di pelago pur tranquillo ed alto,
Chcsenza'lmotoel’ onde, e posi e stagni,
Esce talvolta ’l rapido torrente :
SACRI.
Tal dall’ eternità , che ’n sè raccolta
Si gira, e di sè stessa è sfera e centro.
Ornai prendeva ’l tempo ’l molo, c’i corso,
Quando ’l suo Creator lo spazio al passo,
E la misura diè , lo stato eterno.
Gl’ invisibili oggetti appena intesi,
(Se lece dir a> ariti) erano acanti.
E l’origin degli altri esposti a’ sensi,
Già cominciava alior, che ’l sommo Padre,
Che ’l suo Figlio c ’l suo Spirto all’ opre
esterne
E comuni fra Ior, non lascia addietro.
Diè ’l pensato principio al nuovo mondo,
Più d’ogni creatura antico e prisco.
Il sommo crei creando, e l’ima terra.
Ma come di sublime c chiaro albergo,
Glie pareggi le cime agli erti colli ;
E gli aurei tetti infra le nubi asconda;
li principio, che ’n lui si loca e fonda.
Non è l’ albergo ancora : c ’n calle obliquo
Non è ’l principio suo l’istesso calle :
Così lo stabil punto , onde si volge [po,
li tempo in sè non è ’l suo spazio o T torn-
eile parte dal principio, e ’n lui ritorna.
Dio fece nel principio ’l cerchio estremo,
E quella, eh’ a noi par costante e salda
Sede , pur fece in mezzo all'ampio giro;
Nè fu del suo poter, che sia disgiunto
Dell’eterno volere , ombrato effetto ,
Come lalor del corpo opaco, e denso [gio;
È l’ombra, e del lucente ’l lume e ’l rag-
E ’l voler fu potere ed opra eletta.
Ma siccome di creta in Lesbo, o ’n Samo
Mille vasi compone, e ’n mille guise
Il suo buon mastro li colora e pinge ;
Nè consuma ’l poter coll’arte insieme.
L’arte infinita, onde pon fine all’ opre :
Cosi del mondo il Fabbro eguale a un
mondo
Non ha la possa, che soverchia ’l tutto,
E mille mondi e l’infinito eccede.
Quel che ne’ vari e smisurati campi.
In cui trovar non lece il sommo, o l’imo,
Nè ’l manco ivi segnar, nè ’l lato destro;
Dal vago incontro di minuti corpi
Commossi a caso, e ’n lungo error volanti,
Simili a quei eh’ ove risplcnde ’l Sole,
Talor veggiamo in varia turba c mista,
Fa vari mondi , e li riforma c guasta,
E di sito diversi e di figura :
Meutr’ egli insieme gii congiunge, o parte,
Tela forma d’Aracnc, e fral contesto.
Che leggermente poi disperde, o solve
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tot
LE SETTE GIORNATE
Della fortuna errante ’l solilo c l'aura,
0 'I dubbio respirar del corso Incerto.
Ma queste (se dir lece) alte colonne [già,
Forma in ben salda base, c ’n lor s’ appog-
Come a lui piace , la profonda terra ;
E crollar non la può tempesta, o turilo,
Ma solo II suo voler la move e scuote.
Il suo voler, che d'infiniti abissi
Ha tenebrose, oscure, alle latebre,
In cui s’ aperti avesse i ciechi lumi
Quel , eh’ 1 termini tolse al vasto mondo ,
Le fiammeggianti mura a terra sparse,
E ’l vano immenso col pensier trascorse,
Non avria dato a Dea fallace ed orba
Della terra c del del lo scettro e '1 regno.
Folle! clic non conobbe ’l modo e l’arte,
Per cui creato è ’l mondo, al primo esem-
Chc '] divin Architetto in sè dipinse [pio,
Maggior dell' opraassai, che poscia offerse
Quasi da contemplare oggetto al sensi.
Ma qual mastro terren scolpisce c forma
Di preziosa gemma In giro angusto
Il ciclo e I suo’ lucenti e vaghi segni ;
Tal 11 Fabbro immortale In queste im-
Sparse di varie luci erranti sfere [presse
L’ interna idea , cui non è pari il mondo :
E da lei stanca è la materia , e perde ,
La qual creata fu dal primo Mastro ,
Che fece l'opra, e non eletta altronde,
Ch’ altra origine a lei si cerca indarno.
Ella al suo Creator si volge , c veste
Vaga di sua beliate : e ’n rozzo grembo
Mille forme colora ; e in mille lumi
Della sua luce in varie guise accende.
Chi pone 1 due principj , c ’l doppio fonte ;
E quinci 1 beni sol deriva, quindi
Origina di mali ampi torrenti ;
0 divide l'imperio, o ’n due l’adegua
E di tenebre un Dio si finge , ed orna ,
E fa di sua malizia a lui corona.
E se ciò fosse, in contrastar rubella
I.a materia sarebbe, o schiva, o tarda
Si mostreria sotto ’1 contrario manto
A quel che la’nvaghì pur dianzi e piacque.
Ma noi veggiam eh’ ella bramosa e pronta
Le forme accoglie, e le trasmuta e varia ,
Come piace a colui che si l’ adorna.
Forse nelle più belle è più costante ;
Ed in guisa di lor sue brame adempie,
Che spogliar sen ricusa, anzi che ’l mondo
Ruinoso vacilli ; e ’l corso obliquo
Cessi del Sole e dell’ erranti stelle.
Ma sia pur questa in elei materia, od altra
DEL MONDO CREATO.
D'altra ragion : d’eternità superba
La materia non vada , e non s’agguagli
Per antica vecchiezza e veneranda
A quel degli altri, e suo vetusto Padre,
E vetusto Signore e Dio vetusto.
Dunque lo Spirto suo non poscia, od ante,
Ma colle forme la creò spirando,
E di bellezza e di bontà divina
Spirollc al seno un desiderio interno.
Un vago istinto, anzi un leggiadro amore,
Ch’alia natia diti fine orrida guerra,
Per cui ritrosa, fella c ribellante
Era a sè stessa , in suo furor discorde ;
Se dir si può che mai la terra al foco
Fosse confusa In quella orribil mischia.
Nè foco era, nè terra, e l’aria e Fonde
SI distruggean nelle contrarie tempre.
E ciascuna di lor nel dubbio acquisto
Se medesma perdeva , e fiera morte
Era la sua vittoria, e l’imo al sommo
Male adegualo, e mal confuso appresso.
Onde quella incomposta e rozza mole
Nè tutto era, nè nulla, c nulla parve
Fu questa forse immaginata guerra ,
E d' altra guerra pur immago ed ombra ,
E simulacro di tenzon maligna ,
Che fe’ natura al suo Fattore avversa.
Ma l' alto Dio creò quasi repente
La materia c le forme. E qual sia prima
Oquesta,o quelle, io non mi glorio e vanto
Già di provare in periglioso arringo ,
Dall'accademia uscito c dal liceo.
Sla pur l’arte divina è prima , c vince
L' altre per dignitalc, c vince ’l tempo.
Ma l'arte umana pargoleggia, c sembra
Negli scherzi fanciulla all’ opre intorno.
Prima vestia le mansuete agnelle
La bianca lana; c poi la tesse, c Unge
11 buon testorc, e ’n rugiadosa conca
Porpora coglie pur Sidone e Tiro,
Quasi marini fiori. E l'alto pino
Pria con acute foglie in verdi monti
Frondeggia, o pur l'abete, o l’orno, o ’l
Poscia F arte ne fa le navi e l’ aste, [cerro ;
Prima nell’ampio sen la terra avara [ma
Nasconde ’l ferro, e quinci ’l tragge, e for-
L' industria umana o spada, o lucid' elmo,
Od innocente a’ duri campi aratro.
Ma quella innanzi al tempo, e innanzi al
Arte divina fe’ la terra e ’l cielo, [mondo
Ed intiero ciascun , nè parte addietro
Lasciò ; ma riempi gli estremi e ’l mezzo.
E ’n lor dispose ’l foco e l’ aria e l’ onda ,
102 POEMI
Ch'alia terra, gravosa c ferma sede.
Stese le braccia mormorando intorno,
Vaga , lnstabil , ma grave ; e ’n giro cinta
Fu dall' aria più vaga c più leggiera.
E levissimo '1 foco a lei corona
Fece , e vicino al del suo loco scelse.
Cosi l’ arte divina insieme avvinse,
Quasi catena inanellata c salda.
Gli elementi fra lor vari c discordi,
E fra gli estremi per natura avversi
Pose in parte contrari , in parte amici ,
In due di mezzo : e fe' costante c fermo
In qnesta guisa , e ’ndissoltibil nodo.
Invisibile ancor la nuda terra
Era dianzi creata , e non adorna ,
Quasi nuovo teatro , e voto I seggi ,
In cui non sla chi miri , o pur contenda :
Chi nati ancora 1 miseri mortali
Non erano a vederla , c vasta ed erma
Solitudine incuba i campi, e 1 monti
Empica d’ orrore , e le deserte arene ,
Non spiegavano ancor l' ombrose chiome
Gli alltcri eccelsi ; e di lor fronde ed ombra
Non facean vaga scena a' verdi colli.
Non fiorivano ancor rose e ligustri ;
E 1 giacinti e i narcisi c gli altri fiorì
Non diplngeano 'I seno a prati erbosi ,
Ni fean lieta ghirlanda a’ chiari fonti.
Era quasi coperta ancor dall’ acque ;
Chi parca tenebroso c fosco 'I velo ,
Ond' ascosa tcnea l’ orrida faccia
E le squallide membra e '1 rozzo grembo,
Quasi attonita ancor l’ antica madre.
ET del sublime ancor non era adorno;
Ni ’l miratili lavoro in lui distinto
Splcndea d’ un bel sereno e d’aurei fregj,
E di segni lucenti. E 'I Sol rotando
Non scuotca l’immortale ardente lampa.
Nè la candida Luna in colmo giro
Gli si opponeva , o con argentee corna
Per distorto cammin volgeva ’l corso.
Mancavan le carole e ’l suono c 1 cori ,
E delle stelle fisse c dell' erranti;
Lui non clngeano ancor l’altc corone;
Ni creata era ancor la vaga luce.
Ma sulla faccia degli oscuri abissi
Eran tenebre oscure. In tale aspetto
Nascendo ancor non si vedeva ’l mondo.
Ma qual fur (se spiarlo a noi conviene)
Quelle tenebre antiche e quegli abissi ?
Quando non anco il Sole ad altre genti
Portando T giorno : a noi la notte e l'ombra
Algente , usda dal grembo opaco e denso
SACRI.
Della terra , e giungeva insln al delo ?
Ni gli molte potenze incontra opposte
Gli abissi fur, com' altri estima a torto :
Ni le tenebre furo al bene avverse ,
E di gran forza potesti maligna.
Perchè se fosse pari al bene il male
Di possa c dì valor, perpetua guerra
Saria fra loro, anzi perpetua morte.
Morendo ’nsieme i vincitori e i vinti.
Ma se T ben di potere avanza e vìnce ,
Perchè non si distrugge ’i male, e sterpa?
Deh ! sari mai che senza mali il mondo
Solo di beni abbondi? e parte, o loco
Più non sì lasci all'Importuna Morte?
Ma trionfi la Vita , c Morte ancida
Nella vittoria? e dell'antica fraude
Nou rimanga fra noi vestigio , od orma ?
Or non ardisca ingiuriosa lingua ,
Che si rivolge in Dio, profana e lorda,
E le bestemmie in lui saetta c vibra ,
Non ardisca affermar che T mal derivi
Generalo da lui, eh' i largo fonte
Ond' ogni bene a noi si sparge e spande.
Perché niuu contrario (ornai distingui
Si genera dall' altro , o si produce.
Benché se cade l’ mio iu terra estinto,
Pur l'altro dopo lui risorge c vive,
E dai simile anzi i prodotto , e nasco
11 suo simil , come dal foco il foco.
Ma dalla chiara luce indarno uom tenta
Dar principio alle tenebre maligne ;
E dalla morte originar la vita ,
0 pur da' morbi la salute agli egri
E miseri mortali. Or non c'inganni
Falsa di verità sembianza e larva.
Non i natura T mal , non vera essenza :
Ni di lui ricercar lontane parti ;
Ni pur d'intorno a te riguarda, o fuori,
Come sia cosa in si fondata , c salda ;
Ma ’n tc stesso 'I ritrova, e’n mezzo all’alma
Rimira lui , pur quasi macchia , od ombra
Di volontaria colpa , c di gradita.
A tc medesmo sai perpetuo fabbro
De' propri mali , e li colori ed orni ;
E 'maghilo di lor, con vano affetto,
Pur com’ idoli amali , in te gli adori ;
Ma la vergogna e l’ infelice esilio,
E l' odiosa povertate , e quella ,
Che tanto ne spaventa, orrida morte,
Veri mali non sono. Or cessi , o lunge
Vada ’l timor. Ma i veri beni indarno
Ne’ contrari quaggiù ricerchi, o speri :
Benché sia mal, quando più i beni agogni.
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103
LE SETTE GIORNATE
L* esser privo di loro. Il loco adunque ,
Che privato è dei bene, il male adombra.
E le tenebre furo (o ch’io vaneggio)
Nell’aria, che di luce è priva, e cicca
Quaiitate , od affetto antico , o nuovo.
Ma se più antiche fur del nuovo parto
Dell' universo , il male è prisco e veglio :
Ma non convien che sia più vecchio 1 peg-
gio.
Dunque era luce eterna innanzi al mondo,
E le tenebre esterne ond’egli è cinto :
Luce, che luce alle beate menti,
A’ sensi no, ma quel ch'i sensi illustra.
E questa a’ sensi esposta adorna mole ,
Visibil lume, e sol di luce immago :
Immago che s’ adorna al primo esempio;
Esempio da cui lunge 11 Sole è raggio
Che si perturba spesso in nube, e ’n ombra;
Era luce increata innanii al mondo,
Forse e creata luce , e mille e mille
Lustri non solo e secoli volanti
Erano innanzi a lui rivolti In giro.
Ma quasi eternili (se dir convìensi),
Precedevano ancora ’l mondo, e ’l tempo
Da che furo creati ai primo lume
I secondi splendori , Angeli santi.
Nè già doveano 1 Principi celesti ,
Le Dignitari , e le Virtù sublimi ,
Tante armate lassù d' oro e d' elettro
Gloriose , immortali , elette schiere ,
Tanti eserciti suoi sita si lunga
In tenebre menare oscura e fosca.
S’eran dunque primier create menti,
Era creata luce ; e ’n festa e ’n canto
Elle gii si virean lucida vita,
A sembianza di lui eh' è vita e luce ,
Facendo I sacri balli e lieti cori,
E i sacrifici di sovrana laude ,
Allo splendor della sua gloria eterna ,
In quel sereno e luminoso impero.
E questa luce dagli antichi Padri
Fu gii promessa a' giusti, e 1 giusti avranno
Sempre luce immortai , sortiti a parte
Della luce de' Santi. Avranno incontra
Pene in tenebre eterne iniqui spirti.
Nelle tenebre allor de’ ciechi abissi
Lo Spirito disino, c sovra Tacque
Era portato , e 1* umida natura
Gii preparava. Anch'el presente all'opra
Spirando già forza e virtude all' onda ,
D' uccello in guisa , che da frale scorza
Col suo caldo vital covata, e piena
T rae non pennato ’1 figlio, e quii informe.
DEL MONDO CREATO.
E disse ; Fatta sia la luce; ed opra
Fu'l detto, al comandar del Padre eterno.
Ma ’l suo parlar suon di snodata lingua.
Nè percossa fu già, che l'aria imprima
Di sè medesma , e di sua voce informe ;
Ma del santo voler, eh* all’ opre inchina,
Quell' inchinarsi è la parola Interna.
Cosi la prima voce e *1 primo impero
Del gran Padre del elei creò repente
La chiarissima , pura c bella luce ,
Che fu prima raccolta , c poi divisa ,
E ’n più lumi distinta ’l quarto giorno.
Sgombrò l’orror, le tenebre disperse,
Illustrò da più lati il cicco mondo ;
Manifestò del ciclo il dolce aspetto ;
Rivelò con serena , alma sembianza
L’ altre forme leggiadre ; e d* ogni parte
Egli indusse la cara c lieta vista ,
Cioia della natura , almo diletto
Delia terra e del elei , piacere c gloria
Della mente e del senso, equasi a prova
Delle cose mortali e delT eterne.
Ed in un punto l'Aquilone e T Austro,
E parimente ancor P Occaso e P Orto ,
Tutto irrigato fu dall'aurea luce.
E rapido sembrò mirabil carro ,
Vieppiù del tempo e del pensier veloce,
Che disina virtù cosparga c porte.
E qual carro più bello , o più veloce ,
O bellissima luce , o luce amica
Della natura e della mente umana ,
Della divinità serena ìmmago,
Che ne consoli , e ne richiami al cielo,
Potea ’ntorno portar virtutl e doni
Celesti in terra a’ miseri mortali
Da quei tesori , e da quei regni eterni ,
Ch’a noi dispensa con si larga mano
De' lumi il Padre, e ’l Donator fecondo?
Come possente re di Persi , o d'indi.
Del grembo oscuro dell’ avara terra
Preziosi metalli insieme accoglie,
E dall' arene pur d’oro cospartc
E dal profondo mar le perle e gli ostri
Aduna ; e I bei rubini a questi aggiunge,
E ì bel smeraldi e 1 lucidi giacinti ,
E qual pregiata più s'indura e ’mpelra
Nell'Oriente luminosa gemma ;
Cosi dell'universo 11 Re superno
Nel elelo empireo ascoso a' vaghi sensi ,
E ignoto al contemplar degli alti ingegni.
Che misurar degli altri I giri e 1 corso ,
Ha di luce divina eterni ed ampi
Tesori , e quinci poi gli parte , o serba.
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104 POEMI SACRI.
Anzi Tlstesso ciclo è pura luce. La scompagnò dall’ altre, e quasi impresse
In cui nulla giammai si turba , o mesce. Della sua nota , onde sen va solinga.
Luce *1 suo tempio adorno, e l'alta reggia Questa è di del Signor, da lui s' appella,
E son di luce le corone e Tarmi, Chè nomarsi dal Sole a sdegno prende;
Onde gli eletti suoi circonda e veste. E da sè caccia 1 miseri mortali
Ma vedendo quaggiù creata luce. Intenti all' opro faticose e ’ndegno.
Disse, eli' è buona; e '1 testimonio aggiunse Questa è di del Signor grande ed illustre;
Della sua voce , anzi ’l giudizio espresso. Alfin , quando clic sia , sarà disgiunta
E perdi’ ò buona c bella, e non si vanti Dal numero de’ giorni, anzi degli anni,
Per bellezza di parti aggiunte insieme, E de’ lustri c de’ secoli correnti ;
E con giusta misura in un composte. Ned altra a lui sarà seconda, o terza.
La natura terrena , o la sublime ; Ma voi, che del Signor cercale ’l giorno.
Ni ricerchi in frondosa ed ima valle Deh non seguite i sogni antichi c l' ombre
Di mal cauto pastor gludicio errante, Di questo di nell’orrida tenèbra :
E fallace sentenza : Espcro in ciclo, Seguite ornai, eh’ a voi riluce c splende
Espero miri in cicl lascivo sguardo, La chiara dell’ottava e nuova luce.
Che Lucifero £ poi recando ’l giorno, I-a qual non corre faticosa al vespro :
E la sua desiata e chiara luce : Non ha sera, oconfìn di fosco, od' ombra;
E di sua puritatc I sensi appaghi, Ned altro in lei surcede in giro alterno,
Perch’ascenda la mente a’ primi oggetti. Giorno Unito da nemica notte;
Però Dio separò la chiara luce' : E costante sarà felice stato
Dalle tenebre oscure; c 1 nomi impose. Alfine, e resterà solinga ed una,
Queste notte chiamando, e giorno quella. Giorno , o secolo sia , che pur s’ eterni ,
E fece solo un di da mane a sera , Questa a voi dimostrò nc' primi tempi
Fra' tenebrosi c lucidi confini Del profetico spirto il chiaro suono.
Quinci e quindi ristretto, a cui rotando Questa poi dimostrò quando risorse.
Il Sol non stabili l'eccelsa meta, in guisa di Icone, il Re celeste.
Mentre in sè stesso pur ritorna e gira i E trionfò del tenebroso Inferno.
Ch’ el non aveva ancorla forma, o ’l corso, E quella clic per lui guerreggia e vince ,
Ma quel che fu del tempo eterno Fabbro, Santa Ghicsa di Roma , a voi T insegna ,
Gli dii lo spazio , la misura e I segni : E la celebra in sacri accenti , ed orna
E col quattro e cor tre rivolse in giro Di ben mille sacrate ed auree spoglie.
Le sue misure, e riempii d’un giorno, E d’altissimo seggio, in cui s'adora.
Che sette volte in sè si volge, c rlede Pur anco a voi la benedice, e segna
Con tal numero pur, lo spazio Intero. Quegli al cui sacro regno in cielo e ’n terra
Questa figura ha in sè principio c fine : Non è confine, o meta. E ben convlensl
Ed all’ eternità , non solo al tempo , Che l’Ottavo Clemente ’l giorno ottavo
Convlensl ; anzi del tempo èquasi uncapo; Della divina luce I cori illustre,
Però di esser primiera ancor si sdegna , E I rozzi , tenebrosi e tardi ingegni.
Perchè 11 suo Creator scacciala , e scevra
GIORNATA SECONDA.
Nella quale Dio creò il Firmamento, con le Stelle, e divise lo Acque superiori
dalle inferiori.
Anzi le porte del mirabll tempio, E del fervido Cane a’ raggi estivi.
Che ri portava d' una ad altra parte, E ’n lor già s'accogliea profana turba,
In lochi aperti c nell' aperto ciclo, Edes(inatialferroarmenti,ogregge, [do
Cui tetto non ricopre , o velo adombra , Tal son pur quelli, in cui n'alberga ’l mon-
Erano esposti alle pruine, al ghiaccio, Nella profonda sua parte più fosca.
Al torbido spirar d’orridi venti , Di lui parlando, c di terreni obietti.
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LE SETTE GIORNATE
Or da caliginose alte tenèbre
Già trapassali alla serena luce
Siam, dove in sette lumi appar distinto
Il candelabro, c ’neslinguibil lampa,
Lieta e sicura dal soffiar dell' Austro,
A Dio s' accende : c qui d' immondo alTelto,
O di brutto desio le parti sacre
Non ha contaminate T puro albergo.
Lunge , lunge , o profani , ite in disparte.
Or chi rimove a gran misteri il velo ,
Sicché n' appaia fiammeggiando in ala
L’alato Chcrubin, qual prima apparse?
Già nel suo Figlio avea creato il Padre,
Nel Figlio, eli’ è principio, il primo cielo,
Ch’è fuor degli stellanti e vaghi giri.
Già si godca tranquilla e stabil pace ,
Cui non perturba, o Tarla T corso, a destra,
Od a sinistra pur volgendo intorno.
Già coll' empireo del, di pure menti
Gli angelici splendori insieme acccnsi ,
Eran del sommo Sol diffusi i raggi :
E s' altri fur creati in altre parli,
Fur di grado mon alto, e meno eccelse
Ebber le sedi , c i loro officj e l’opre.
Già rivolgcasi da mattino a vespro
Lor conoscenza : e quasi iu lucid’alba
Ciascun in Dio mirando al ver s'illustra
Ma nelle cose quel saper s' adombra ,
E quasi assera : e già la grazia c '1 merlo
Gli fa beali, egli riempie, ed orna;
Quando continuò di giorno in giorno
Le sante maraviglie il Fabbro eterno.
Facciasi, disse, c sia costante c fermo
In mezzo all’ acque, il cielsparso di stelle,
Lo qual divide pur Tacque dall' acque.
E fece un chiaro ciel di stelle sparso,
Incontra 'I tempo di robusta forza ,
E saldo al raggirar d’ un lungo corso ;
Perch'egli al variar degli altri erranti
Sia quasi certa norma c certa legge.
E col denso di lui l' acque distinse
Vaghe, rare, sottili, preste c snelle,
O d'ondeggiante, o di gelata e salda
Natura in sè raccolta ; e dipartine ,
Altre sotto lasciando, altre di sopra.
Cosi Dio fece ; e '1 nome imposto al cielo
Da sua fermezza il firmamento appella.
Quel die l’uom chiamò poi stellante sfera,
0 pur girl stellanti : c fatto insieme
Fu da mattino a sera il dì secondo.
Come Dedalo o Scopa , od altro antico
D'artificio gentil famoso mastro
Prima raccoglie 1 peregrini marmi,
DEL MONDO CREATO. 105
E i lucidi metalli c i cedri eletti,
I quai del tempo c dell'età vetusta
L'iuvido dente non consumi, o roda:
Poi forma T tutto , e la superba mole [chi
Comparte e compie , eie sue volte egli ar-
Fonda sovra marmoree alte colonne ,
0 pur di Caria a’ simulacri appoggia,
E fa teatri c logge entro c d'intorno
Con lavori di Ionia e di Corinto :
Cosi di sua materia il Fabbro eterno
Pria l’universo informa e poi distingue
Le varie parti , e l’abbellisce ed orna.
Nè vero è quel che si descrive e mostra
Da' saggi , onde la Grecia ancor si vanta,
Che tutta la materia ai far d’ un mondo
Consumasse el nell' opra, e quinci awegna
Clic ne facesse un sol , che ’i tutto cinge,
E tutto accoglie ancor nel vasto grembo.
Ned infiniti sono i mondi e i cieli.
Coni' altri afferma, die d'opposta parte
II furor letterato adduce in guerra.
Ma Dio, clic generò la forma , e 'nsieme
La materia del mondo allor produsse.
Molli far ne polca , di bolle in guisa ,
Clic di spumoso umor riempie ’l vento.
Perché allato al poter che tutto avanza ,
Son quasi gonfie bolle i mondi c i deli.
Ma pur ne fece un solo il Fabbro eterno ;
Perch'uno era l’esempio, ed uno il ma-
E della sua virtù formollo impresso, [stro ;
L’no è l’ordine ancora, c ’n un si volge.
Ma ’n molte sfere si comparte , e gira
La somma delle sfere, o 'I sommo cielo,
Cile non ba moto , onde conosca 'I senso
limano e ’nfermo le sostanze eterne.
Corpo ancora non è, ma pura forma.
Clic di serena luce arde c fiammeggia;
E questo , empireo del fra noi s' appella.
L'altro, ch’è pur corporea c vaga mole,
E conosciuto ancor da’ sensi erranti,
In nove giri si divide e volve.
E della sua materia è lite c guerra,
Per cui la dialettica faretra
S'empie d’acuti sillogismi a prova
E n’armale nemiche avverse parti.
Altri pur di mistura informe c rozza,
Ond’ uscir gii elementi , il forma e finge
Ruinoso e caduco, esposto a morte.
Ma colla forma sua, clic tutto adempio.
Un suo desio leggiadro il tiene In vita
Eterna quasi ; ed alle cose eterne
Il fa sembiante in si mirabil vista.
Altri degli clementi il sommo e T puro,
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106 POEMI
Dall’ immondo e feccioso aduna e sceglie,
E ne figura gli stellanti chiostri ,
C‘ hanno dal foco la serena luce ,
E dalla terra ’l suo costante e saldo.
Questi libera ancor d’ orrida morte ,
Quasi giudice amico, il nato mondo :
Non per natura , che soggiace a fona
Di tenebrosa morte al duro fato;
Ma perchè ’l suoFattore'l regge, e’ifolce,
E sol per suo volere eterno il serba.
Altri vieppiù vicino a' primi tempi ,
De’ suoi quattro principi in sè diversi
Alternando le volte , il face c guasta ;
Ma come vuol Discordia» o vuole Amore.
E se Discordia è vincitrice in guerra.
Ma vinto Amor, nasce il sensibit mondo.
E s* all* incontro la Discordia è vinta ,
Amor vittorioso *1 suo riforma
Agl'intelletti , c ’n lui trionfa e regna.
Altri un vano intelletto affanna e stanca
Nella confuslon torbida c mischia
Dell* infinite parti : e quinci indarno
La mente folle s'argomenta, e ’ngegna
Di separarle. Altri corporea moie
Genera di figura In vari aspetti :
Di piramide acuta il sottil foco;
Di quadriforme poi lastabii terra;
DI venti quasi faccie il vago e leve
Spirante aer sublime egli compone,
E d’ otto r acqua : c vuol clic peso e corpo
Vane figure, e sema moto e pondo,
Dieno a* quattro elementi in varie guise.
Altri una quinta essenza al cielo assegna,
Sciolta da tutte qualitall umane;
E da morte ’l difende , c d’ogni oltraggio
Mortale ’l guarda, e nel suo corso eterna.
Ch’egli volge e rivolge In vari giri
Al suo Motor, come bramoso amante.
Ma che? nostra ragion ha corti i vanni
Dietro il senso fallace, e strada Incerta
Il vario moto ne dimostra e segna.
E perchè al mezzo pur s’inchini il grave,
Ed inverso l’estremo *1 leve ascenda,
E ’l corpo non leggiero e non gravoso ,
Dintorno al centro si raggiri c volga ,
E quinci e quindi a non veduti oggetti
Non trova ingegno umano aperto *1 varco :
E ne’ veduti ancor sovente adombra ;
Negli altri al troppo lume i lumi abbaglia.
Di qual materia sian le stelle e 'I ciclo ,
Dicalo quel che lui spiegò d’ intorno.
Qual picclol velo, o quasi leggier fumo
Formare ’l volle, c *1 fe' costante c fermo,
SACRI.
Più di cristallo assai ch'ai gel s' induri,
E lucido divenga in aspro monte ;
Più di metallo che s’impetri e stringa,
E renda, come specchio, altrui 1* immago.
Di seminante materia il Padre eterno
Fece ancor di cristallo un puro cielo
( Se le cose terrene alle celesti
Tanto pon simigliare), e questo ancora
Girò d’intorno alle stellanti sfere;
E sopra Tacque vi ripone e serba.
Quali acque, o Dio, sovra le stelle c ’l lume
Del Sol ponesti ? ed a qual uopo, o (piando,
Come a tc piace le riserbi e versi?
Son le sostanze spiritali e pronte.
Onde il tuo nome glorioso, eterno.
Di chiarissime laudi ivi risuona?
Ma che? ti loda la tempesta e ’l foco?
Son l’ acque forse la materia informe?
Ma da principio tu T imprimi c fingi.
Son Tacque gravi , ove non giunge il leve.
Che vola press’ al del, nè passa innanzi?
Dunque a natura in ciel minata è legge?
Ma del turbato ciel Torride porle
Tu apristi all’ acque, e le spargesti a terra,
Lei ricoprendo , c i più superbi monti ,
Quando, sommerso in grau diluvio’! moti-
Appena rlcovrossl a’ monti armeni [do.
Il seme de* mortali in fragil legno.
Sono adunque di pena c di spavento
L’ acque lassù nel ciel ministre eterne
A’ miseri mortali ? o pur son anco
Incontra ’l foco refrigerio e scampo,
Oud’hasuavita ’l mondo in varie tempre?
S’è necessario ’l foco all’uso, all’arte
Del viver nostro, e di natura amico;
Necessarie son Tacque, ’n varie sedi
L'uno dall’altro si difende e guarda.
E ’n paragon dell’ acque ha seggio angusto
La terra antica madre , e pieciol giro.
Però nel grembo degli oscuri abissi
Già nascosa si giacque; appena or mostra
Parte delle sue membra , appena innalza
Dalle spumose braccia al ciel la fronte.
Ma gran parte del inare anco è sommersa:
Nè sole accolte In un oscuro fondo
Son T acque ascose entr’ a perpetua notte,
0 fan sotterra un tenebroso corso :
Ma sovra 1 volto suo diffuse e sparte
Quinci vedi stagnar paludi c laghi ,
E sorger mormorando i chiari fonti ,
E Talte rive empir torrenti c fiumi.
Corron dall’ Oriente ldaspe ed Indo,
E degli altri maggior trascorre ’l Gange ,
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LE SETTE GIORNATE
Ed il Caspio e l‘ Arasse , e Cirro c Battro.
La Tana ancor, col l' onde 'I ghiaccio strin-
Nella salsa discende alla palude ; [ge ,
E dal Caucaso 'I Fasi al mare Eusino ,
Ball’ recidente ancor Tarteso ed lstro :
Quegli olirà le Colonne in mar si sparge,
Questi nel Ponto; e pria divide e parte
I popoli d’Europa, i campi e I regni.
Oh quanti ancor dagl’iperborei monti
Corron veloci , e da Pirenc e d’ Alpe ,
Distinguendo Germani , e Belgi e Celli !
Dal Mezzogiorno l' Etiopia inonda
II Nilo ; e i campi impingua al verde Egitto.
E ’l Cremete e l' Egon , e ’l Nlsio e ’1 Negro ;
Altri nd nostro mar si spande e mesce:
Altri si vota all' Oceano in grembo.
E l’ondoso Ocean superbo ’n vista
L'uuiil terra percuote, e lei circonda.
E fu secreta provvidenza ed alta.
Che di tattl'acque , e tanti untori occulti,
Tanti palesi , assecurò la terra
Dal foco violento, a lei nemico.
Perdi’ el, che signoreggia, e ’l tutto vince
D’ impeto e d’ ira , e di contraria possa ,
Non signoreggi ancor, quasi tiranno.
Usurpando degli altri i regni e i seggi ,
Sin a quel paventoso estremo giorno ,
Da giudido divino a lui prescritto.
Tempo certo verri , come rimbomba
Sacra fama in pii lingue , e gii vetusta ,
Che ’l foco infiammerà la terra e l'onde ,
E tutto in un incendio accolto ’1 mondo
Calieri sparso in cenere c ’n faville.
Allor tutti fien secchi i fiumi c i fonti;
Ni fien sicuri i tenebrosi abissi
Dal foco vindtor. N’affida intanto
Quel che dispose in pii soavi tempre
Le cose tutte insta dal sommo all' imo ,
E quell' acque da queste allor distinse.
Acque son dunque ; e la stellante sfera.
Che sette giri in sè contiene, e copre ,
Soggiace aU'acque. ET suo Maestro eterno,
Quando gli fece cosi adonti in vista.
Quadrata lor gli dii costante e salda
Figura, ovver simile a turbo acuto;
Ni piramide volle , o pur cilindro
Assomigliar nel magistero antico :
Ma l’un nell' altro giro intorno avvolse.
In guisa tal , che i più subitoli ed ampi
Cingon gli altri men ampi e men sublimi :
E come quel , die pria disegna e fonda ,
E nelle pani sue dispone ’1 tutto,
E poi l' adorna , e di colori e d’aure
DEL MONDO CREATO. 107
Fa vari fregj ai magistero Hlnstre;
Ed Immagini aggiunge , e simulacri :
Cosi tutte ci facea del mondo Intero
Le parti ornate ; e la sublime sfera
El figurava già di stelle ardenti
In vari modi ; e le sne note e I segni
Imprimea di sua mano il Mastro eterno.
Quei di eh’ ei fece i bei stellanti chiostri :
E non sol fece Arturo ed Orione;
Ma tutte l’ altre onde s’ adorna ’l deio ,
Immagini lucenti a' vaghi sensi,
A cui l’età futura i nomi impose.
E la rota al girar leggiera e pronta ,
Sovra due punti in sè contrari affisse ,
E 1 duo poli nel ciel costanti e fermi.
L’ un mai sempre si mostra ed erge in allo,
L'altro s’inchina «ila profonda Stige,
E si rimane ognor sotterra ascoso.
Questo Dio fece , e poi l’ umana gente ,
Nei ciclo immaginando I vari ccrdil,
Col pensiero M distinse , e ’n cinque zone
Parlino; e ’n altre e tante Impari fasce
Sotto '! del diparti l’opaca terra.
E’I maggior cerchio, ebe’n due partì eguali
Seca per mezzo ’l deio; e quinci e quindi
Lascia i due fissi poH incontra opposti ,
Fu nomato Equator, perch’egli adegua,
AUorehè’1 .Sol vi giunge, il giorno e l'ombra
L’altro di' obliquo si rivolge intorno
Sino ai due punti , onde ritorna ’I Sole
A rilesser di nuovo T giro istesso ,
Cerchio degli animali , o deila vita ,
E de' segni appellar future genti.
E I due minori intorno al punto affissi ,
Onde T torto viaggio T Sol converte ,
Tropici fur chiamati , e gli altri due
Fatti da poli ebber di Polì il nome.
E i duo’ cerchi imperfetti anco nomare
Dalle rivolte del pianeta illustre.
E quel che terminò l’ umana vista
Ne’ tenebrosi e lucidi confini ,
Orizzonte fu detto, e dal meriggio
Quello, acni giunge a mezzogiorno II Sole,
Cb'a vari abltator si cangia e varia.
Ma quell’ obliquo , in cui distinto cade
Fecer poscia girando erranti lumi ,
Seca in due parti eguali il largo cinto ,
Che parte ’l mondo ; e giorno a notte ag-
guaglia ,
Ed a' Tropici aggiunto e quinci e quindi;
Talch'egli solo è con tre cerchi affisso;
E la metà di sè dimostra ognora
Con sei di stelle adorni ardenti segni
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108 POEMI
Sopra la terra; e l’altra parte ascosa
Con altri c tanti pur sotto rimansi :
E ciascun spailo eguale in ciclo ingombra:
Ma con tempo ineguale or nasce, or cade,
Veloce , o tardo ; e sci la notte oscura
SI fuggon di lassù cadenti segni ,
E sei riveggon poi tornando ’l cielo
Immagini di stelle accese, c d'auro,
Come le lìgurar gl’ ingegni audaci,
Che gii produsse ’l tenebroso Egitto.
E la Grecia I suo’ mostri ancor ci linsc ;
E, di favole vane il ciel ripieno,
Più adorno ’l fece di menzogne illustri.
Primo (come si scrive c si figura)
Sovra l' aurate spoglie oscuro lume
Dimostra ’l portatordi Frisso e d’Elle,
Che dopo ’l verno primavera adduce.
Poi col ginocchio ripiegalo ’l Tauro
Distende ’l corpo; c dall' accese corna
Gravido fa di sua feconda luce
I.* umor terrestre; e i due Gemelli aggiunti
Spargon da chiare stelle ardente foco.
E rinfiammato Cancro al Sole indugio
Par che sia quasi , e gli ritardi ’l corso.
E ’l superilo Leon con torvo aspetto [eia.
Fiammeggia, e ’nsln dal ciel ancor minac-
La Vergine vicina a lui risplendc
Coll'aurea spiga, e poi la luce, e l’ombra
L’alta Libra celeste agguaglia in lance.
Indi lo Scorpton del ciclo usurpa
Più del suo giusto spazio ; c par eli’ ei faccia
Colle branche ad Astrca lucida libra.
Il Sagittario ha nell’orribil destra
L’arco piegato, e ’l Capricorno ’1 segue
Con Ber sembiante : c del gran Sole al corso
Par ch’egli sia lassù di nuovo intoppo,
E ritenga le notti algenti e pigre.
Risplcnde dopo lui con lucid’urna
Il Fanciullo troiano. E ’n una stella
Luminosa catena, ed aureo nodo
Fan di squamosa coda umidi Pesci.
Cosi nel cerchio obliquo i Segni ardenti
Poi figurò nel cielo li secol prisco.
Altre immagini a destra, altre a sinistra
Versoli fredd’ Aquilone, e ’l nubil Austro
Collocò poscia, e I chiari nomi impose.
Vicina al Polo, che s’innalza, e scopre ,
Con brevissimo giro intorno ruota
L’Orsa minor, che già fu scorta e segno
Della Fenicia a’ naviganti audaci.
Di sette stelle poscia adorno ’1 vello
L' Orsa maggior fa brevi giri e lenti ;
L’Orsa, eh' a’ Greci in tempestoso mare
SACRI.
Fu già fidata duce e segno amico.
Par ch'ci le gridi appresso ad alta voce
11 suo pigro Boote. E ’l fiero Drago
Fra l'Orsa fiammeggiando orrido serpe.
Ccfeo poser non lunge, c d'Arianna
La stellata corona ;c ’l grand’ Alcide,
E la Cetra col Cigno. E l’altro figlio
Del favoloso Giove In ciel sublime.
Cui d' Aquilone ’l fiato aspira, c d’alto
Il fiede : a Cassiopea la destra ei tende;
E i piedi alzati vincitore ai cielo
Porta , quasi di terra alzato a volo
Polveroso , c repente ; e ’ntorno al manco
Ginocchio con tremante e debil luce.
Le stelle picciolette anco locaro,
Che Vergilie chiamò l'età vetusta :
Segno del ciel d’oscuro e picciol lume.
Ma pur di nome ancora e chiaro c grande,
Perché i principj della State illustra,
E gl’ industri mortali all’ opre imita :
Perdi' ò già tempo eli' all' antica madre
Confidi T buon cultore il some sparso.
Qui insidile collocar sublime auriga ,
Che di serpente 1 piè nel carro ascose,
Kd'Ksculapio (ocosi parve) all’angue
Raffigurato. E la Saetta accesa
Di cinque stelle, e l'Aquila superba;
E ’l guizzante Delfino, e ’l gran Pegaso,
Clic già portò Bcllerofonte a volo.
E la figlia di Ccfeo, e ’l Delta appresso;
E quella immago clic figura c segna
L’Isola che tre monti innalza In mare;
E del nudo Muntoli l'oscura testa [parte
Del suo splendore ’nfiainina; c ’n quella
Alle vie degli erranti è più vicina.
Dall’ altre verso T Polo opposto all' Orse,
Press’ al torto viaggio ò il fiero mostro,
A cui fu ignuda esposta in riva all' acque
Andromeda legata al duro scoglio :
E par clic ’n cielo ancor di lei ricerchi
Già lontana, e sicura in parti eccelso,
Ricoverata d' Aquilone all’aura.
Ed Orlon di fiamme armato e d' auro
V’immaginar, che nella notte estrema,
Allorché nasce Scorplo egli s'asconde :
E l’inimagin del Fiume ivi risplende
D'eterno foco. E timidetta Lepre
Fuggir di Can veloci I fieri morsi
Vi figuraro, e ’l minor Cane ardente
Di rabbia ’l cielo ancor nascendo attrista
Coll'infelice lume, e i campi infiamma,
E dopo l’altro a noi sorgendo appare.
Ma prima a quei, di' olirà l’obliquo cinto
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LE SETTE GIORNATE
Abitatori son di terra adusta,
Argo conversa in del si volge addietro
Con proda oscura , e la ritroso corso :
Ma l’ altra parte ha luminosa e illustre.
Quii’ Idra e ’l Vaso e ’l Corvo e ’i gran Cen-
tauro ;
E qui risplende ’l Lupo , e qui l’ Altare.
Altra corona ancor di stelle adorna
Da questo lato ’i cielo, ed altro Pesce
In più lontana parte in lui risplcndc :
Il Pesce , eli’ adornò ne’ propri alberghi ,
Siccome proprio Dio, l’antica gente
Di Siria abitatrice; a cui non basta
Farlo in magion terrene e vivo e nume ,
Ma nel ciclo ’l figura c ’n ciel l'adora ,
Fatto , come stimò , nel cielo eterno.
0 delie pazze genti antico errore ,
E prisca fraude, e mal nodrito inganno.
Che torse ’l mondo al culto iniquo ed cm-
E di cerchi c di stelle in un congiunte (pio ;
\ane figure, immaginate indarno
Conira la Provvidenza, e con tra ’l vero!
0 vana sapienza , e vano ingegno
Della natura umana in Dio superba !
Van pensier, vano ardire e vano orgoglio,
Che ’n ciel presume annoverar le stelle ;
E quaggiù le minute inculte arene,
E misurar gli smisurati campi
Della terra , del mar, del ciel profondo ;
E terminar degl1 infiniti abissi
L* altezza e ’l fondo ; e por costante meta
A questo spazio della vita Incerto;
E prescriver de’ fati eterna legge ;
Serva facendo la natura a forza;
E ’l libero voler, libero dono.
Cui non vince, nè forza, stella, od astro.
Egli all'Incontro signoreggia e vince;
E può rapire ’l gran regno celeste
Con violenza , se d’ amor s’ infiamma ;
Ma d' altro amor più santo, o d’ altre fiam-
Di quelle, onde l'età vetusta e folle [me
Coll’ immagini sue mentite c false
Tentò di far quasi profano, immondo
Dei cielo ’l luminoso e puro tempio.
Poco era dunque dei lascivo Cigno
Furto amoroso, o d'Aquila ministra,
Non di folgori più , nè d' ire ardenti ,
Ma di pianeti, la rapina Ingiusta,
E la corona d’Arianna, e mille
Favole v agite , c favolosi amori , [che
Che Grecia aggiunse alle menzogne anti-
Di Babilonia c del superbo Egitto ;
Se d’Alessandro ’1 succcssor novello
DEL MONDO CREATO. 109
Non aggiungeva ancor la tronca chioma
Di Berenice all’ altre stelle ardenti?
Tanto lece a' mortali adunque ’n terra ,
Ch’ osan di far, non sol di rozza pietra ,
0 di ruvido pur selvaggio tronco
Dei ior terreni , ed idoli superbi :
Ma fanno oltraggio alle nature eterne.
Ed alla gloria de' celesti giri ?
Chè delle stelle è gloria ’l chiaro lume,
Ond'è stella da stella in ciel diversa.
Ma quei già non dovean si pure forme
Farsi cagion di si dannoso inganno;
E ’n tenebre cader da pura luce.
Precipitando negli oscuri abissi :
Anzi salire a Dio di lume in lume,
E riconoscer Lui nell’ opre eccelse ,
Cile son del suo splendor faville e raggi.
Dio solo è quei die numerare appieno
Nel mar puote le stille , e ’n ciel le stelle.
E Dio pose a ciascuna ’l proprio nome ,
Onde chiamata ai suo Signor risponde ,
Pronta al servizio del sublime impero.
E quai fidi guerricr locati in guardia,
Nella più tenebrosa oscura notte
Giran le mura vigilando attorno ;
Tal circondano ancor notturne c preste
L’alte parti del ciel le stelle ardenti
Come Ior pria dispose ’l Re superno,
Lo qual non Orso, non Leone, o Drago,
Non Aquila sublime in elei dipinse
D'eterni lumi, e di perpetue fiamme ;
Non altra forma, che nel ntar profondo ,
O'n fiume si rimiri, o'n monte, o'n bosco:
Ma quella croce, ove ’l suo Figlio estinto
Trionfar poi dovea de' regni sligi ,
In cielo impresse, e ne formò l' esempio
Con quattro luminose e chiare stelle;
Le quai non rimirò Pelate antica
In questo Polo , in cui Boote e ’l Carro
Immaginossi , e l’ altre forme illustri :
Ma la nuova le scorge in ciel sublime,
E P altro Polo a' nostri sensi ascoso
Ad altri abitatori in sè l'esalta;
E di certa vittoria è segno eterno
Al giusto Re nella pietosa guerra
Quella, che fiammeggiando in aria apparsa
D’EIena al figlio glorioso , invitto.
Che ’l nuovo Faraon sommerso In Tcbro
Fece cader dai ruinoso ponte ,
E Roma liberò dal giogo oppressa,
E gl’ idoli superbi a terra sparse ;
E quella poi che folgorando in alto
Pur dimostrassi al successore indegno
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no POEMI
Si dlssolvea , come vapori accesi ,
In ciuci dell’aria tempestosi campi.
Ma questo In ciel di lumi eterni e fissi
E trofeo non caduco , e scalili segno
(Se sperar lece) di costante Impero;
E quasi nota, onde sue leggi inscrisse
Il Re superno a' vincitori, a’ vinti ;
Chi gloria agli uni , e dì salute agli altri.
Ben se n’ avvide ancor l’antico Egitto
Nelle tenebre sue più fosche e dense ;
Onde tra l’ altre sue figure e note
De’ suol misteri , ancor la croce Impresse.
E figurò la croce il Fabbro eterno
Nelle quattro del mondo avverse parti ,
Talché la forma sua divide e segna
L’Orto, l’Occaso , l’ Aquilone e l’Austro.
Son dunque segni di salute i segni ,
Ch’ impresse Dio nel magistero eterno.
Nè cosa feo lassù malvagia, o fella,
0 di morte cagione , o d’ altro danno
A’ miseri mortali. Ahi ! cessi or l’ empio ,
Cessi il superbo, che saetta c vibra
Inconlr' al elei l’ ingiuriosa lingua.
Non son maligne le serene stelle ,
Nè pon nuocer altrui con fiero aspetto ,
Nè per eletlon , nè per natura.
Non per elealon , che senso ed alma
Avrlanle stelle; e d'animali in guisa,
Perturbati sarian da’ nostri alletti.
Non per natura ancor, se Dio creolle;
Chè non è creator di mali Iddio , [faro.
Nè mal d'opra non buona è mastro, o fab-
Nè mai , per variare ’l loco e ’l sito ,
Potrìan di buone divenir maligne ,
0 pur buone dì ree , chinando ’l guardo,
0 mutando figura , o pur sembiante ,
Come si dice che più lieta ’n vista
Alcuna si rallegra , allorché nasce ,
E Innanzi al suo cader si duole e turba.
Altra all’ incontro è lieta nell' Occaso ,
E dogliosa nell' Orto. Altra si sdegna ,
E poi si placa nel cangiare ’l grado.
Chè se ciò fosse , la natura umana
Saria men variabile e ’ncostante
Della celeste; e ’n quelle eterne leggi
Certezza non saria , ma vano errore.
Nè già convieu che ’l messaggier di Giove
(Come animai da’luoghl.a cui s’appressa,
In mille guise si colora e varia),
Cosi mille colori e mille forme
Prenda da’ suo’ vicini. Adunque in cielo
Non si perde bontì per grado, o scema ,
Chè ’1 cielo è tutto buono ; e ’u ogni grado
SACRI.
La div ina bontì diletta e giova.
Tacciansi ancor delle sublimi stelle
Gli odj celesti , c i lor celesti amori
(Ma non degni del ciclo), c i vari aspetti ,
Ch'altri si miri da contraria parte,
Altri congiunto, altri girando intorno
T re segni , o quattro, o sei, si trovi in mezzo
Mentre riguarda la su’ amica stella ,
0 la nemica ; chè discordia in cielo
Esser non può , nè ingiurioso sdegno ,
Ne’ cinque aspetti soli ; c ’n altre guise
L' una potria ver l’altra esser conversa
Benigna stella in placido sembiante.
E se dimostra pur dal ciclo, c segna
Quanto sthivar, quanto seguir comlrnsl
In questo spazio della vita incerto,
Non cl costringe a forza, c non ci offende ;
Ma giova sempre, o ’l bene, o ’1 mal predica.
Giova al nocchiero cntr’ al sicuro porlo
La nave ritener, se ’l vento, e l’ onda
Spaventosa tempesta a lui minaccia;
Ed armato Orlon guerra gl’ indice.
E giova al pcregrin volgendo ’l passo
Fuggir la noia d' importuna pioggia ,
E ricovrarsi in solitario albergo.
E giova agli egri l’osservar de’ giorni
Giudici della vita e della morte. [ga,
E'1 buou cullor de' campi , o’I seme spat-
0 pianti , osserva pur nell’ opre usate
Il nascer c ’l cader di stelle amiche ,
Ed opportuna la stagione c ’l tempo.
Ma che? l’alto Signor a noi predisse
Ch’appariran gli spaventosi segni
Del mondo , che ruina alfin minaccia ,
Nel Sole, nella Luna e nelle Stelle.
Cl negherà la Luna il lume e i raggi ,
E fia converso ’l Sol turbato in sangue.
E questi fian della mina estrema
Orridi segni. Or chi trapassa ’l guado,
Di nostra vita le regioni assegna :
E quasi avvinta con un saldo stame
Al fatai fuso di severa Parca ,
La fa soggetta ai variar de’ cieli,
E loda de' Caldei gl' ingegni c l'arte.
Ma concedasi pur che ’n elei descritti
1 segni sien , non di tempesta , o nembo,
0 dell'incerto variar de' tempi ,
Ma della vita , c di sue varie sorti ;
Che ne diran? che delle stelle erranti ,
E deir affisse nell'obliquo cinto
Congiunte insieme , gl' implicati nodi ,
E le varie figure e i vari incontri
Sien di felice avventurosa vita
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO. Ut
Alta cagione , a chi lo del sortilia ,
0 di contraria pur dogliosa sorte ?
Ma pur dirò per illustrare ’l dubbio
Quel che degli altri è detto, e’detti in prora
Pur addurrò contra gli stessi in lite.
Gl'inventori dell’arte In poco spazio
Vider molte figure, e ’n breve tempo,
Che disparian troppo veloci Innanzi
Agii occhi loro ; onde raccolte e chiuse
Fur dagl’ìstessi entr* a misure anguste.
Quasi in un solo indivisibi! punto, [parve,
Che ’nun sol batter d’occhio altrui dis-
Quind di quei che da’ materni chiostri
Nascer doveano alla serena luce , [presso.
Nel primo punto , o ’n quel che segue ap-
Molte varietà d’ingegno c d’arte
Notare , e dì possanza e di fortuna ;
Ch’altri ci nasce pur Cambise, o Ciro,
Od Alessandro , o fortunato Augusto ,
A se euro, a regno, a glorioso impero,
All’onor di trionfi e di vittorie ;
Altr* Ire a ricercar di porta in porta
Quel che sostegna la noiosa vita
in vergognosa povertate , e grave.
Però in dodid parti il cerchio obliquo
Wvlser prima, ed ogni parte in trenta :
Che 'n unti giorni un segnoil Sol trascorre
Di que’ dodici in lui segnati c ’mpresst.
E poi secar le trenta ; e risecaro
Le sessanta in sessanta ; e ’n si minute
Parti distinte fer gli aspetti e Tore,
Per trovar quella di chi nasce ai mondo.
E non fur certi dell' istabil punto ;
Perchè sparire, e dileguar repente
In cielo ’l vedi col volar del tempo.
É nato appena il fanciullclto ignudo,
Che si riguarda ’l sesso, e poi s’aspetta
Il pianto, segno dell'umana vita
Lagrimoso e dolente , a lei conforme :
Predice indi ’1 Caldeo le varie sorti.
Quanti punti trascorsi intanto a volo
Son nell’ indugio? e chi descrive appunto
La figura dei cielo ? e quale ascenda
Sublime stella , e signoreggi intanto,
E prescriva al fanciullo ’l proprio fato ?
Però nelle figure e varie e vaghe
t. certo inganno , e nel volar dell’ ore.
Nasce costui di grazioso aspetto ,
Pladdo e grave, c lento, e crespo ’l crine ;
E l’ora sua deli' animai di Frisso
Aver si crede ; e questi è d* alto core ,
E magnanimo ancor, chè tal si mostra
L'animai che degli altri è quasi duce.
Ardito al cozzo , ed al ferir di corno ,
E mansueto poi mentre si spoglia
Senza dolor la molle e bianca lana ,
Di cui natura poi l' orna e riveste
Agevolmente. E quel eh’ i lumi aperse
Mentr' ha nel Tauro ’i Sol lucido albergo,
É faticoso e tollerante all’ opre;
Ed in atto servii sè stesso ei doma,
Perocch’ avvezz’ è ’l tauro al grave giogo.
Quegli, a cui Scorpio in elei lucente a-
Altrui percuote disdegnoso e fere,[scende.
Come la fera che le piaghe attosca.
Ma Libra , che le cose agguaglia in lance,
Giusto fa l’ uomo e di giustizia amico.
Or tieni ’l riso? Il segno in via distorta.
Onde prendi alla vita alto principio,
0 sia ’l Monton, che già le notti adegua
Co* di sereni, o pur lucida Libra,
Poca è del cielo, e piò lontana parte.
E dalle fere e dalle greggi immonde
1 costumi dell'uom figuri, e formi ?
E ferina per te , non pure immonda ,
È la natura umana? Ai cielo ancora
La feritale assegni. Il del dipende
Dalie contaminate e lorde mandre ?
E fai soggette le celesti sfere
Alle terrene belve? Oh ! sciocca e stolta
Sapienza mondana , ond’ uom si gonfia
Di vano fasto e di superbo orgoglio,
Simile a tela d’ infelice aragna ,
Che nella sua testura appena ’nvolvc,
E ’ntrica l’ale all’importuna mosca;
Ma se peso più grave in lei s'incappa,
Non si ritlen , ma la dissolve e frange.
Oh ! piaccia alui che ne distringe c lega,
Coni' a lui piace, e lalor solve e snoda
I lacci del peccato , c I duri nodi
Onde ’l fato quaggiù tien Palme avvinte:
Oh ! piaccia (dico) a lui, cui tanto aggrada
II libero voler , celeste dono ,
Anzi divino, e non soggetto al deio,
Di squarciar de’ contesti antichi ingaunl
La fragil tela ; c peso aggiunga a detto
Liberator degl’ infelid ingegni.
Dunque dirò che nel continuo corso
De' sette erranti , altri a) suo centro intorno
Fan più veloce il giro, altri più tardo.
Ed In un* ora altri guardarsi insieme
Soglio» , altri celarsi , e mille e mille
Fanno di sè negli stellanti chiostri
Varie figure , e da minuto inganno
Nel suo principio , che s’ avanza e cresce,
Un infinito errore alfin deriva.
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112 POEMI
E s'in ogni momento 'I elei si cangia,
E muta in un sol di mille sembianze.
Porche non ogni giorno il re ci nasce ?
0 perch’al padre nel paterno regno
Succede '1 figlio nato in vario clima
Sott’a varia del cicl figura, od astro ?
Perchè non tutti i regi, e i grandi Augusti
Regia figura in elei, reale aspetto.
Attendono de’ figli al nuovo parto ?
E qual nel generarli almeno elegge
L’ora opportuna? e di bramata prole
Chiede consiglio alle fatali stelle?
Ebbe forse nel ciel reale iramago
Di fortunate luci , allorché nacque
Gigc, che re di servo alfin divenne?
0 Servio che di Roma al regno ascese 7
0 ’l Tartaro clic l’Asia vinse e corse ?
Creso all' incontra con servile aspetto
Nacque di fiera stella e di maligna ?
E Perseo e ’1 Ber Giugui ta c gli altri regi,
Qie ’l trionfo onorar di Roma invitta ?
E come gli altri l'infelice Augusto.
Preso dal re de’ Persi, e l'altro avvinto
Dal barbarico orgoglio ha pari scempio?
Ma nell'estremo, quel che tutto avanza,
Ponga ornai fine alle question profonde :
Perchè vane sariau le sacre leggi,
Vani i giudicj, onde virtù s'onora
SACRI.
Col guiderdone, e T vlziohapenae scorno,
Se i gran principj derivati altronde
Fosser dell' opre giustee dell' inique,
E non in noi medesmi : e ladro il ladro
Non fora , c non farla col furto oltraggio.
Nè percuotendo ’l micidiale ’ngiusto ;
Se non potesse la sua errante destra
Quel dall’oro aslcner, questi dal ferro ;
Sospinto a forza dal destino avverso.
Vani sarlano i magisteri e Parti,
E le fatiche ancora, e i campi Indarno
Segneria coll’ aratro ’l buon cultore,
O domeria col rastro e col bidente.
Aguzzando talor l'adunca falce ;
Se dall’ ira del Cicl matura messe
Fosse negala , o dal voler del Fato.
E ’nvaoo altri solcando T mare Eussino,
O’I Caspio, o l'Eritreo, travaglia e merca ;
Se ’l Fato le ricchezze accoglie e sparge.
E quella de' fedeli antica speme,
Ch’ai gran regno del ciclo invitta aspira ,
Perirpotrebbe, ove ’l suo premio al giusto
Non si conceda, e la sua pena all’ empio ;
Chè dove ’l Fato signoreggia e sforza.
La dignitate e la virtù sublime
Non ban loco fra noi conforme al merlo.
Ma temer non dobbiam che ’l Clel non serbi
Alle buon’ opre alfin corona e palma.
GIORNATA TERZA.
Nella quale per comandamento di Dio ai congregarono le acque in un luogo, e la terra
apparve, e produsse le erbe e le piante cu’ frutti.
Sono città del suo valor superbe,
E di bellezza e d’arti varie e d'opre
Meravigliose, e d'edifìci eccelsi,
Od onorate pur di gloria antica ;
Che dal nascer del giorno al Sol cadente ,
E talor anco insin che gira intorno
La fredda notte ’l suo stellalo carro,
Empion di turba lieta e di festante.
Piazze , campi , teatri adorni c logge ,
Ove a’ dialetti vari intende e passa
L'orc del di fugaci , c le notturne
Lunghe ed algenti, e nel volar del tempo
Pur sè medesma volontaria Inganna.
Altri dall'apparente c vana fraude
D’arte fallace, ond’è schernito ’l senso,
Deluso pende, e ne’ prestigi incerti
Meravigliando quasi T falso afferma.
Ed altri all'armonia di vari accenti,
0 pure al dolce suon di cetra, o d'arpa,
Die l’ alme acqueta, e i cor lusinga c molce,
E gli licn lieti , o mesti In varie tempre ,
Oblia le cure. Altri carole e balli
Lieto rimira; e d'impudica donna,
Che ’n varie guise , e quasi ’n varie forme
Le pieghevoli membra c muove c cangia,
Mira i lascivi salti e i modi c l’arte.
Lusinghieri c vezzosi : c parte agogna.
0 dove splende pur dipinta scena
Di colori e di lampe, c quinci innalza
Gli archi c le mete, c ’ntorno a’ sacri tempj
Con marmorei giganti alte colonne,
Piange I casi d’ Edipo , o di Ttestc ;
E ’n finto cielo il finto Sol gli appare
Tornar turbato addietro in mezz’ai corso:
0 con Davo , o con Siro allegro rido
Degli scherniti vecchi i falsi inganni.
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113
LE SETTE GIORNATE
Altri 1 destrier feroci e pronti a) corso,
A destra ed a sinistra in giro volli
Riguarda, o ’n chiuso arringo, o ’n largo
I simulacri pur d’orrida guerra, [campo
Al chiaro suon della canora tromba ,
Contempla, e de’ guerrier l’ insegne c
E lor virtù con lieti gridi esalta, [l’arme,
Ma noi, che ’l Re del ciel, Fattore c Ma-
D'opre meravigliose, invitae chiama [stro
A contemplare ’l magistero e 1’ arte
Divina , c questo sol lavoro adorno ,
Cli’ 0 di cose celesti e di terrene
Con sì diverse tempre in un conteste ;
Sarem pigri a mirarlo ? o pur languenti
Ascoiterem, come l’elenio Fabbro
Fe’ di sua man le meraviglie eccelse ?
E non più tosto, rimirando intorno
Questa si varia e si mirabil mole ,
Ciascun per sé colla sua mente indietro
Ritornerà, pensami’ al primo tempo,
Ch’ ebbe principio ’l tempo e T nuovo mon-
ln guisa di gran volta II elei ricopre [do?
Le somme parti , e gli stellanti chiostri ;
Onde con tante faci altrui risplendc
Questo sacrato a Dio terreno tempio.
E ’n sè medesina si riposa , e fonda
La gravissima, vasta c rozza terra :
E l’aer vago si diffonde intorno
Tenero e molle, In cui non trova Intoppo
Chi si muove per luì, si proni' el cede,
E ch’allr’il fenda di leggier consente.
Senza contesa egli si sparge a tergo,
Umido nodrimento a chi respira
Porgendo , o dolce refrigerio intorno :
Tant’è l’acre amico ai vago spirto, [usi
L’acqua ancor nutre ; cil opportuna agli
Della vita mortai del mondo immondo
Ordinata lor fu dal Padre eterno ;
Ma non contenta già d’incerta scile,
Ebbe tonnine proprio, e certo loco
Tra suo’ certi confini. In cui s'accolse
Ubbidiente, e ragunossi insieme
Al comandar delia divina voce.
Disse ’l gran Dio : L'acqua cli’è sotl’al
In una ragunanza ornai s' accoglie, [cielo
Perchè l’arida fuore indi si reggia :
E cosi fatto fu. L’acqua repente,
Ch’ è soli' I giri del sereno cielo ,
Nelle sue ragunanze allor s'accolse.
Onde veduta fu l’arida parte;
E l’eterno Fattor per proprio nome
L’arida chiamò Terra ; e l’acque ondose
Mare nomò negli ampj spazj accolto.
DEL MONDO CREATO.
E come suol lalor ceruleo velo ,
Che gran teatro ricoprendo adombri ,
Quinci e quindi ritratto in sè raccorsi,
E discoprir della dipinta mole
Archi, statue, colonne, altari c tempj :
Così al raccor dell' umida natura
Nell' arida apparirò il plano e i colli :
E gli altissimi monti alzar la fronte
(Dianzi coperti) imperiosi in vista.
E ’l mare ondoso mormorando appena
Lavava i piedi al mauritano Atlante ,
E del gran Tauro, e dì Parnaso e d’ Alo,
Ch'allungar può la breve c fragil vita
De’ mortali tigri ; e d' Apennln nevoso
L'ime parti bagnava, c quinci e quindi.
E correvano al cliin dal seno alpestre
Degli aspri monti i rapidi torrenti :
E con rimbombo impetuoso, al corso
Precipitando gian le torbide onde.
Corrcano a basso i quieti e lenti fiumi,
E ’n giù corrcano i lucidi ruscelli.
Perocché Dio colla parola eterna, [pose.
Clie scendessor correndo all’ acque Im-
E da principio l' affrettare ’l passo
Fu comandato all' umida natura
Dell’ acque vaghe, e lor negò quiete
Della divina voce II santo impero :
Perchè nell’ ozio l'acqua è pigra c torpe,
E là dov’ella s’ impaluda e stagna.
Da neghittoso grembo esala intorno
Vapor grave e nocente e feri spirti
D'aure maligne; onde perturba ’l cielo,
E quasi l’aria infetta : c parte in seno
Mal sano nutrimento accoglie c serba
Nel suo limo tenace , onde sovente
Lo sfortunato abitatore ammorba.
Ma l'acqua che veloce in giù discende,
Da qual parte ’l suo corso ella rivolga,
Salubre i sani in sull' erbose rive
Nutre ; e i tesori suoi lieta dispensa
Poscia con auree squame e molle argento,
0 liquidi cristalli; onde s'estingua
L’ardente sete a' miseri mortali.
Ma più salubre è, se tra vive pietre
Rompendo l'argentate e fredde corna,
Incontra ’l nuovo Sol, clic ’l puro argento
Co’ raggi indora, e i passi in breve avanza.
Quasi rimembri, ubbidiente ancella,
Dell'alta voce ancora ’lsuon celeste.
Che pria la mosse, e la fe’ pronta al corso.
Ma s’ è natura pur, eh' è propria all’ ac-
que,
L’ andare a basso, e’i non fermarsi Inalto,
POEMI SACRI.
114
Ricercando quiete in umìl parte ,
A die fu d'uopo la divini voce ?
Bastar polca la sua natura al corso ;
E fu soverchio ’l comandar severo ,
Che le tolse ’l riposo, e ’n moto eterno
La fe’ inquieta , istallile e vagante.
E pur fu necessario ’l santo impero:
Perocché ’l suoi) della parola eterna
Se creh l’ acque, creatore Insieme
Fu della tnobil lor natura errante,
Chela conserva; e nel suo moto eterna
Quasi la rende , e l'assomiglia al ciclo ;
Onde la sua natura è certa legge
Doli' inumi tallii verbo; c certa sede
Dopo ’l suo lungo corso a lei prescrive :
Ma quivi ancor dalle superne rote
Agitata si muove, e turni indietro.
Cedendo intanto all’arenosa terra
Gli usurpati confini. E ’n questa guisa
Segue del Sole e delle stelle erranti.
Ma più della vicina c bianca luce,
11 certissimo errore e ’l vago giro ;
E da sei ore in sei s' ai ama, o scema.
Perocché quando all' orizzonte ascende
La vaga Luna, In riva al mar sonante
Cresce ’1 canuto flutto, c i lidi inonda
Vittorioso , e parte , o copre , o sparge
D’arida terra, lusin ch’ai sommo cielo
Aggiunga della Luna il freddo carro.
Quinci, mcntr’ella all' orizzonte estremo
Declina in ver l’Occaso, il mar decresce,
E'n sé medesmo si raccoglie; c scopre
Di bianchissima spuma I lidi aspersi.
Ma ferve ’l mar di nuovo , c ‘n fera vista
Gonfia P onde spumanti , e spazio ingoni-
Ncll’ occupala terra, allorché torna [bra
Ella a quel punto dell'opposta parte;
E nell'altra emlspero ad altre genti
Altissima risplendc in mezz'ai cielo.
Di nuovo cala ’1 mare, e'n unii! faccia,
E par che fugga ed abbandoni ’l lito ;
L’onde, fervide dianzi, appiana e queta.
Quando la Luna fa ritorno in alto
Nel suo Oriente, ond' ella a noi si mostra.
Ma non serba ogni mar l' istcssa legge
Quand' egli cresce o scema : e varia ’n parte
L’ordine e'I moto, e ’n altri modi ondeggia.
Presso i Tauromilani assai più spesso,
E nell' Etilica (come si legge) il mare
Ben sette volte ’l di s’ avanza , c scema ;
Gran maraviglia ! onde sublime ingegno
Affaticato e vinto, a morte giunse,
Metilr'ci cercando la cagione occulta ,
Si dolse che natura a noi 1* asconda
Nel suo profondo e tenebroso grembo.
Ma tre fiale ’l giorno assorbe e mesce
L' onde la tempestosa empia Cariddl ,
Da cui latra non lunge orrida Scilla.
Altri mari vi son (come s’ afferma)
Che nello spazio pur d' un mese integro
Soglion due volte alzar Tonde spumose ,
E due volte chinarle in sé ripresse.
Anzi nel inar degli Etiopi adusti
Non v'ha flusso e riflusso. E più lontano
Soli’ un altro endspero, e un altro polo,
I n cui non splende ’l pigro Arturo c T Orsa ,
Solca un gran mar d’ una perpetua pace
L'ardito navigante. E quel ch'intorno
La terra mormorando ognor circonda ,
Indomito Ocean respinge , e caccia
Lunge nel crescer suo torrenti e fiumi ,
Talché paion fuggendo 1 porti e ’l lido
Lasciar per tema , e le deserte arene ,
E tornarseli' indietro a propri fonti :
Tanl’ é'1 poter, che gli reprime e sforza,
Dell’ Ocean che mugge alto e superbo !
Ma *1 ligustico seno , e quel de' Toschi ,
Ch’ondeggia presso alla novella Pisa,
Clt' a’ più onorati studj; I premj serba,
E le corone alle più dotte fronti.
Non ha quasi dell’ onde ’l moto alterno.
Ma se da prima T acque al chiaro suono
Fur mosse già della divina voce.
Perché cercare In terra, o’n mezzo all’on-
Altra ragion del lor perpetuo moto? [de
0 pur lassù tra gli stellanti chiostri ?
Come fer molti , Il cui pensiero ondeggia
Pur quasi d’ acqua il tremolante lume.
Altri al moto divino, onde si gira
I-a sfera più sublime, assegna c rende
L'alta cagione ; altri alle stelle erranti,
A quelle più della più bassa luce, [forza
Ch’é più vicina, c quinci ha maggior
Nelle cose mortali a lei soggette.
E di questi, altri vuol eh’ obliquo, o dritto
II bianco raggio innalzi Tonde, o spiani;
Altri, clic della Luna il pieno aspetto
Riempia ’1 mar di tempestoso flutto;
E scemando lo scemi ; ed altri afferma
Che per consentimento di natura
Tacito Imiti il mar del cielo II corso :
Ma sono questi In ciò quasi concordi.
Altri de'vcnti al respirare obliquo
E ’n sé stesso ritorto , il corso all’ onde
Ritorce, c le commove or quinci , or quindi.
Altri fu, che, seguendo antica fama,
Die
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LE SETTE GIORNATE
Disse che *1 mar , quasi spirante e Tiro
Grand'anlmal, che del gran mondo è parte,
Manda fuori, e raccoglie ’l corso, e l’ onde ,
Spirando, e respirando in vari modi.
Altri nell' inegual suo letto angusto
Non vuoi die trovi '1 mar riposo , o pace :
E quinci sempre egli si muova , e lagni
Con roco pianto, e l'inquieto regno
GU sia di guerra pur turbalo campo ;
Ma più si muova nelle parti eccelse ,
Che son quelle rivolte al freddo Carro,
Li dove sempre di gelato umore
Gravidi e pieni son gli orridi monti ,
Lo qual compresso in marsi stilla eversa.
E perche la gelata alta palude.
Che T Aquilon superbo astringe, c 'ndura,
È più sublime assai : però discende
NelTtnospile Bussino : e quel trascorre
Nel mare Egeo col suo veloce fluito :
Ma poi respinto d' arenosa piaggia
Fa l’Egeo ncH’Eussin ritorno, e riede
L' Eussin nella medica palude :
Quinci hanno 1 mari ognor flusso e reflusso.
Alcun vi fu di più sublime ingegno
Ch'a non giuste bilance '1 mar somiglia ;
Ed una parte sua solleva in alto ,
L’altra deprime ali’ arenoso fondo :
Ma da quel favoloso antico varco ,
Ove Alcide innalzò le mete e 1 segni
(Come si disse), e dall' ondose porte
(Se pur sue porte ha l'Ocean profondo)
In guisa di torrente '1 mar si sgombra
Di seno in seno, e con diversi aspetti
Egli sè stesso pur figura , e stringe
Trai curvi lidi e l’ arenose sponde.
Anzi fu l’ alta man dei Mastro eterno ,
Clic *n unte forme flgurollo , e finge ,
Or facendo '1 mar lungo, or tondo, orqua-
E'n guisa di piramide c di croce [dro ;
Anco formollo , e di mirabil vaso ;
Siccome la , dove '1 Tirreno inonda
Di Partenope bella i lidi e i colli ,
Gran tazza colma di spumoso umore.
Maquai si sia del mar la forma e 'I moto,
Posa diurna mai , posa notturna
Non trova, nè silenzio in chiaro tempo ,
Od in turbato , ed in orror profondo ,
Benché i silenzi nell’ amica notte
Abbia la Luna, lo la cagion primiera
Non reco al Sole , od alle strile erranti ,
Non a’ raggi di Luna obliqui , o dritti ,
Non al ritorto respirar la rendo
Degl’Inquieti venti, al vario fondo.
DEL MONDO CREATO. 115
In cui s'appende ’1 mar sospeso bilance :
Cliè la prima cagion fu l’alta voce,
Movendo ’l cielo in giro, e i mari insieme,
De' qual (com' altri disse) in giro parte
L’onda, ed al suo principio in giro toma.
Deh '. se giammai sovra una viva fonie ,
Che d’ acqua intorno larga copia spande,
Sedesti lasso ; e nel pensler l’ occorse ,
Chi è colui che fuor del seno algente
Della profonda e tenebrosa terra
Manda fuor l'acqua 7 e chi la spinge avanti,
Perch’ella mal non cessi e non s’arresti?
Qual sono 1 vasi eie spelonche interne,
Da cui deriva? ed a qual loco alTretta
Mai sempre ’1 corso ? cd onde av viene e
come , [s’empia ?
Che quesU mai non manchi c qnel non
Questi effetti si ascosi al nostro senso
Pendon da quella prima c chiara voce [so.
Ch'aH'acque indulse, e le fe’ pronte al cor-
Tu che volgesti pur le antiche carte ,
E spesso volgi le moderne Illustri ,
Ricorda pur fra te , come rimbombi
Di quella prima voce 11 chiaro suono :
• Si ragunlno Tacque; > e quinci innalza
il tuo pensiero alle cagioni eterne.
Il correr pria fu necessario all' acque
Per occupar la certa cd ampia sede.
Giunte nel proprio loco a lor convenne
In sè stesse fermarsi, cd oltra ’l corso
Non affrettar con un perpetuo errore.
E quinci certo avvien ch'alfin si scorga
Ogni torrente in m are,e’l mar non s’empie:
Perchè fu dato in sorte all’ acque il corso,
E circoscritto entri a’ confini il mare,
Com’ impose ’l buon Re che fece ’l mondo.
E quel suo comandar fu prima legge ,
Legge eterna e comune, a cui rubclla
Non è natura , e tra gli spaz] angusti
Qucta ’l mar violento il fero orgoglio.
Se dò non fosse, el già diffuso c sparso
Coperto avria con nn diluvio eterno
La bassa terra eh* ci circonda e parte.
Nè quel di lei, che fuor dell’ acque appare,
Picciolo spazio ci lascercbbe Intero
A’ faticosi e miseri mortali.
Quando agitato è più fra' tuoni e lampi
Dal gran furor de’ procellosi spirti ,
E volge al lido, e sino al cielo innalza
Gran monti d’onde rapidi e spumanti ;
Appena tocca T arenose rive ,
Che ’l suo furor si frange, e ’n lieve spuma
L’ impeto si dissolve , e rotti e sparsi
110 POEMI
Caggiono i monti, ond’ ci ritorna indietro.
Qual dell'arena più minuta e vile
E dcbil cosa più trovar potresti?
0 qual più violenta e più superba
Dell' orgoglioso mare ? e pure a freno
L’arena tien del mar l'orgoglio e l'ira.
E non temerem noi quel ite superno ,
Che pose al mar con si niirabil arte
Per termine l’arena? ò perdi’ uom pensi
Al magistero, eglimedesmoil dice. [vieto.
Qual potrebbe altro intoppo, e qual di-
Qual podestà terrena, o legge, o forza,
Tener il «osso mar sublime, o gonfio,
Cb' all' Egitto, di lui più cavo c basso,
F'atl'avria prima impetuoso assalto,
E lui sommerso entr'a' suo’ vasti abissi?
Gii coll'indico mar si fora aggiunto
Senza fatica, c senza ingegno, od opra
Degl' industri mortali , e senza 'I vanto
De’ superbi tiranni. Il gran Sesostre,
Ch'i regi calenati al duro giogo,
Quasi cavalli o buoi, soggetti a forza
Tenne, e tragger li fece il proprio carro
Per le già dome e soggiogate genti :
Quel Sesostre, dich'io, terrore c scempio
De’ regni d' Aquilone , ov'egli in alto
Pose la sede { c ben di dò si vanta
Con fama antica 'I favoloso Egitto),
Quell' istesso Sesostre ’l mar degl' Indi,
E l’Eritreo tentò d'unire insieme
Con quel d’ Egitto : e la mirabil opra
Il re possente abbandonò, temendo
Che sommersa dal mar la verde terra
Non rimanesse, e quell' istessa teina
Poscia ritenne ’l successor di Ciro.
Eran, quando fu dato ’l corso all’ acque,
Pieni di cavernosi c curvi monti
Gli antri, c le tenebrose atre spclunche,
E le valli palustri in varie forme
Pendenti, ed ime infra montagne e colli :
E quali eguali al mare i larghi campi
Eran già colmi d’argentato umore :
E tutti insieme si voltar repente
AI comandar della divina voce,
Dacui l' acque furmosse, c ’ngiù sospinte
Dalle quattro del mondo avverse parli,
E ’n una ragunanza insieme accolte.
Anzi nel tempo istesso allor costrutti
Per opra fur della divina destra
1 larghissimi vasi, i fonti e l'urnc.
Egli altri lochi, in cui s'accoglie, oversa.
Non era ancor di là dal varco angusto ,
Che divide coll’ onde Abita e talpe.
SACRI.
Anzi Libia ed Europa, il mar d’ Atlante,
Nò quel si paventoso a’ naviganti
Tempestoso Ocean , che ’ntorno inonda
Di Gerlonc i fortunati regni ,
E l' Inghilterra, e la vicina Irlanda :
Ma fur di quella voce al gran rimbombo
Fabbricate le rive , e ’l vasto letto ,
In cui si ragunar l' acque correnti.
Nò ’ncontra ’l vero insuperbire ardisca
L’esperienza de’ mortali erranti.
Fallace e vana , a cui di pochi lustri
Il brevissimo spazio orgoglio accresce.
Perchò, dich'io, se ben riguardi e pensi
Il numero de' secoli volanti,
A lui non giunge esperienza umana.
E non adduca incontra noi l'esperto,
Che del mondo cercò le parti estreme.
Fosse , stagni fangosi , imi e palustri
Laghi, in cui si raccoglie il pigro umore,
Cile Dio stimò di si gran nome indegni.
E mari egli chiamò sol l' ampie c grandi
Ragunanze dell'acqua, anzi quell’ una
Grandissima, e perfetta, in cui s’accoglie.
Come ’n suo loco , ’l liquido elemento.
E come ’l foco , che diviso e scevro
In parli minutissime, risplende
Qui per nostr’ uso in verde legno, o’n esca
Arida , in forma di carbone acceso,
0 di lucida damma, o di fumante.
Per cui si sparge ’n cenere e ’n faville:
Ma sotto ’l del , ch’ò men sublime ed ampio.
Nel cavo spazio si raccoglie insieme :
0 come l'aria che si spande, c spira
Per varie parti, e nell’occulto grembo
Passa dell' onda, onde germoglia e spuma ;
E fra spelonche e cavernosi monti
Penetra ancora, e nell’ interne vene
Della profonda c tenebrosa terra.
Ma pu re insieme ’l proprio loco ingombra :
Cosi l'acqua non men s’aduna, e sparge
In vario letto, c Ira conditi angusti;
Ma poi raccolto in voto spazio, e vasto,
Empie ’l salso elemento il proprio sito.
L' altr' acque in varie parti insieme accolte
A questa somiglianza anco sortirò
Di mari ’l nome si famoso e illustre :
Siccome là , dove Aquilone algente
Versa mai sempre le pruine c ’l gelo, [eia,
E i larghi campi e gli aspri monti agghiac-
Chc son canuti di perpetua neve.
Ivi [come la fama a noi divolga)
Sono ampissimi stagni , e nel profondo
Letto, e fra le superbe orride rive.
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quasi pinole del mare, alle paludi,
E in gel converse, anzi indurate e strette,
Quasi in lucente adamantino smalto.
Delle veloci rote II corso e '1 pondo
Sostengon del gravoso ed ampio carro,
Che gli animali ignoti a' nostri sensi
Soglion tirar, la fronte alta e superba,
Di più ramose armali e lunghe corna,
Facendo lunga strada al grave plaustro,
La 've dianzi correa spalmata nave.
Ma di lutti maggior candido lago
Là sotto a’ sette gelidi Trioni [no.
Biancheggia, e quasi eguale al mare Irca-
Mollc ha dintorno alle sue ignote sponde
Città, provinde, regni, Ignote genti,
Popoli barbareschi ; c quesli a caccia
Van per le rive degli augel volanti ;
Osu peri’ onde, e dentr’ all' onde (stesse
Cercali l’umida preda, c ’l cibo usato
Degli animai squaminosi , e degli alati.
Bolmia, Domila piscosa, assai vicina
Ai più lontani ed ultimi Biarmi ,
Intra que' suo’ gelati orridi monti
Ha molti quasi mari , c nutre e pasce
Pur di quell'esca le propinque genti,
E potria mezzo nutricarne ’l mondo.
Ha di Venere ’l lago in altra parte.
Che sotto all’ Orse sì dilata c spande ;
E nel suo spazioso e largo seno
Per ventiquattro porte i fiumi accoglie,
Ch’ entrano in lui : ma solo aperto un varco
Lascia al precipitoso uscir dell’ acque,
Che per sassoso calle al mar sonante
Corrono : e ’l suono I suo’ vicini assorda.
Ei molte accoglie nell'ondoso grembo
Isole e tempj sacri al Re celeste.
In cui s’adora con pietoso culto.
Quivi il lago di Melce anco ristagna
Fra il regno di Suezia c quel de' Goti.
Quel di Vetere appresso ivi mareggia;
E di fulmine ’l tuono, o di metallo
Imitator del fulmine rassembra , [corso
Con quel dell' acque, allorché d'alto il
Muove precipitando; onde sovente
Tuonar diresti, e fulminare il ferro,
Che Calte mura impetuoso atterra.
E l’uno e l'altro di metalli abbonda;
Si ricche son l’ avventurose rive
Di gran vene d’argento, e di ferrigne.
Ha ’1 regno di Norvegia T proprio lago ;
Cile ’n vece di prodigio In sen si nutre
Orrido spaventoso empio serpente, [egro
L’ ha quel d’ lbcrnia, ov’ uom languente ed
Non può stanco spirar lo spirto e l’alma,
Se quinci ei non è tratto. E fra' Britanni
SI vede un lago, che pur scema e cresce
Con ordine contrario al mar sonoro,
In cui, quand'egli cala, il lago inonda;
Ma Comica sè raccoglie, e torna ’ndlctro,
Quando più ferve l’Ocean superbo.
Ila Scozia ’1 Lazio di famoso grido,
E la meravigliosa alta palude.
Che quand’ è più sereno e puro T cielo.
Nè si niuovon per l’aria o venti od aure,
SI gonfia non so come c Fonde accresce.
•Molli Germania e Francia, e quel famoso,
Dacui ilRodan si partee 'limar trascorre.
Alla palude Lagia, onde si vanta
La nobil Gamia, lunga età vetusta
Non ila scemato ancor l’ onore e ’l grido ;
Quivi si pesca prima, e poich’è fatta
Secca ed asciutta, in lei si sparge'! sente,
E si raccoglie ; e tra le verdi piante
Prende l'abitator gl'incauti augelli.
E ’n tal guisa addivlen che ’n vari tempi
L'istessa sia palude, e campo c selva.
E di Tracia e d’ Arcadia ancor son conte
Le meraviglie. E nell’avversa parte
Del mondo, dove ’l Sole asciuga ed arde
La terra , sono ancor nel suolo adusto
Di mirabil virtù paludi e stagni,
A cui di mar non fu negato ’i nome.
In Giudea per miracolo s’ addita
Quello, cui piovve già dal cielo ardente
La giusta fiamma; c l’altro a lui vicino,
Onde prima ’l Giordan si muove e scende.
Fra Palestina giace, e ’l verde Egitto
Ne’ deserti d’Arabia un ampio lago
Detto di Simoite. Or perchè narro
0 d’ Arabi, odi Siri acque stagnanti?
S’ ancor la terra d’ Etiopi e d'indi.
Vieppiù soggetta a) Sol, s'irriga c bagna
De’ suo’ laghi famosi ; e si racconta
Che d’ alcuni bevendo uom, folle e stolto
Tosto diviene, o pur dal sonno oppresso
SI giare, c da mortifero letargo.
Olirà le Mete ancor d' Alcide, e I segni.
Fra ’l Tropico del Cancro e l'ampio cinto
Che la sfera maggior divide e fascia.
Ne’ regni dianzi ignoti un lago ondeggia,
Lo qual non d' ora in ora o scema o cresce,
Nè d’un in altro giorno, e non s’avanza
Di stagione in stagione, o d’anno in anno
Ma ’n guisa d* uom terreo, che tardi giunga
Al suo perfetto stato ; e tardi ancora
Declinando , di sè minor divenga ;
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118 POEMI SACRI.
Per cinquini’ anni egli s’ accresce e colma.
Ed altrettanti poi si scema e vota.
Ma dove, Italia bella, ornai tralascio
I laghi tuoi descritti in mille carte,
E chiarissimi ancor di fama e d’onde 7
Chi tace ’l Trasimeno? o quel eh’ accoglie
Nel dolce seno la cittì di Manto ,
0 ’l grandissimo Lario, o ’l gran Benaco,
Ch’ assomiglia del mar l' orgoglio e l'onde 7
0 tant' altri , onde lieta ancor ti nomi ?
Perchè tace’ io le maraviglie antiche
De' stagni di Rieti , in cui vedeansi
L’ (solette ondeggianti ir quasi a noto?
0 nel lago Tarquinio i boschi ombrosi
Ir su per l’onde, e variar sovente
Forma e sembianza , or con ritondo giro,
Or con tre lati, e fare T terzo acuto?
Ma dall' opre di Dio chi mi trasporta
A narrar di natura 1 vari effetti
Antichi, e nuovi? c riempir le carte.
Sacre alla maestà dei Re superno,
D’allr' onor, d’ altr’ istoria e d’ altro nome,
0 d’ altre rare meraviglie eccelse ,
Che delie sue medesme? o pur son anco
L’opere di natura opre divine?
E ’l magistero di natura è l'arte
Del Fattor primo, ond’è fattura c figlia
La gran madre Natura; e ’n lei s’onora,
E ’n lei si riconosce , e si contempla
II saper e ’l poter die tutto avanza.
Detrailo Re, ch’è suo fattore c padre?
Lo quai de' mari diè l’ immago e ’I nome,
E l'ondeggiar con tempestoso flutto
All' acque insieme accolte : e pur di tante
Fece un sol mar con magistero illustre ,
Ma pur in parte occulto a' sensi erranti ,
Ed uno sol dell’acqua ampio elemento;
A cui fra la gravosa e stabil terra,
E l’aer leve e vago, egli prescrisse
La sede c ’l proprio loco ; e quinci c quindi
Pose i fermi confini , o quasi eterni.
Un solo adunque è ’l mare insieme ag-
D’ acque infinite e d’ infiniti abissi, [giunto
Come affermar quei clic di Sole in guisa
Lustrar la terra e circondarla intorno,
Peregrinando dall’ Occaso all’ Orto ,
O da’ regni di Rotea a’ regni d’ Austro.
Bendi' alcun sia , che stimi il mare Ircano
Da ciascun altro mar scevro c disgiunto.
Perchè tutto è di rive intorno cinto :
Nè dimostra altramente ’l vago senso ,
Come ben dimostrò T antico errore
Di chi pensò , die nella stessa guisa
Separato ancor fosse ’l mar Vermiglio,
E quel degl'ìndi. Ma non senso, o certa
Esperienza di mortali industri
Può dimostrar eh’ agli altri mari unite
Sien l' onde caspie, che divise, e ’ntorno
Son circondate da si lunga terra :
Ma solo ’l pellegrino ed alto Ingegno,
Ch’ ascende al cielo, e gli stellanti chiostri
DI sfera In sfera alfln trapassa, e varca
I confini del mondo , e i spazj angusti
Esposti a' sensi , c con eterna pace
Si congiunge alle pure eterne menti.
II medesimo ingegno 1 letti e ’l fondo
Cerca de’ mari ondosi , e va sotterra
Spiando le più occulte Interne parti ,
Clie ne’ segreti suol Natura asconde.
Questo osò d'affermar del Caspio mare ,
Ch’ ei sotterra con gii altri ancor s’ aggitm-
Comedel greco Alfeo,comedelTigre, [ga;
Come degii altri fiumi ancor si legge.
Perocché Iddio , qual fondatore antico
D’alta citladc, od architetto illustre,
Che per uso di lei profonde e lunghe
Strade faccia sotterra al corso occulto
Dell’ acque vaghe , c le conduca altronde,
0 da fonte, o da fiume, o da palude :
Tal de’ mari forò le vie nascose
Dentro la tenebrosa e fredda terra}
E dal suo fonte le rivolse in giro
il Dedalo divin (se dir convlensi).
Sicché non sol congiunto al mar di Cade
K l’Affricano insieme, e quel de’ Sardi,
E ’l Ligustico appresso, e ’l mar Tirreno,
L’ Adriano , l' Ionio , o pur l’ Egeo
(ioti tant’ isole sue , con tanti porti ;
E ’l Mìrteo suo vicino, e seco ’l Ponto,
Coll' Ellesponto, e la palude amara:
Ma d’ Arabi e di Persi e d’ Indi adusti
1 larghi seni ail’Ocean profondo
Son pur congiunti , e ’n più mlrabil modo
Il Caspio mar, clic si rinchiude, o copre
Per tanto spazio, e poi dagli altri appare
Diviso; e quasi peregrin solingo,
L' alta unione e ’l gran principio asconde.
Non disse allora Iddio: La terra appaia:
Ma l’ arida si reggia. Arida volle
Chiamar la terra, e dimostrar co! nome
Ch’ arida fu la terra avanti ’l Sole.
Avanti che nascendo ’l Sole In cielo
Le seccasse co’ rai ie membra asciutte,
L’ antichissima madre arida apparve.
Perocch’al suon della divina voce
Corsero tutte Tacque in giù repente;
LE SETTE GIORNATE
Ond’ella ne restò fangosa, e mista
D’ acque stagnanti in male adorno aspetto.
Ma fu sua prima qualità vetusta
L' esser arida e secca, e nota antica.
Che la disegna , e sua sostanza adempie.
Com’ è proprio dell’acqua ’l freddo, e ’l
Dei foco, e l’aria è d' umida natura ; [caldo
Cosi alla terra l’arido conviensi.
E siccome al muggire è noto ’l tauro ,
E ’l Ber leone al suo ruggir superbo ,
E 1 cavallo al nitrir: cosi la terra
Per l’arido s'informa e si distingue.
Ma de’ primi elementi ancora immistl
Dio solo intender po6 l’accorta mente,
Contemplatrice degli oggetti eterni.
Ma perchè a’ nostri sensi ornai soggetti
Son delle cose instabili e caduche
I gran principi , onje perpetua guerra
È sott’ al giro dell’ algente Luna ;
In lor nulla di puro, o di sincero,
O di semplice vedi , o di solingo ; [pia
Ma son mischiati insieme, e ’n lor s' accop-
L’ una coll' altra qualità primiera.
Onde la terra insieme è secca e fredda :
Fredda ed umida l'acqua : umida e calda
L’aria : ma sovra lei vicino al delo
È caldo e secco per natura ’l foco.
Cosi le <| uni ì t a ti a coppia a coppia
Ne’ primi corpi son congiunte insieme ,
Per cui l’ uno coli’ altro in un si mesce
In breve pace. E come avviene in danza,
Ch' alcuno in mezzo è con due mani av-
vinto,
E con due mani avvince ; c quinci e quindi
L'intrecciala carola In lungo giro,
Menlr' ella si rivolge , in sè ritorna ,
Cosi degli elementi il coro e ’l ballo
Si gira ’n cerchio, ed in sè stesso ei riede.
Perocché l’acqua col suo freddo unita,
Quasi con una mano , al suolo algente
È della fredda terra : e d’altra parte
Con altra, quasi mano, umida tocca
L’ aria , che posta pur fra l’ acqua e ’l foco,
Sè per l'umido suo coti' acqua Implica,
E col suo caldo s'accompagna al foco;
E delle due nature in sè discordi
E guerreggiami , la contesa e l’ ira
Divide e parte, c lor cougiungc e lega.
Oh ! mirabil del mondo in un congiunta
Con Tarie tempre e con tenaci nodi ,
Catena indissolubile, c più salda
Che duro ferro, o lucido adamante.
Per magistero del superno Fabbro!
DEL MONDO CREATO. Il»
Oh ! delle cose instabili e caduche
Ordln fermo e costante e quasi eterno !
Che nei tuo variar perpetuo osservi
Leggi incorrotte, universali, antique,
Che note sono ali’ Etiope adusto ,’
Ed al gelido Scita; e parte assembri
Nelle vicende, e nel tuo moto incerto
Le certe leggi , c sovra ’l ciel divine.
Ma poiché far nei suo profondo sito
Dell' aeque scorse i gran dlluvj accolti ,
Vide Dio ch’era bello ’l novo Mare,
Con gli occhi no, ma colla mente eterna.
Onde ’1 fatto da Ini nobil lavoro ,
E l’ opre sue medesme egli contempla.
Lieta vista e gioconda e vago aspetto
Quello è del Mar quando tranquillo e piano
Rianeheggia mormorando appresso ’l libo.
È bella vista ancor, se ’l dorso inaspra
Lieta e piacevol aura, e l' onda increspa.
Qtiand’ el ceruleo, ovver purpureo appare
A’ riguardanti , e non percuote irato
Con violenza la vicina terra ;
Ma dolcemente le distende intorno
I.’ amiche braccia; e la si accoglie In seno.
Ma non in questa guisa o bello , o caro
Fu ’l sembiante dei mare al Re celeste :
Nè qui della beltà giudice è il senso ,
Ma la ragion della mirabil opra
Nel giudicio divino è bella , e piace.
In prima ’l Marc all' ampia terra intomo
È d’ognl umor di lei perpetuo fonte;
E per oscure e tenebrose strade
Sotto la cavernosa e rara terra
Se medesmo egli pur divide e parte ,
Quasi per mine occulte assai profonde.
E poiché da sé stesso in lor s* è chiuso ,
Con gli obliqui suo’ corsi ascende in aito.
Dallo spirto, che *1 move, alfin sospinto.
Rotto dell’ aspra terra ’1 duro grembo ,
Fuori se n’ esce : c de’ purgati umori
li terrestre amaror cangiai' ha ’n dolce.
E trapassando da’ metalli ei prende
Qualità vieppiù calda , onde sovente
Con fervid’ acque egli s’accende, e bolle
Nell' isole , che ’l mar circonda e bagna ,
E ne' lochi vicini al salso Udo ,
Talvolta in quel, che son fra terra, e lunge.
Bello il Mar dunque è nel giudizio eter-
no.
Perchè sotterra ha ’l suo profondo corso.
BeUo, perchè nel salso ed ampio grembo
Tutti raccogUe d’ognl parte I (lumi;
E ne’ termini suoi sè stesso affretta.
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ISO POEMI
Bello, perchè ’l principio e quasi il fonte
È delle pioggie e il’ ogni umor che tersi
L’ aria ristretta in brina, In neve o ’n gelo ;
F. riscaldato dagli ardenti raggi ,
Le sue partì più lieti esala in aito,
Le quali arriran poi nel loco algente,
Ore di raggi ripiegati e torti
Non giunge 'I caldo. Iti ristrette insieme
Sono dal freddo, che circonda intorno,
E caggionoin gravoso e denso untore,
Talché l’arido seno indi s'impingua
Della tetra, clic poi conccpe, e figlia
Tante, si varie c si leggiadre forme
Di piante, d' animai, di fiori e d’erbe.
E chi negar, può fede al ver ch'io parlo,
Veggendo come ferve al foco ardente
E fuma ’1 vaso , clic d’ umore è colmo ;
Sicché le parti sue sottili c levi
Spirando in aria, egli sì vota c scema ?
Ma dell'lstesso mar l'onda sovente
Nelle spugne raccolta, e cotta al foco,
Degli assetali naviganti e lassi
Ferve al bisogno, e gli consola in parte.
Ma bellissimo èil Mare innanzi agli occhi
Della divina ed immutabil mente ,
Perchè colle spumose e torte braccia
Tante Isole nel sen raccoglie c stringe :
E perchè le remote e varie parli
Della terra ei congiungo , c i lidi opposti
Dalla natura : c largo e piano ’l varco
Porge al nocchier che lui trapassa, e corre,
Care portando e preziose merci
Equinci equindi ; onde ’l difetto adempie
Dell' una gente e l'altra, c ’l peso alleggia,
Scemando quel che di soverchio abbonda,
E porta insieme ancor di cose occulte,
Anzi d'ignote meraviglie c strane.
Moderna istoria e peregrina fama, [gllo,
Ma da qual alto, c ’n Mar pendente sco-
E da qual più sublime eccelsa rupe ;
Da qual sommo di monti alpestre giogo,
Che signoreggi d'ambe parti il mare,
Vedrò la sua beltà si chiaro, c tanto,
Quant’ ella innanzi al suo Fattor s’ offerse ì
Ma se pure è si bello, c si lodato
Anzi ’l divin cospetto , il Mar ondoso ,
Più bella assai , festante e folta turba
È de’ fedeli suoi raccolta e mista, [già,
Ch’ anzi le porte, e dctitr’ al tempio ondeg-
Ed offre I voli ; e le preghiere al Cielo
Devota porge, onde s'ascolta un suono,
Pur come d’onda, clic si rompe al lito.
Cosi quel suo pietoso e lieto aspetto
SACRI.
Nelle marat igliose c sacre pompe,
E la serena sua tranquilla pace
Conserv i'I gran Clemente e’I culto accresca
Nelle quattro del mondo avverse parti,
Mentr’aprc ’l Ciclo, e i suo’ tesori eterni,
E le sue grazie altrui comparte e dona ;
Nè faccia me di rimirarlo Indegno.
Poi disse Dio : La Terra ancor germogli
L’ erba sua verde, c ’l suo fecondo legno.
Che produca i suo’ frutti ; e questo, e quella
Conforme al seme che nel seno asconde.
Cosi diss’ egli . E la gran Madre antica ,
Clic scosso avea dell' acque II grave peso,
Già respirava, ed alleggiata in parte
Parea , quando fuor diede i nuovi parti.
Perchè la voce del sovrano impero
Costante , certa ed Immutabil legge
Fu quasi di natura ; e ’n parte alcuna
Ella non varia al variar de’ lustri ,
Ma si conserva ancor di tempo in tempo.
Però della pregnante e grave Terra
Quasi la prima prole è il verde germe;
E poiché da) suo freddo umido seno
Egli s’innalza alquanto, erba diviene.
E vigore e fermezza alfine acquista,
Talché fleti si dimostra , o ’n altra forma
Perfetta appare, e ’n sua cresciuta etade
Ha ciascuna di lor l' erboso e ’l verde ,
Per cui quasi sorelle, e nate insieme,
Non ci paion ristesse, e non diverse
Molto, ma l' una assai simiglia l' altra :
E senz'aiuto altrui la vecchia Madre
Queste produsse, c non fu d’ uopo altronde
Strana virtute, oltra ’1 divino impero.
Fu chi pensò ch’aita cagione il Sole
Fosse di ciò che ’n lei s’appiglia, o nasce,
Lo qual la scalda con gli ardenti raggi ,
E ’l suo natio vigor dal suo profondo
Con quel vilal calor attragge In alto;
Ma dietro sua ragion s’inganna e falle,
Perchè la Madre Terra è più vetusta,
E nata pria che ’n del nascesse ’l Sole.
Non gli perturbi dunque un vano errore;
E lascin d’adorar del Sole il lume,
Come di vita sia cagione eterna.
Cessin le meraviglie antiche e nuove;
Cessino i preghi, I sacrificj e i voti;
Cessin non pur marmorei alti colossi ,
Ma con gli altari 1 sìmolacri e 1 tempj ;
E cessi ogni fallace ed empio culto,
Ond’ ancor quella sciocca e rozza gente ,
Ch' oltra le Mete, c le Colonne alberga
Sotto l’ignoto del la terra ignota,
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LE SETTE GIORNATE
Che l'Oeean da noi scompagna e parte ,
Adora ’l Soie; e, come a Dio supremo,
Gl’Idoli suoi bugiardi a lui consacra.
E sappia , scorta ornai da santa voce ,
Per cui del nato mondo in lei rimbombi
La maraviglia, e del celeste Fabbro
L’ opra e T lavoro e ’l magistero adorno ;
Sappia ella, dico, ornai (s' inganno, o dub-
In quc' semplici petti ancor rimane) [bio
Sappia che quel lucente ardente Sole,
Che lutto del suo lume ’l mondo illustra,
E tutto ’l corre e lui circonda intorno;
Quell’aureo fonte di serena luce, [dre
Quel grand' occhio del elei, quell' alto pa-
Dclla vita mortai, quel duce eccelso.
Lo qual co' raggi suoi ne guida e scorge.
Nuovo e giovane più di fieno e d'erba,
Lor cede di vecchiezza ’l primo onore :
Ma che fu prima alle lanute gregge ,
Ed a’ cornuti armenti il verde pasto
Preparato dell’ erbe; e ’l cibo untano
Fu d'ogni provvidenza allora indegno.
E quel Signor, eh’ a' tardi c pigri buoi
Ed a’ cavalli rapidi c correnti,
Il faci! nutrimento anco dispose;
Dolci apparecchia a te care vivande,
Onde tu goda, e ricca mensa ingombri.
Quel , che le mandre tue tl nutre e pasce,
0 pur le torme in prato erboso Impingua ;
In gran vasi d'argento, odi fin oro
Condisce il cibo, e ti nutrisce e giova,
E co’ sapori ti lusinga ’l gusto.
Ma ’I germogliare ancor di seme sparso
Altro non è eh’ un prepararti arante
Quel che la vita tl mantenga e servi
E l’ erbe ancor son nutrimenti umani ;
E P altre che produce ’I suol fecondo ,
Quasi fra l’ erbe e le frondose piante
In mezzo poste, e di natura incerta.
Benché non tutti dell’ erbosa terra
Nascanda semi sparsi i germi c i parti ;
Né la gramigna, onde corona illustre
Ebbe ne’ tempi antichi il buon Romano,
Nè la canna che tempra in dolce suono
Spesso al pigro pastore I rozzi amori ;
Nè la menta, nè ’l croco, e mille e mille
Senz’altro seme ancor produce e cria
La Terra, umida ’1 volto e pingue ’l seno.
Perchè nella radice , o pur nel fondo
Quasi è virtù di seme : e'n questa guisa
La vota canna, poich’ un anno intero
Cresce vestita di sue verdi spoglie,
Da sua radice manda , e sparge In fuori
DEL MONDO CREATO. 12 1
Un non soche, lo qual di seme ha forza
0 pur ragione, e l’è di seme in vece.
Nè della canna giù l’oliva è nata.
Ma dalla canna pur nasce la canna,
L' oliva dall' oliva ; onde s’ adempie
Quel che da prima Dio di lor dispose.
E quel che fu nel primo antico parto
Generato di terra , c fuor prodotto
Dalle tenebre oscure in chiara luce.
Di stagion in stagion, di tempo in tempo,
Nel similsuo rinasce e si rinnova,
E nella sua progenie è quasi eterno.
Deh ! pensa come al suon di pochidetti,
E di romandar breve, allor repente
La raffreddata e secca e sterll Terra
Senti del partorir la pena e T duolo.
Ei cari frutti a generar commossa.
Apri ilei chiuso ventre I verdi chiostri.
Come donna pur dianzi egra e dolente ,
Deposto ’l negro manto c ’l vcl lugubre,
Veste di ricche spoglie e d’aurei fregj.
Con arte vaga , olirà l’ usato adorna ;
Cosi la Terra, chc'n dogliosa vista
Mesta appariva e’n squallido sembiante,
D' erbe e di fiori e di frondose c liete
Piante novelle all' abbellite membra
Fece la verdeggiante e ricca veste ,
Tessendo al lungo crin varie ghirlande.
Deh ! pensa teco ancor di parte in parte
Quante fe’ meraviglie Iddio , creando ;
E perchè resti al cor profondo affisso
L’ allo miraeoi suo , dovunque girl
Gli occhi e ’l pensier nell’ opere create.
Ti sovvenga di lui che fece ’l tutto.
Perchè non è sì vile e rozza plaota ,
0 si minuta in terra erba negletta ,
Che rinnovar non possa al cor l' immago,
E la memoria del Fattore eterno ,
E richiamarne I miseri mortali.
Prima del flen l eggendo i fiori e l’ erba,
Pensa fra te che pur di fieno in guisa
L’ umana carne si disfiora , e perde
Il suo natio colore : arida in vista
È la gloria mortai ; troncata in erba ,
Cade repente. Oggi leggiadro amante,
É nel più verde e più sereno aprile
Della felice sua gioiosa vita ;
Nodrito di pensier dolci e soavi ,
E dì speranze giovanili altero ,
E di purpurei adorno e d’aurei fregj.
Sparso d’ arabo odor la chioma e ’l volto.
Robusto per l’eti, raggira Intorno
Un gran destriero e lo sospinge al corso t
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122 POEMI
0 con estranea pompa in finto aspetto
Appare altrui sott'a mentite larve.
Gravi lance rompendo in chiuso arringo;
Domani è tìnto di pallor dì morte ,
Con occhi nella fronte oscuri e cavi :
0 colle membra debili e tremanti
Preme odiose piume; c ferve c laugue
Con interrotte voci appena intese.
Qurgli di sue ricchezze antiche, o nove.
Da se raccolte, o pur dagli avi illustri.
Della sua fama, e del su’onor superbo ,
E da folta seguilo ed umil turba,
Anr.i da numerosa c lunga greggia
Di propri servi , e di ministri eletti ,
0 pur di lusinghieri e fiuti andei;
Esce dell' alto suo dorato albergo,
E torna poi con orgoglioso fasto.
Ed uscendo c tornando , Invidia e sdegno
Move nel primo e nell’estremo occorso.
E d’ogn’ intorno vede all' alle porle
Accorrer gente, di’ ivi adduce c tragge
Grazia, prezzo, favor, mercede e cibo.
Alle ricchezze alta possanza arrogo
Di libera città governo, impero
D’armate squadre, e dagl' invitti regi
Onor concesso e potestà sublime,
E peregrina guardia, in lucid'armc
Temuta c fiera, e’u disusata foggia :
Quinci ’l timore , o di gravoso esilio ;
0 della povertà spogliata c nuda ,
0 di tenebre oscure In correr tetro.
Di grav i ceppi , o pur d' orrida morte ,
l,a plebe e i cavalicr perturba ed auge.
Ma clic ? lo spazio di una breve notte ,
Fianchi , stomaco, febbre ardente e grave
L’ assale e doma , e da si lieto stato ,
Da si sublime altezza , anzi dal mondo
L’ infelice signor rapisce a forza ;
Dispogliando repente a lui dintorno
Di questa vita la dipinta scena :
E tanta maestà sparir confusa
Ratto si vede, e quasi in sogno, o'nombra.
Cosi rassembra un fior languente c vile
La gloria de' mortali , alta e superba [no
Pur dianzi : orili Fortuna è gioco e sclicr-
Ma colle cose, onde la vita e’i pasto.
Aver poscia dovean gli egri mortali ,
Prodotto fu micidiale il tosco.
Nacque coi grano la cicuta insieme ;
Con gli altri cibi immantinente apparve
L’elleboro, e'I color fu bianco c uegro.
Apparve nolo alla matrigna ingiusta
Poi l’ aconito : e non rimase occulta
SACRI.
La mandragora in lerra : e non s’ ascose
li papaver, clic sparge ’l grave succo.
Dobbiam dunque accusar la mano eterna.
Che fece ’l mondo , e vi produsse in lerra
Quel che la vita poi guasti e corrompa 7
Ma pensar non dobbiam ch'ai ventre in-
gordo
Tutto debba servire, empiendo ’l sacco,
0 lusingar con sua dolcezza il gusto.
Perdi’ ogni cibo preparalo, od esca
Nota s’olTcrse, ed opportuna e pronta :
Ed ha ciascuna e la ragione c ’l modo,
Ond’ella giovi. E se del lauro il sangue
Fu già veleno a le, famoso duce.
Che pria vinto fugasti ’l re def Persi,
Poi le Btcdcsmo al suo poter soggetto
Far non sdegnasti, c la tua patria antica;
Dolca però queir animai robusto ,
Cile si destina ai giogo ed all' aratro,
E'n molti usi ci giova e'n molti modi ,
Non esser nato? od esser nato esangue?
Non bai ragione , ondo tu selliv i , o fugga
Quel die ti nuoce, e'I tuo migliore elegga?
Le mansuete e semplicette agnclle ,
() pur le capre, abitatrici alpestri
Degli alti inoliti e deli' incolte rupi ,
Sanno schivar quel clic le affligge e nuoce
Disccrncndo col senso. A te s' aggiunge
Gol senso la ragion , celeste dono :
E lunga insieme esperienza ed arte.
Ma da quel elle ci nuoce, anco sovente
EHI si traggo ; c ’n prò si volge ’l danno :
K giovevole altrui sovente appare [guisa
Quei eli’ è dannoso agli altri. E’u questa
Il mal col bene si conlemprn c mesce;
Talché nulla è da Dio creato indarno.
La cicuta agli storni é caro cibo;
Né (benché freddo} noce al caldo corpo
Del picciolo animai. Ricerca ancora
La pernice ’i veratro , indi si |>ascc :
Taì soli le tempre, ondo si schiva T danno.
La mandragora e l’oppio il souno allicc.
Ma giova ancora alla virtù languente
Delle faiuusc donne e degli eroi
Vinti dal mal, benché dall'arme invitti.
Del buon veratro il buon rimedio antico
È nella filosofica famiglia
Inpregioancor;perch’egli punge e desta
L’ingegno usato alle quistìon profonde;
Come di Prcto già sepper le figlie ,
E T forsennato Alcide, c quel famoso,
di' al buon Pericle fu maestro c duce.
E la cicuta ancor rabbiosa fame
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LE SETTE GIORNATE
Rintuzzando reprime. Or volgi adunque
L’ accuse in grazie : e Dio ringrazia e loda,
Che deriva dal mal sì pronto ’l bene ,
E dalla morte ancor la vita ei trasse.
E non pensar ch’oltra all* impero e ’l suono
Della sua voce , generare ardisca
Disdegnosa la Terra audace parto ;
Benché la folle antichità la fìnga
Madre di fieri mostri e dì giganti.
Ma l’Infelice e sventurata felce.
Che non produce mai frutto , nè fiore ,
E l’infecondo loglio uscir prodotte
Dal suo proprio principio ; c non altronde
Corrotti , e trasmutati in altra forma :
E di coloro ebber sembiante immago,
Di cui dovean poi le parole e i sensi
Germogliar nelle sacre antiche Carte
Inutilmente, e mescolati al vero
Farlo men puro, e men sincero in parte :
Siccome avvicn, quando a progenie illu-
L’ illegittima prole insieme è mista, [stre
Anzi ’l Signore istesso i suoi perfetti ,
Ch’ebbero in luì costante e salda fede,
Poi rassomiglia a quel cresciuto seme,
Ch'abbia prodotto alfin maturo il frutto.
E già per adempir l’ eterna legge
Della sua voce , e ’l suo sovrano impero ,
In un momento avea la Madre antica
Maturati nel grembo i cari germi.
Eran fecondi già gli erbosi prati
E *n guisa ornai di tempestoso mare
Ondeggiavan di spiche 1 verdi campi.
Ogni erba, ogni virgulto, ogni arboscello,
Ogni umil pianta, c colle foglie eccelse
Ogni alber più frondoso c più sublime,
E ciò che per nodrirne , o per al ir’ uso
Della vita mortai germoglia e cresce ,
Era già sorto ; e verdeggiando In alto
Con larga copia empieva ’l fertil grembo
Dell’ ampia Terra ; e d* importuna pioggia
Non si temea, nè d’improvviso turbo,
0 di sonora c torbida tempesta :
Chè non polea dell’ inesperto c pigro
Neghittoso cultor 1* indugio e l’ ozio ,
0 la sua tracotanza, od aria Impura
E stemperata, o fulmine, o procella,
Od altro sdegno pur del ciclo irato,
Nuocer al già maturo e dolce frutto,
0 danno fare all’ ondeggianti spiche.
Nè dell’ aspra sentenza il gran divieto
Della terra impedia la copia ancora :
Ch’ erano allor più antichi i vari frutti
Del peccar nostro , e di vetusta colpa ,
DEL MONDO CREATO. 123
Ond’ a si duro e faticoso culto
Siam condennati , ed a ri trarne *1 cibo
Collo sparso sudor del proprio volto.
E tutti ancora al suon dell’ alta voce
I boschi verdeggiar con denso orrore
Di folte piante e d’intricati rami :
E quelli , che drizzar le verdi cime
Sogliono al ciel con più sublime altezza ,
Cedri odorati, abeti, pini e palme,
Premio de’ vincitori ; o pur cipressi
Imitatori dell* antiche mete.
Gli umili ancor, come i ginepri e i salci
Dispiegavano ornai la verde chioma.
E quelle piante ancor, di cui s’ordiva
NobiI corona all’ onorate fronti ,
Dico le rose e i sacri allori e 1 mirti ,
Sorgendo insieme frondeggiar repente,
(x>n sue proprie virtù distinte e scevre ,
Quasi di varie note in vari modi
Da mano eterna a lor notizia iscritte.
Ma solamente allor ne’ primi tempi
Senza que’ suo’ pungenti , ispidi dumi
Spiegò le foglie la purpurea rosa.
Alla bellezza poi del vago fiore
Aggiunta fu la dura acuta spina ;
Perdi* al nostro piacer sia presso ’l duolo,
E ci rammenti ’l peccar nostro antico.
Per cui fu condcnnata (c ben convenne)
A partorir la Terra ortiche e spine.
Ma come avvien eh’ a quel divino impero
Molte , quasi ritrose e ribellanti ,
Neghino ubbidienza In fare ’l frutto?
E non sien nate ancor del proprio seme?
L’arbore, onde già cinse ’l crine incolto
( Simun’ è vecchia fama) il forte Alcide ,
Or biancheggiarsi vede, or negra appare:
Ma pur frutti non fanno o queste, o quelle.
Sono infecondi ancora il salce e l’ olmo ;
Ma ciascuna ha di lor suo proprio seme.
Come vedrai , se ben riguardi e pensi ,
Glie soggetto alle foglie è un picelo! grano,
Misco nomato già dal Greco industre,
Clic pose molto studio e molta cura
In fare i nomi , e fabbriconi e finse.
E questa ha forza pur di seme occulto,
Come hanno l’ altre ancor, che da radice
Sogliono germogliar; ma legge impose
L’eterna voce alle più degne e conte.
Di cui far volle Iddio memoria illustre :
Come la vite e la tranquilla oliva,
DI cui l’ una produce ’l dolce vino ,
E l’ altra l’ olio : e ’l vln conforto e gioia
È de* più dolorosi afflitti cori :
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124 POEMI
L’olio ci fa lucente e lieto ’l volto.
Ma chi potrebbe annoverar, parlando, j
Tante e si varie di virtù segreta ,
E di sembianza , e da sì varie parti
Traslatc piante , c peregrine illustri ,
0 nostre pure , c soli’ al nostro ciclo
Cresciute, od in selvaggia orrida parte,
0 tra le mura pur del proprio albergo,
Che fanno istoria si famosa c lunga?
Basta la vite sol , che *n allo stende
Le torte braccia, e con frondosi girl
All’olmo amica si marita e lega ;
Basta la vite solo a farci accorti
Di nostra vita ; c di natura esempio
A noi si mostra, anzi è più degna immago
D’immagin naturale, o di celeste.
K rassomiglia umilemente altera
Della Madre Natura il Padre eterno.
Padre del cielo, o pur l’ eterno Figlio,
Ch’ a sè stesso di vile ’1 nome impose;
E coltor nominò, parlando, il Padre :
E noi , per fede nella Chiesa inserti ,
Dì chiamar si degnò sarmenti c tralci ;
Pcrocch’a noi, coni’ alla fertil vite,
Conviensi, o come alla feconda olita,
Producer largamente i dolci frutti ,
Senza spogliar giammai per tempo, o caso,
Della speranza non terrena ’l verde ;
Ma con sempre borito c lieto aspetto
Rassomigliarla, c verdeggiar nell’ opre ;
Ed offerirne a Dio la gloria c ’l inerto ,
Ch’ è divino cultor di pura mente.
Ma sono in dignità vicine a queste
Quelle felici piante avventurose.
Che della madre sua son quasi immago ;
La qual è nel cipresso c nella palma
Rassomigliata : e d’odorato cedro,
E di platano ancor non prende a sdegno,
0 pur di mirra la sembianza e ’l nome.
Ma pur queste medesme ed altre ancora
Utili sono a’ magisteri, all’arte
Di nostra vita e quasi a ciò prodotte
Dalla natura , anzi dal Fabbro eterno
Colla natura insieme allor create.
Altra par nata agli edifici eccelsi :
Altra a tesser di sè le navi e i carri :
Altra a far lance , o pur saette ed archi ,
Armi temute nell'orribil guerra :
Altra ci nacque destinata al foco :
Altra a far ombra a’ peregrini erranti
Nel mezzogiorno, od a coprir d’intorno
Colle ramose braccia i dolci fonti ,
0 pur le mense fortunale appieno :
SACRI.
Ma che sia proprio di ciascuna , o come
L’uua dall’altra si distingua e parta;
0 quai denti-’ alla rozza orrida scorza #
Sieno amori secreti ed odj occulti ;
È studio forse d'ozioso ingegno,
E ’l ricercar qual nel profondo grembo
Dell' ampia terra le radici estenda :
Qual nel sommo di lei s’ appigli appieno:
Qual dritta nasca e sovra un saldo tronco
Lieta s'avanzi, c s'avvicini al ciclo :
E qual cresca, le braccia e i piè distorta,
E ’n molti rami si divida c parta :
E «piai umil serpendo, a terra incitine
Le verdi fronde , o non ardisca alzarsi
Senza ’l fido sostegno, a cui s’apprenda.
Cura oziosa è pur di vana mente.
Ma quelle che diverse e quasi sparse
Per l’aria son con molti rami intorno.
Sogliono aver ancor profonde a dentro
Le sue radici assai distese in giro :
Perchè Natura stabilisce e fonda
Delle superne parti il grave peso
Incontra ’l mormorar di Borea c d’Austro.
Nella nativa ancora incolta scorza
È gran divario. Altra l’ ha rozza ed aspra :
Altra mcn dura : altra più molle e liscia;
Altra d’una corteccia appar contenta:
Altra di molte si ricopre c veste.
Ma quel che meraviglia in vero apporta ,
È che ritrovi in lor (se ben riguardi )
1 diversi accidenti c i vari esempi
Di gioventute c di vecchiezza umana.
Perchè le piante, ancor novelle c verdi,
Hat» polita la scorza e quasi estesa.
Ma s’ addì vien che per inoli* anni invecchi,
S’ empie di rughe, ed increspata inaspra.
Ed altre germogliar recise e tronche
Sogliono : cd altra , nel troncare , il ferro
Apporta quasi inevitabil morte.
Altra fu già, eh' impetuoso turbo
Dalle radici sue dlvelse, e poscia
Ella risorse, e s'appigliò di nuovo
Nel duro grembo dell’antica Madre;
Siccome ben due volte almeno avvenne
Ne’ campi dì Farsaglia, e ’n altra parte.
Altra non pur, come si scrive c conta.
Nella medesma terra anco s’apprese:
Ma fu talvolta clic reciso ed arso.
Il pino trapassò di selva in selva :
E verdeggiò tra le robuste querce :
Miracool raro di Natura e grande,
Se meraviglie fa 1’ alma Natura.
Ma chi riguarda, come ’l buon cultore
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LE SETTE GIORNATE
I vili curi dell' inferme piante,
E dell’egra Natura in lor corregga
Vari difetti, e gli trasmuti in meglio;
Di curar sè medesmo apprenda ’l modo.
II bei pomo affrìcan, clic ’n molle scoria
Mille quasi purpuree e bianche gemme
Asconde c copre, e poi le sparge aperte,
Onde l'arida sete estingua In parte;
L’ acido suo sapore in dolce succo
Cangia sovente. E 1 mandorlo d' amaro
Dolce diviene, e l’amaror maligno
Affatto lascia, se forato è il tronco
Alle radici, e dentro '! foro infitto
Di pece un cuneo ei ricevendo accoglie
Nella pingue midolla. E l’orzo ancora
È medicina alle frondose piante,
E le fa belle olirà misura, e liete :
Tanto può l’arte del cultore industre!
Ma s’egli è neghittoso e pigro all’ opre,
Per negligenza di coltura e d’ arte ,
Gli alberi vanno ognor dì male in peggio.
Altri mutano ancor colore c forma
Senza l’aiuto di cultore amico.
E la candida pioppa in negro tinge
Le bianche foglie ; e si trasmuta in loglio
Sovente 'I lino : ed il sisimbro in menta
Per soverchia coltura ancor si volge.
Cosi l’animo ancor, se studio, o cura
Delle sue macchie noi polisce c terge ,
Perde ’l natio candore , e tutto annera ,
Ovver di grande egli diviene angusto ,
E d'alto, basso, c sè medesmo Inchina :
Ma per culto s'innalza , e lieto aspira
Già quasi al ciclo, e sè medesmo avanza.
Dunque di coltivar l'umana mente
Apprendano 1 mortali , c 1 vari morbi
Sanar dell'alma in sè languente ed egra.
Or chi potrebbe annoverar parlando
1 vari frutti , o dimostrar distinti
1 color) , 1 sapori , I propri effetti ,
E la propria virtù mal nota ai gusto?
Non sol mille maniere e mille forme
D’arbori fanno i frutti in mille guise;
Ma in una sorte istessa , e ’n una parte
Molta varietà s'osserva e mira
Di color, di figura, o pur di sesso.
Siccome nella palma altri ritrova
Dalla femmina sua distinto ’l maschio;
Perchè com'clla sia commossa, c spinta
D' interno amor, quasi le braccia stende ,
E brama al suo marito esser congiunta.
Ed il medesmo awìen tra fico e fico : [nasce
Perché ’l selvaggio a quel eli' alberga c
DEL MONDO CREATO. 12S
Fra le rinchiuse c ben guardate mura,
Si pianta appresso ; o pur si lega e stringe
L’ uno coll’ altro frutto ; e ’n questa guisa
L’infermità si cura; e si ritiene
Ch’egli non cangia alfin disperso e guasto.
l)ual di Natura è questo oscuro enigma?
Forse ’n tal modo ella c' Insegna, e mostra
Che dagli strani, ancora a noi congiunti.
Virtù s’acquista alle buon’ opre, e ferma
Costanza. Adunque Italia ornai rimiri,
llalia ancor languente, ancora inferma.
Vieppiù che ’n guerra, in neghittosa pace,
Che l’ interno suo mal non vede , o sente ;
Miri gli orridi monti , e ’n loco alpestro
Cerchi la gente orribile c selvaggia :
Quinci ’l tenero suo , che languc e cade ,
Anzi ’l morbido suo confermi , e ’nduri
Per unione , o per esempio almeno.
Ma in nlun peggior modoe più spiacente
Traligna, e perde la robusta pianta
li suo vigore e la sua prima forza,
S'egli addivlen (come sovente incontra)
Che’n femmina di maschio egli si cangi.
E quinci l' uomo ancor si guardi e schivi
D’ammollir, quasi donna, il cor robusto,
Che Natura gli diè , tra I vezzi e gli agi,
Per ozio, per diletto, o per lusinga.
Ma fra le piante ancor distinte e scevro,
Natura amica amor vi pose, e pace :
Pose fra l'altro inimicizia ed ira.
Il bel pomo gemmato e ’l verde mirto,
0 pur il mirto c la feconda oliva,
Sun per natura amici , e ’n breve spazio
Piantali appresso senza oltraggioe danno:
Ma pur la dolce vite e ’1 dolce fico
Avversi sono olirà misura , c ’nfestJ.
Chi ’l crederebbe? c tu , Natura , insegni
Che tra’ buoni talvolta è sdegno e guerra.
Ma si marita ancor la vite e ’l fico ,
Come addivien, quando fra regno e regno
Quclan le nozze l’odiosa guerra.
E chi ’1 marito allor disturba e svelle,
Langue la sua consorte In breve, c muore.
Nobile esemplo dell’ amore umano ,
E di fè maritai costante e salda.
Ma ’l caolo s’alia vite s’avvicina,
Tempra quel generoso e grande spirto.
Onde poscia ’l suo vino avvampa e ferve,
E giova agli ebbri : in colai guisa ammorza
L’ interna fiamma fervida e fumante.
Ma d’ innocenza han sovra gli altri il vanto
Il bel pomo granato e ’l dolce melo ,
Nè fanno ad altra pianta oltraggio, od onte.
126 POEMI
Ed innoccn te '1 pino innalza c spande [ bra
La chioma al cielo, cd ampio spazio adom-
Con larghi crini e colle braccia estese :
Picciol loco sotterra ingombra e prende
Colle radici, e sott' all' ombra amica
Verdeggiano sicuri il mirto e ’l lauro.
Sott' all’ombra cosi di re possente.
Che di tesoro ingordo, o di terreno
Non si dimostra , e non s’ usurpa a forza
De’ suo' vicini l'occupata parte,
Crescon molti sovente in lieta pace:
E fiorisconvi ancor gli studj e Parti
Dell'eloquenza, e 1 meritati onori.
Vi sono piante di natura incerta,
E di gemina vita in acqua e ’n terra.
La mirica è fra queste , e spesso abbonda
Ne' solitari luoghi e ne’ deserti;
Ne’ laghi c negli stagni ancor ci nasce.
Sembiante a quei che variar sovente
Soglion le parti, ed’ un in altro campo
Seguir fortuna, c d’un signore all’altro
Per natura maligni, e per costume.
Ma delle piante ancor chi tace ’l pianto?
Chi può tacer le lagrime stillanti
Dalle ruvide scorze? e i viri umori
Lucidi, trasparenti, insieme accolti?
Sparge dal legno suo tenace e lento
Sue lagrime ’l lenlisco; e ’l dolce succo
Fuor versa ancor di lagrime odorate
li balsamo ; arboscel pregialo e caro
Nel regno degli Ebrei. Ma ’i verde Egitto,
E l’ Affrica arenosa ancora ’l pianto
Della ferula vide, li chiaro elettro
È lagrimoso umor, che sparso cade
D’arbor famoso, eh’ un bel pianto impetra.
Ma pur troppo ’l parlar s’avanza e.
E negli aperti e smisurati campi [cresce,
SAcni.
Della terra e del mar confine, o freno
Non trova al corso, ond' ci disperso errante
Per le cose minute andria vagando;
in cui sì grande appare , e si possente
Dio Creator, che fece ancor l’ eccelse.
Dunque Ha d’ uopo di fermarlo, avvinto
Dalla necessitò, eh’ è dura e salda.
Prima ch’alia fatica il breve giorno
Manchi di questa mia vita caduca.
Voi , che mirale le diverse piante
Negli orti e nelle selve, o pur ne' monti.
Nelle paludi ancora, e negli stagni,
0 pur dell’Eritreo nel rosso grembo;
E vagheggiate i verdi tronchi e i rami,
E le fiorite lor frondose chiome;
Nel poco ornai riconoscete ’l mollo :
E col pensiero a brevi c scarsi detti
Gran meraviglie ancor giunger potreste,
Pensando a quel Signor che fece ’l mondo
Meraviglioso di lavoro e d’arte.
Lo qual disse : Germogli ancor la terra
Il legno , clic produca ’l dolce frutto
Sovra la terra. Allor all'alta voce.
Come paleo, clic nel suo ferro affisso,
Alle prime percosse ei va rotando ,
E con molte sue rote in se ritorna;
Cosi la Terra va girando a cerchio
Le sue stagioni ; onde si spoglia e reste
E i cari frutti suol produce c serba.
Chò pur la sferza con divina voce
Quel che comanda alla Natura, al Cielo :
Perch’ ella d' anno In anno i certi giri [pia,
Volga sembianti al primo. Allin gli adem-
Quand’avrà finc’l tempo, c finc’l mondo.
Ned ella sola avrà qutete e pace :
Ma i Cieli avranno ancor riposo eterno.
GIORNATA QUARTA
In cui furon creati il Sole , la Luna e le Stelle.
Quel che rimira le contese e I pregj
Dei lottatori , o di chi leve al corso
Le membra ignude in di solenne affretti ;
Odiguerrierlpurrimpreseerarme, [go,
Diverse in largo campo, o ’n chiuso arrin-
E i duri i ncontri in tornearne rito, e ’n gio-
stra;
Sente in si stesso un movimento interno,
Ond* è commosso e concitato insieme
Con qncl che fan tra lor dubbio contrasto :
E col suo proprio affetto inchina c pende
Più sempre ad una parte ; e brama e spera
La vittoria da quella : e spesso innalza.
Per rincorar I suol , la voce e ’l grido.
Cosi chi di celesti obbietti eterni ,
E delle cose smisurate e grandi ,
Mira le meraviglie; o pure ascolta
Quel ch’ogni stima, ogni giudirio avanza
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LE SETTE GIORNATE
Deir inerrabii sapienza ed arte ;
Convlen che seco, anzi In sé stesso apporti
Gl' impeti interni e’1 rivo ardore c’I zelo
Fervido, a contemplar rivolto e Uso
Tai cose e tante, in pochi giorni ai suono
Fatte della divina eterna voce.
E dee con ogni forza insieme accolta,
Tome compagno c come fido amico,
Trovarsi nel contrasto, e dar aita.
Perchè non si nasconda c non s’adombri
La verità : ma senza Inganni , o falli
Risplenda, e di sua luce i cori Illustri.
Ma che dico! ed a chi ragiono e parlo?
Mentre In si faticosa e giusta impresa
Quasi ardisco di porre i cieli in lance,
E pesar l'universo appeso in libra.
Le primeoprc narrando, e i primi giorni,
K i natali del mondo : e i primi, c gli alti
Prtncipj suoi non ricercando a caso
Fra le menzogne della Grecia antica;
Dove per suo voler s’ arclcca , e perde
Altri, filosofando, it dritto lume :
0 pur nell’ Accademia, e nel Liceo :
0 nell’ error del tenebroso Egitto;
Ma da colui , che fuor ne trasse , e scorse
1 fidi suoi per mezzo ’l mar sonante ;
Egli mi tragga ancor sicuro a riva
Da questo si turbato e sì profondo
Mar d’ignoranza e di superbia umana.
Anzi pur tu, che lui (assembri , o Padre
Sommo, e rinnovi ’l primo e santo esem-
Tu, die somigli lui, somigli ancora [pio;
Il Re del cielo, ond'ei fu quasi inunago,
Ma pur nascosa fra gii orrori e l’ombra
Del sccol prisco ; e tu se’ I* altra or vera
Spirante inunago, e simolacro illustre
Dell'alta gloria sua che nulla adombra.
Onde co’ raggi suoi riluci e splendi.
Piacciati tanto al mio turbato ingegno
I Compartir di quel santo e puro lume.
Olle trasfuso da te, conduca e scorga
L’alme gentili , e i pellegrini spirti.
E se giammai gli occhi levare in alto
Ih bel sereno lucido, notturno
All' immortal beltà dell’ auree stelle.
Pensando all’ opre del Fattore eterno;
Chi è colui che fece ’l ciclo adorno ,
E tutto ’1 variò , quasi dipinto
Con sì diversi fior di luce e d’ auro :
E come nelle cose esposte a’ sensi
Necessità tanto ’l piacere eccede :
E se ’n tal guisa fur mirando appreso
Del sommo Dio le meraviglie eccelse :
DEL MONDO CREATO. 157
E da quel clic si vede, e scopre agli ocdil
Fur note poi Paltrc imbibii forme;
Posson beu questi empier le sedi intorno
DI questo sacro a Dio teatro, e i gradi ,
Ove la gloria sua si narra e canta.
Oli ! possa io pur, siccome guida c scorta,
Ch’ignoto peregrin conduce intorno,
E gli edifici , e le mirabili opre
Di famosa città gli addita e mostra.
Cosi condur le peregrine menti
De’ mortali quaggiù, mai sempre erranti,
Alle sublimi meraviglie occulte
Di quest’ ampia città : di questa, lo dico,
Città celeste, ov’è la patria antica
Di noi figli d’Adamo, c l’alta reggia,
In cui gli eterni premj 11 Re comparte.
Ma poi scacciati in doloroso esilio
Fummo dal micidial denion superbo.
Clic pria dolce n’ adesca, c poi n’andde
D’eterna morte, e’n servitù n’adduce
A’ duri lacci del peccato avvinti
Con nodi di fortissimo adamante.
E qui potran veder sicuri e certi ,
Della nostra immortale c nobil alma
L'alto principio e la celeste origo,
E quella, che repente indi n’assalse.
Orrida spaventosa c fera Morte,
Che del Peccato è dolorosa figlia :
Del Peccato, eli’ è prole e primo parto
Del superbo Demonio, a Dio ribello.
Principe di malizia , e quasi fonte ,
Ond’ogni mal fra noi si versa e spande.
Qui conoscer potran sè stessi ancora ,.
Che per natura son terreni e frali ;
Ma pur della divina e santa destra
DeU'eterno Signor fattura ed opra ;
E conoscendo le medesme , alzane
A conoscer Iddio , che fece 'I tutto.
Ed adorare ’l Creator del mondo ,
E servire ai Signor, dar gloria al Padre:
Amar quel che ci nutre c ci conserta,
I .odar quei ch’i suoi beni a noi comparte,
Principe a noi dell’ una e l’altra vita
Caduca, ed immortale in terra e’n cielo.
Apprender qui potranno. E sazj e stanchi
Non saran mai di celebrarioa prova ; [stra.
Perdi’ ei co' doni ; onde jrriechiseee Ulu-
li fa lieti quaggiù gli egri mortali ,
Conferma ancor le sue promesse antiche
De’ tesori celesti , e dell' eterno
Regno divino , ove ne chiama a parte;
E l’ umana speranza innalza e iblee »
Che sempre per sè stessa a terra serpe.
Dii
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128 POEMI
Ma se le cose , al variar de' tempi
Quaggiù soggette , son pur tali e tante ,
Quali e quante licn poi l' eterne in cielo?
E se quel che si vede, agli occhi nostri
Piace cotanto, or quai saranno alfine
Gl’invisibili oggetti all'alta mente?
Se del Ciel la grandezza in guisa avanza
Ogni misura dell' umano ingegno,
Chi la Natura senza (ine eterna
Fia che comprenda ? E s’egli e pur si bello,
0 pur si grande e si veloce ’l Sole,
E si ordinato ne' suo’ obliqui giri ,
Si moderato al mondo, e si lucente,
In guisa d'occhio, che l' adorni c illustri ;
Se mai della serena e chiara vista
Notici lascia, partendo, appien contenti;
Bench’egli pur soggiaccia a tarda morte,
Quando che sia : deli ! qual liellezzaeterna
Nel gran Sol di giustizia altri contempla ?
Se sol non veder questo al cieco è pena,
Qual sari pena al peccatore ingrato
L’ esser privo d'eterna e vera luce?
Era gii fatto innanzi '1 primo Cielo,
E la terra e la luce ancor creata;
E gii distinta era la notte e'1 giorno :
Ed era fatto ancor quel Ciclo appresso,
Che dalla sua fermezza ’l nome prende,
Confine estremo del sensibil mondo :
£ l’ arida pur dianzi occulta e immersa
Tutta nell’ acqua, era scoperta in parte
Dall’ondeggiante umore : e’nsieinc accolte
Eran gli l’ acque nel lor proprio loco.
Pieno la terra ornai de' propri parti
Aveva ’l grembo , e di fecondi germi ,
Tutto d' erbe e di fior dipinto e sparso :
E frondeggiava dell' ombrose piante
La verde chioma ; e pur ancor non era
Il Sole, over la Luna : e quel nomato
Non era della luce eterno padre ,
E padre delle cose , e quasi fabbro ;
Di quelle, dico , che produce e nutre
La madre terra ; e'I vano e falso errore
De' mortali, che'l senso inganna, c guida,
Quasi fallace e lusinghiera scorta.
Non l'avea fatto Dio. Ma l’oprc illustri
Arca fornito Dio del terzo giorno;
E dava ornai lieto principio ai quarto.
E, slen fatti (diss’egii) 1 duo gran lumi
Del fermo cielo : e questo e quel risplenda
Sopra la terra : e sia diviso e scevro
In disparte del giorno, ed In disparte
La meli della fredda oscura notte.
Cosi dlss'egli; e fece I duo gran lumi.
SACRI.
Ma chi disse? e chi fece? Or non Intendi
Della doppia persona il grande, occulto,
Incflabll mistero, e’nfusa e sparsa
La sacra istoria di saper profondo
Rivelato per grazia a’ vecchi Padri,
Che nell’ antiche carte ancor s'adombra,
Quasi per nube , e ne si vela in parte ?
E non conosci ancor dell'alta voce
Quanto giovi a' mortali 11 santo impero?
Risplendan , disse Iddio , sovra la terra ,
Per illustrarla , e l' agghiacciate membra
Riscaldar col sitai temprato foco.
Cosi diss' egli ; ed ab eterno impose
Che’l Sole 1 raggi suoi spargesse al giusto,
Ed all'ingiusto; eh’ all' ingiusto ancora
Volle giovar, chi di giovar c'insegna :
E negl'iniqui ancora ei sparge e versa
I suo' beni e le grazie in ciel cosparte,
E trasfuse dal Sole e dalle Stelle.
Nè fu nelle parole , o pur nell' opre
Discorde a sè medesimi ’l Padre eterno,
Pcrch’ ei primier creò la bella luce ,
E poscia 'I Sol. Fu senza 'I Sole adunque
La chiara luce? e senza Sole, o Stelle?
Fu certo prima. E come’l corpo all'alma
E come serve 'I carro al proprio auriga ;
Cosi alla prima luce I duo gran lumi
Fur dati, ond'clla risplendendo apparse,
Perdi' ella da sè stessa agli altri ingegni
Prima risplende, ed alle pure menti,
Inlelllgibil parto, e quasi eterno;
Poi sovra '1 doppio carro a' vaghi sensi
Nel di riluce c nell’ ombrosa notte.
Nè mai di carreggiare è stanca, o tarda
Per le strade lassuso oblique e torte.
Fu dunque pura luce innanzi al giorno.
Che poi di raggi adorno il Sol distinse ;
Anzi Dio stesso separar la luce
Dalle tenebre volle, c dipartila:
Ma comandò che separasse il Sole
II chiaro giorno dalla notte oscura;
Perch’alia nobil mente egli distingue
I puri oggetti , e poscia al Sol comanda
Che gli mostri divisi a’ sensi erranti ;
Ed alla bianca Luna ancor ministra [la
Del suo splendore, e vuol che questo c quel-
li tempo e l’ore in spazio egual comparta.
Osiamo adunque senza inganno c tema,
Almen coll'animoso alto pensiero
A separar dalla sua luce 11 Sole,
Come nel.foco si divide e parte [stra.
Quel di lui che n’infiamma, eque] eh'illu-
E già'l divise con mirabil vista
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m
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Iddio , quand' egli al rubo il foco impose ,
Lucido assai , dal suo splendor disgiunta
L'altra propria virtù, quella ch'incende.
Clic rimase oziosa , allora occulta :
Tanto è’I poter della divina voce
Che può del foco risecar la damma!
Anzi quando avverrà eli’ i prenij eterni ,
E le pene eomparta ; allor del foco
Eia la natura alibi divisa e scevra ,
E Ila la luce destinata al giusto.
Perdi’ ci ne goda ; e l' altra ardente forza
A punir l’ empio giù nei cieco inferno.
E’I variar dell’ incostante Luna
II medesimo ancora insegna e mostra
Colle cangiate sue diverse forme.
Perche mentr’ella scema, e’I lume perde,
Tutto già non consunta ’l bianco volto-.
Ma de' suo’ rai la candida corona
Con varia immago ora ripiglia, or lascia :
t Inde conoscer puoi eli’ assai diverso
li suo corpo èdaquello,ond’ei s’ illustra.
Il somigliante ancor nel Sole avviene;
Ma’l Sole il lume suo, ch'èprcso altronde,
Poich’una volta ei se n’ adorna e veste,
Mai non depone; ella del lume altrui
S'ammanta spesso, c spesso anco si spoglia
Con umil vista, c la sua vece alterna.
In questa guisa a duo’ gran lumi impose
Clic da lor fosse dipartito ’l mezzo
Del chiaro giorno , e della nottc’l mezzo
Perchè ’nsleme non sian confusi e misti,
Nè compagnia, ned amicizia al mondo
Era la luce e le tenebre rimanga.
Ma qual nel giorno luminoso è l'ombra,
Tal nello spazio dell’oscura notte
La tenebrosa ed orrida natura
L’ombra de’ corpi cede , opachi e densi ,
Allo splendor de’ più lucenti opposti.
E ’n sul mattino all’ Occidente è stesa,
E verso l’Oriente a sera inchina :
E ’1 Mezzogiorno si raccorcia e stringe ,
E contra l’Orse si dispiega appena.
La Notte, volta dal contrario lato,
Ode a’ lucidi raggi , e ’n sua natura
Altro non è che l’ ombra oscura , algente
Ch'esce dal grembo della terra opaca :
E sempre avanti allo splendor diurno
Fuggc alla parte opposta, e si dilegua.
In questa guisa impose ’l Padre eterno
Le misure del giorno al chiaro Sole :
E fe’ la bianca Luna , allorché tutto [pie,
D' argento ’l cerchio, e di splendor riem-
Prlnclpe della fredda oscura notte.
Eran quasi per dritto allor conversi
L’un con trai' altro! duo’ be’ lumi in cielo:
Perchè, nascendo'l Sole, imbruna e perde
Dell'alma Luna la rotonda immago.
E se precipitando 11 Sol tramonta ,
Elia all' incontra in Oriente appare
Sorgendo, e fuor dimostra ornalo ’l viso:
Ma in altre sue ligure , In altre forme.
Colta notte spirar non suole insieme;
Benché nel suo perfetto intero stato,
Quand'ha colmo di luce ’l vago giro,
Incoronata de’ suo' bianchi raggi ,
Regina è della notte, c tutte avanza
Di luce e di beltà l'aurate stelle.
Ed in vece del Sol la terra illustra.
Ma ’1 Sole è re del luminoso giorno,
E come sposo, dal celeste albergo
Esce lutto tli raggi e d'oro adorno,
Dì più lucente e di maggior corona
Circondata la chiara accesa fronte.
E ’n guisa di gigante allo c superbo
Trascorre'! ciclo, e'1 signoreggia intorno:
Tatti’ egli è grande , e di tal luce ardente '.
E grande ancor la vie men calda Luna :
Ma come è grande? oper rispetto altrui
(Se pur riguardi alle minori Stelle),
Od in sé stessa pur descritta e chiusa
Dalle sue linee entro T suo puro cerchio ?
Siccom’ è grande ’l Marc e grande '1 Cielo ;
O perchè basti ’l suo splendor sereno
Ad illustrar gli smisurati campi
Delia Terra, del Mar, del Clel profondo?
Però d' ogni sua parte cgual si mostra ,
Quand’è rilonda, agli Etiopi, agl’ Indi,
A’ freddi Sciti, agl’iperborei ignoti,
0 sia ’n oscuro Occaso , o ’n lucido Orto,
0 del elei tenga più sublime parte.
Nè giunge, o toglie alla grandezza alquanto
Dell’ ampia terra il largo seno , o ’l dorso ,
Onde minor per lontananza appaia.
Maggior perchè s’ apprcsse , o s’ avvicini ,
Come dell’ altre cose in terra Incontra.
Nè giammai dal gran Sole è più remoto,
Nè più vicino alcun ; ma In spazio eguale
Son gli abitanti In ogni clima estremo.
Pensa fra te se mai da eccelso giogo
D'orrido monte rimirando a basso,
l’mil campo vedesti , od ima valle ,
Quanto i gioghi de’ buoi sembrano In vista ,
0 quanto grandi gli aratori Istessi :
Di minute formiche ebber sembianza
Seni' alcun dubbio, entr* a misura angusta
Cosi accordarsi, c rannicchiar le membra:
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130 POEMI
Cotanto si consuma e si disperde
Della vista mortale il senso incerto
In mezzo a così grande e lungo spazio,
Ch’ appena giunge a’ que’ remoti oggetti ;
Ma se da vetta, o da sublime scoglio [tenti.
Volgesti *1 guardo al Mar con gli ocelli in*
Quanto risole in lui diffuse e sparse
Ti si mostrano in vista ; o negra nave
Di care merci e preziose onusta ,
Spiegando in alto le minute vele
In guisa d’ale, dalla salda antenna
Sovra ’l ceruleo suo spumante dorso;
Certo minor di candida colomba
S’ offerse agli occhi la minuta irnmago :
Tanto nel vano , e negli spazj immensi
L’ umana vista indebolisce , e perde !
Già gli alti monti alle profonde valli
Credesti eguali , c di rotonda forma , [ca,
Che non apparve ’n mezzo antro , ospelon-
Ncdaltra sua inegual scoscesa parte;
Ma tutto si nasconde ’l cavo e ’I voto
Per lontananza, c con aperto inganno
Ogni disuguaglianza in lei s’adegua.
E rotonde le torri ancor diresti ,
Bene li’ abbiau quattro lati c quattro facce ,
E sien rivolle all’ Aquilone e all’Austro,
Ed all’ altre del mondo avverse parti.
Però senz’ alcun dubbio esperto credi
Che’n lungo spazio ogni lontana immago
Si confonde: e s’inganna ’l senso errante
In molte guise. Adunque è grande il Sole,
Ma quel di sua grandezza è certo segno,
Clic perchè sicu Stelle infinite in cielo, ,
Da ciascuna di loro il lume sparso,
E n un raccolto, a discacciar non basta
La mestizia e l’ orror di oscura notte ;
Ma solo il Sol eh* all’orizzonte ascende.
Anzi mentr* eis’ aspetta, e pria eh’ ei sorga
Sopra la terra , e sparga i primi raggi ,
Le tenebre dissolve , c l’ auree Stelle
Supera di splendore : e l’aria densa ,
E dal freddo notturno in gel ristretta r
Diffonde e sparge, e ’l liquido sereno
Con vieppiù dolci tempre illustra e scalda;
Onde l’auro odorate innanzi al giorno
Spirano mormorando : e piove intanto
Il rugiadoso e cristallino umore.
E quinci apprendi del Maestro eterno
L’arte divina, che lontano ’l Sole
Dispose, c ’n guisa moderò l’ardore.
Clic per soverchio non infiamma ’1 suolo.
Nè per difetto ancor ragghiaccia, o lascia
Lauguido e mesto , ed infecondo al parto.
SACRI.
E della bianca Luna intendi , o pensa
Cose conformi , o somiglianti a queste.
Perchè (siccome dissi ) il corpo è grande ,
E ( se ne traggi U Sol ) lucente e bello ,
Vieppiù d’ ogn’ altro che nel ciel ri splenda:
Ma non sempre si vede , e non riluce
In ogni tempo con eguai sembianza ,
Ma riempie talora ’1 voto cerchio;
Talvolta scema si dimostra in parte.
Anzi mentr’ ella cresce, oscura e fosca
Divien da un lato : e nel calare imbruna
Dall'altro: e dell’ eterno e saggio Fabbro
Dir non possiamo ’l magistero e l’arte;
Perchè dar volle in cielo un chiaro esem-
Col variar dell’incostante Luna, [pio.
All' incostanza umana, al modo incerto
Di nostra vita instabile c vagante,
Ch’ un {stesso tenor giammai non serba ,
Nè ’n fermo stato si mantiene c dura.
Ma cresce prima, e sè medesma avanza ,
Sin che di sua grandezza aggiunga il som-
Dechina poscia, e si consuma e cade, [rao:
Sin eh’ alfin pur s’ estingue e torna in nulla.
Dunque nè di sua gloria in vista altero
Alcun scn vada , o mostri orgoglio e fasto
Per gran tesoro accolto, o ’n sua possanza
Troppo confidi, olirà ragion superbo:
Nè per corona antica ed aureo scettro
Altrui rassembri imperioso e grave :
Ma di sè la caduca e fragil parte
Disprezzi , e solo estimi i beni interni ,
E l’ anima immortal , cui nulla estingue.
E delle cose umane i giri incerti
Pensi e ripensi , e '1 suo pensiero affisso
Tenga all’ eterne pur, come a suo centro.
E se la Luna impallidita e scema
Col perturbato aspetto unqua l’ am istà ;
Più dell'anima sua si dolga e gema,
Gli’ acquista la virtù , tesoro e dono
Prezioso del Cielo , onde s' avanza ;
E poi la perde : e ’l primo onore antico ,
E la sua diguitate in sè non serba.
E veramente a’ vaghi e lunghi errori
Dcll’inslahil pianeta uom folle e stolto
Vaneggiando somiglia , e ’n vari modi ,
Come la Luna , si trasmuta e cangia.
Alcun vi fu che della mente umana [me,
Ch’ ha due potenze o pur due parli insie-
E I* una a far , l’altra a patire acconcia ;
Quella ch’illustra, rassomiglia al Sole,
Quella eh’ illuminala indi rischiara
Il tenebroso e fosco, ei fa sembiante
Alla Luna, eh’ altronde ’l lume prende ,
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LE SETTE GIORNATE
E dell* altrui splendor lucente appare.
Perchè la parte In noi soggetta a morte
( Se 1* intelletto ha parte a morte esposta)
Pur col lume dell'altra alluma cd orna
In sè mille leggiadre e chiare forme.
Ma quella eh' I suo’ raggi alimi comparte,
Temer non può di morte ’l duro fato;
Talché Dio la credea nel seco! prisco
Filosofando l’ingegnosa turba.
Altri Dio no, ma creatura e parto
Da Dio prodotto , a cui di Sole il nome
Per P alta luce sua concede e dona.
Ma ’n disparte si stia d'acuto ingegno
L'animosa ragione, e ceda intanto
A quel che più conferma antica fede ,
Ed animosa pur ; chè meglio 'I vero
D’ ogni primo intelletto, in Dio conosce.
Or dimostriam , come V errante Luna
Giovi col variare, e parte accresca
Le cose che la terra in son produce,
O nutre ’l mar nel salso umido grembo
Perocché ’l crescer suo riempie e colma
D’ umore i corpi, e ’i suo scemar gli scema,
E quasi vota ; in si soavi tempre
L’ umido e ’l caldo ella congiunge e mesce.
Perchè fredda non è la bianca Luna ,
Coni’ altri estima : e solo algente appare
A paragon del Sole , onde si scalda.
Però , quanti’ ella col suo cerchio intero j
Mostra dall’alto cielo il pieno aspetto.
Emula vaga del fratello ardente ,
E (se dir lece) quasi un Sol notturno;
Allor le notti tepide e serene
Son più dcU'altrc,in cui d’adunca falce
Mostra l’ immago, o con argentee corna
S’ incurva avanti al Sole , o pur da tergo.
Allor vieppiù germoglia ’l verde tronco
Con nuove frondi e rami, c più s’ impingua
1/ umida sua midolla entro la scorza :
E più ripiena è in mar la dura conca
Di prezioso cibo ; e pure avviene
Ch’altri dormendo sotto ’l cielo aperto,
Lo testa grave del suo umor riempie.
Lascio or da parte , come l’ aria e i venti
Ella commova , o ’l mar perturbi e queti.
E tanto basti aver narrato ornai
Di sua grandezza e de’ suo' vari effetti ,
Ond’clla giova. E non dee senso umano
Esser giammai di misurarla ardito;
Cile quivi *1 suo giudizio è ’ncerto e falso.
Cotanto è grande, e'n cotal guisa illustra
Gli abitatori c le città disgiunte
Dal vastissimo mar , dall’ ampia terra :
DEL MONDO CREATO. 13!
0 slan in parte ove dechina *1 Sole ,
0 pur ne’ regni della bella Aurora :
0 sotto 1* Orse, e nella Zona algente :
0 pur nella fervente arida fascia ,
Che per mezzo 'I tcrren divide e cinge;
Gl’ illustra, dico, e quasi ai modo istesso,
Noi, altri con obliqui e torti raggi.
Altri con dritti , c questa è vera prova
Ch' ella sia grande, e ’n van ripa gna *1 senso
0 la falsa ragion , che ’l falso afferma :
K non v* ha loco ingegno di sofista.
Ma quel che fece a noi si caro dono
Della mente immortai, c' insegna ancora
A conoscere ’l vero. E quella eterna
Sua sapienza, ond’ egli fece ’l mondo ,
Grande in picciole cose ancor dimostra :
Maggior nelle maggiori a noi la scopre,
Siccom'è ’l Sole c la ritonda Luna, [gli,
benché 'se quello, o questa in parte aggua-
0 paragoni al suo Fattor sovrano)
Verso di lui ch’ogni grandezza accoglie
In sé medesmo, c come cosa angusta
1/ universo nel pugno astriuge c serra?
E quello e questa avran sembianza e forma
D’avido pulce, o di formica industre.
Fece nel tempo istesso ancor le Stelle,
Quei che prima avea fatto ’l fermo Cielo
Nel di secondo, c non appieno adorno;
bene h’ altri Stelle di nomar presuma
1 sublimi non pur celesti lumi,
E quasi eterni, c nei suo giro affissi ;
Ma le Comete e le figure ardenti ,
Che ’n varie forme fiammeggiar nell’alta
Aria veggiamo , o nel sublime foco
Che sotto ’l giro della Luna accollo
Con lei s’aggira di perpetuo moto.
Ma queste colassù mai certo loco
Aver non ponilo , e pur grandezza c forma,
Od ordine costante : e ’n breve tempo
Sparir dagli occhi, e dileguarsi in tutto
Soglion per l'aria dissipate e sparse;
Siccome quelle che dal sen fumante
Han della terra ’l nutrimento e l’esca.
E se la madre lor dinega ’l cibo
Arido, che diviene in breve adusto ,
Viver non possa, onde tra spazj angusti
La vita loro è terminata e chiusa.
Talornonponnoun giorno, anco talvolta
Nel punto che s’ infiamma ella s’ estingue.
Onde quell’ animai che ’n riva nasce
Deiripani sonante, e vede appena
Un solo e breve Sol nato coll’Alba,
Giungendo innanzi sera al fato estremo
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132 POEMI
Quell’ animai, dirli’ io, di’ avara c scarsa
Ebbe più d’altro la Natura c’I Cielo,
Con sorte sua migliore in terra nasce ,
Clic nel elei queste varie accese forme.
E Stelle pure altri le appella e noma :
Altri Stelle cadenti ; onde sì spesso
Agogna rimirando il volgo errante ,
Se morir ponno, o se cader le Stelle,
Ch* esser dovrian per digli! tate eterne,
0 quasi eterne, e trapassar vivendo
De’ secoli volanti ’l lungo corso.
Marosi parla, chi ragiona a’ sensi
Del volgo infermo, e ’1 suo parlar gli adatta.
Ma tra queste figure in cielo accese ,
E quasi impresse , c di sua nota aduste ,
Ila» loco alcune sì costante e certo ,
E così lunga e così stabil vita.
Ch’altri le stima del sublime cielo
Parte non pur, ma bella e cara parte.
Siccom’ è quella via lucente e bianca.
Che del latte al candore i lumi aggiuuge
Di tante fisse Stelle Ivi cosparse ;
La qual è via eh’ adduce all’ alta reggia
De’ favolosi Divi : e strada ancora,
Ond’all’ animo umano è aperto ’l varco ,
Per cui discenda nel corporeo albergo,
E poi ritorni rivolando in alto
Alla sua pura c sua fatale Stella :
Così credcano ; e questa è fama antica.
Ma la Cometa di possente aspetto,
Ch* 1 purpurei tiranni c 1 regi invitti
Ancidc fiammeggiando e muta i regni ,
Breve spazio ha di vita a tanta possa ,
E di due anni ’l corso appena adempie.
Così nel tempo dell’ infanzia umana
Invecchia e muore la terribil luce,
Che dà spavento a’ miseri mortali, [ero
Questa giammai tra ’l Capricorno e’ICan-
Apparir non ci suol , o pur di rado
Ivi si può mostrare : c pria eh’ avvampi ,
Con sua gran forza la dissolve ’l Sole.
Ma oltra quell’ obliqua c torta strada ,
Per cui fanno i pianeti eterno giro, [l’ Orse ;
S’ infiamma e splende tra quel cerchio e
Indi , spiegando la sua ardente chioma,
0 pur la barba ; di sanguigna fiamma
Accesa e sparsa , c paventosa in vista,
Con annunzio di morte altrui minaccia.
E questa ancor, benché dannosa e fera ,
Sorti di Stella *1 glorioso nome,
Che non conviene a sì maligno aspetto :
Nè d'innocente luce unqua si vanta;
Bench’ altri dica eh’ a Nerone Augusto
SACRI.
Innocente apparisse; e ’n ciò lusinga ,
Perdi* ella nacque, col lasciarlo in vita ,
Al mondo tutto : c fu noccnte ed empia
Più nel salvar sì dispietato mostro ,
Clic in uccider altrui sembrasse unquanco.
Ma se di queste fu la pura e bella
E santa luce , fida e cara scorta
De’ peregrini regi d’ Oriente;
Salto colui che di sua mano eterna
Formella in prima e le diè luce e moto,
Che parer volontario allor polca ,
Come s’ella intelletto avesse ed alma;
Ma questa fu della divina destra
Opra novella c fatta a sì grand’ uopo.
L’ altre create già nel quarto giorno
Furo», come si stima, e mente c vita
Ebbero dal celeste eterno Fabbro.
Vita non già, che si nutrisca c prenda
Forza dal cibo , c per digiun languisca.
Cercando col suo corso ’l vitto e l’ esca
Dalla terra e dal mar, che sempre esala,
Come alcuni affermar del secol prisco,
Ch'cbberdi sapienza ingiusta fama;
Ma lieta e gloriosa e pura vita ,
Clie’n Dio sempre mirando, in lui s’eterna,
E di sapere e del suo amor si pasce.
Queste divine e gloriose menti
Furon da Dio create il di primiero
Innanzi al Sole, c i bei stellanti giri :
E poi da lui divise il giorno quarto
Ne’ propri luoghi ; come accorto duce
I suo’ fidi guerrier distingua e squadra ;
E ’n guardia lor dispone, e lor confida
Città forte ed alpestra e torre eccelsa.
Parte fu mossa a raggirar nel corso.
Non faticoso c non costretto a forza,
Quelle sublimi sue lucenti rote:
E parte ancor, fin dal principio eterno,
Alia difesa delle genti umane
Fur destinate da quel Re supremo.
E poi dovean , quai messaggier volanti.
Far manifesto il suo voler in terra, [gli! :
Portando e riportando, or grazie, or pre-
Grazie divine, ognor veloci e pronte ,
E preghi umani , spesso, c lenti c tardi.
Altre, mai sempre al suo servizio intente.
Stanno fide ministre appresso e ’ntorno,
E sembran quasi innumerabil prole.
Nè da quel dì che prima gli occhi aperse
II padre Adamo alla serena luce ,
Tanti del suo corrotto e ’mpuro seme
De’ faticosi e miseri mortali
Fur già prodotti a travagliar nel mondo
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quanti di quei divini alati spirti
Fur destinati a quell' eterna pace ,
A quel piacer che non ha One , o tempo.
Che gli fa sempre neghittosi e lieti
D’ un ozio eterno, e senza officio ed opre ,
E senza cura di terreni atTanni,
Eche gli astringe a quel gravoso impaccio,
Di girar senza posa i cieli a forza ,
Quasi animali alla marmorea rota
Legati , in guisa d’isslon penoso.
Ch’avvinto giace, e sempre è mosso in giro,
Erra egualmente, e'n suamenzogna adom-
bra.
E'I gran maestro di colorchesanno: [do,
Quel che 'il tante sue scuole insegna '1 nion-
Seguendo ’J moto c 'I senso, infide scorte,
Errò egli ancor. Ma con men grave errore ,
Quand’ei quelle divine eterne menti.
Filosofando annoverar presume ,
E ’n numero si breve accoglie c stringe
1 cittadini del celeste regno;
Perocché quanti sono I vari moti ,
Onde con vari modi è mosso ’l cielo.
Tanti motori all’ alte spere assegna.
Ed olirà questi non adora, e placa,
O non conosce nel divino impero
Altri offici, altri Numi ed altri Dei :
E senza proprio ministero ed opra
Non estimò che ’n oziosa vita
Vivesscr pigre c neghittose indarno.
Dunque sol tante , al suo giudlcio errante,
Esser polca» , quante a’ celesti giri
Potesser poi bastar; gli altri soverchi
Tutti estimava, ed adorati invano,
Fìnti di Grecia Numi, o pur d’ Egitto.
E non s’avvide '1 pellegrino ingegno
Che nella gloriosa eterna reggia
Altri esser denno ancor gli offici e l’ opre,
Che quella sol di raggirare attorno
I,' eterne spere nel contrario moto.
E conoscer non volle, o pur s'infinse,
Che piu alto e più degno e nobil fine
Si conveniva agl' intelletti eterni,
Di quello, senza cui soverchie estima
l-e nature divine, e quasi invano.
Chè ’l muover sempre le stellanti rote,
E fin corporeo, e quasi a’ corpi affisso,
E ne' corpi occupato, e basso officio.
Verso di quel de' più sublimi spirti,
Che stanno appresso e ’ntorno al Re super-
Altro fin dunque piùsublime ed alto, [no.
Altro più degno ed onorato oggetto ,
Altro più santo ministero, e sacro.
131
Numero via maggior ricerca c vuole
Delle menti immortali, e gii non debbe
Il Signor de’ signori, e ’l Re de' regi
In solitaria reggia e ’n volo regno
Regnar quasi solingo, c ’l basso mondo
Empier d' abitatori, onde s'accresca
Dell' imperio terrcn l’orgoglio e ’l fasto.
Nè dovea dare a’ gloriosi Augusti ,
Ed agli altri quaggiù corona e scettro.
Tante genti, talli' arme e tante squadre.
Ed eserciti tanti , c ’n tante guise
Della terra e del mar raccolti e sparsi :
Nè riserbar por sè schiera, o falange,
Rench’egli basti solo. Ah ! troppoindegno
Era della sua gloria , e troppo anguste
Son le misure , alla materia affisse:
Troppo 1 numeri scarsi , onde si conta
Tutto ciò che la terra e ’l mar profondo
Nel grembo accoglie, o ’l ciclo, esposto
a' sensi.
Altro numcroèancor, che non s'accresce
Per secare ’l continuo, e tutti avanza
I numeri quaggiuso. Or chi presume
D’annoverar le pure eterne menti?
Deh! non vedete or quanti raggi intorno
Sparga questo corporeo instabil Sole,
Lo qual del sommo Sole è quasi un raggio ?
Or quanti sparger dee raggi lucenti ,
Quante fiamme lassuso, e quanti ardori
Quel primo della luce eterno fonte?
Ma noi cape '! pcnsicr, nè lingua esprime,
E quel che sovra ’l del si conta c segna,
Innumerabil sembra a' sensi umani.
E certo alla ragion , giudizio eterno
Mosse ’l sommo Signor, che fece ’l mondo,
A far più numerosi 1 più perfetti.
Perchè negl’ imperfetti ei non abbonda.
Quinci addivien che le feroci belve
Son poche e rare in solitaria selva , [te
0 ’n monte ermo e selvaggio : c d'altra par-
Pascono i campì i numerosi armenti,
E copiose ancor le gregge umili
Seguono del pastor la fida scorta.
Ma de' figli d' Adamo il seme sparso
Riempie Europa, e l’altre parli Ingombra
Della terra , eh’ è stretta e bassa mole
S’al Ciel la paragoni, ampio e sublime:
E ’l Ciel de’ propri abitatori illustra ,
Più che di Stelle assai , le parti eccelse.
E non contento de’ suo’ primi antichi ,
E quasi eterni abitator celesti ,
1 peregrini ancora in sè raccoglie ,
E nati in terra di terrestre limo.
134 POEMI
E l' alte sedi alla straniera turba
Lieto prepara; e l’accompagna e giunge
AH’ angeliche squadre, e quasi agguaglia;
Benché d’Adamo 1 mal concetti figli
Non siano adatto all’ampio ('deio esterni.
Perchè celeste è l’alta c bella origo
Dell’ alma umana, c lieta al Liei ritorna,
Siccome a vera patria, c patria antica.
Da questa della terra ombrosa chiostra,
Ov* ella visse peregrina errante.
E se l’ uom, cinto di corporee membra
Nacque d* Adam , che di fangosa terra
Fu generalo, ei pur di Dio rinacque
ingenerato poi d’acqua e di spirto ;
E , come crede de* paterni regni ,
Aspira alle celesti alte corone.
Ma dove mi trasporta innanzi al tempo
L’uraauo amor, che ’n noi sì dolce innesta
Nostra natura? Ora ’l mirabil corso
Seguiam del Cielo e delle Stelle erranti,
A cui , quasi motrici, il Padre eterno
Assegnò quelle eccelse e pure menti :
Non quasi forme, in sua materia immeuse,
Ma quasi auriga al suo veloce carro.
E quinci incominciar del Ciclo i moti ,
L’un dalla destra alla sinistra parte.
L’altro dalla sinistra in ver la destra.
E chiamo destra ’l lucido Oriente,
Onde si muove T primo Ciel rotando.
Che lutti gli altri seco affretta e traggo;
E dal proprio cammin quasi distoma.
Sinistra parte l’ Occidente appello.
Onde simuovongli altri, c ’l Sole istesso.
Che pur dall’ Oriente a noi si mostra
Coll’ altrui moto , e nello spazio integro
D’un giorno è ricond otto , ond’ ei si parte.
Perchè ’n un di, che ’n sè la luce e l’ombra
Contenga, compie ’l suo perfetto giro
La prima spera : c l’ altre in vario tempo
Col proprio molo fan contrario corso;
Qual minuta formica, o picciol verme,
Clic da rota corrente è tratto intorno ;
Ed egli intanto alla contraria parte
Da sè medesmo muove, assai più lento.
In trentanni sen va correndo a cerchio
Quel che rasscmbra a noi pigro Saturno,
Più veloce degli altri e più corrente :
Ed in due volte sci placido Giove;
Ed in due anni appresso il fiero Marte,
Che ’n questa guisa ei si conosce e noma
Dal volgo in terra : e ’n un solando ’l Sole :
E ’n poco men la graziosa Stella,
La qual lieta si leva innanzi all'alba.
SACRI.
E Lucifero ha nome; e poi n’appare.
Espcro detta, allorché ’l Sol tramonta,
E’o quasi pari spazio in sè ritorna
Quel già creduto messaggier volante.
In venti giorni poscia , e ’n sette appresso
Fa ’l suo viaggio la più tarda Luna,
Che più veloce sembra; e questo avviene
Perchè ’n giro minor si volge, e riede
Colà più tosto , onde si mosse in prima.
E questa fu quasi maestra antica
Di partir l’ anno , che ’n sci mesi e ’n sei
Divise a* suo’ Romani il vecchio Noma;
Perocché tante volte ’l Sol raggiunge ,
Tornando a quel principio onde partissi :
Ma prima in questa guisa i Greci ancora
L’avean partito, e i più vetusti Ebrei.
Romolo poi meno al celeste corso
Ch’ai guerreggiare intento, e quasi rozzo
Delle cose divine , in dieci parti
L’ avea diviso : c quest’ crror corresse
11 saggio re sabin, canuto ’l mento.
In questo modo i due pianeti illustri.
Da chi gli scorge nel perpetuo corso.
Furo ordinali col lor giro all’ anno.
Anno è il ritorno del corrente Sole,
Dal segno islesso nel medesmo segno
Onde si parte; anzi nel punto, affisso
Nel segno, quasi a termine costante;
Perchè tornando alla medesma stella
Onde partissi, dilungata alquanto
La troverebbe, e trasportala a cerchio
Dal primo ciel col suo veloce ratto:
Ma chi lo scorge a far la state e ’l verno ,
Questi l’ Italia e tutta Europa appella
Coi nome degli Dei bugiardi c falsi.
Ma pur Angeli sono, e pure menti.
Deli’ alta Provvidenza in ciel ministre;
Imi quai dispose per cammino obliquo
1 sette erranti, c ’n mezz’ agli altri ’) Sole ;
Porci»’ ei ci vari le stagioni e i tempi :
E ’n questa guisa sia cagione ai mondo
Ch’altri nasca, altri muoia, c vita in morte
Trasmuti, e morte in vita, in giro alterno.
Perchè mentre lontano il Sol dimora
In quel lato, onde spira ’l nubil Austro,
Di lunghissime notti il nostro adombra ;
E l’aria si raffredda e si perturba
D’ ogn’ intorno alla terra, e ’n folta pioggia
Condensati vapori, e ’n larghe falde
Caggion di neve , che poi stretta in gelo
Ricopre ’l dorso degli alpestri monti ;
E frenando a’ gran fiumi ’l ratto corso ,
Tardi gii rende, e quasi in saldo vetro
LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Converte le paludi c i pigri «ugni.
Ma quand’ ei dal Meriggio a noi ritorna,
In mezzo quasi del cammin rotondo,
Parte la notte e 'I giorno in spazio eguale,
E l’aria scalda con soavi tempre.
Allor Zefiro spira : allorsen riede
La Primavera verdeggiante e Hcta,
Coll’ erbe e I fiori , sua dolce famiglia:
E gravida la terra ’1 sen fecondo.
Che pur dianzi chiudra la neve e 'I ghiac-
Apre soavemente a’ nuovi parti. ciò.
Germogliai! le fiorite ombrose piante ;
Nascono gli animali in terra e ’n acqua :
E si conserva la perpetua prole,
Insinche’lSol, quanto più può, s’apnressa
A’ freddi regni d’Aquiion nevoso.
Dov’ ei nel Cancro si ritiene, e ferma
Quasi ’lsuocorso.efapiUlungo’l giorno:
E con più tardi passi ornai per drillo
Sul capo nostro quasi egli si spazia ,
E l’aria d’ ognintorno a noi riscalda :
Arida fa la terra , e i semi sparsi ,
E degii alberi i frutti ancor matura.
In questo mese è fiammeggiante ’l Sole
Olirà misura, e men obliqui raggi
Spiega più d’ alto ad illustrar la terra.
Son lunghissimi allora i giorni estivi,
E brevissime l’ombre; ed all’incontro
Ne' brevissimi giorni H corpo opaco
Lunghissime fa f ombre opposte al Sole.
E quest' avticnea noi, ch'abbiamo albergo
Infra quel cerchio, oode ritorna Apollo,
E l'altro che dall* Orse ’i nome prende ,
Poste non lunge a’ gelidi Trioni.
E noi mai sempre solo al destro Iato
L’ ombre mandiamo inverso Borea e il
Carro:
Ed altri sono in più fervente clima,
1 quai dell'anno uno e due giorni interi
Ombra non fanno, allorché gira T Soie
Nel cerchio del Meriggio , e d’ atta parte
Con dritti raggi gli rischiara e scalda.
Ed allora addiviene 'n quelle parli
Che per angusta bocca I cavi pozzi
Illuminali sleno Invino al fondo ;
Come ’n Siene, e ’n Berenice ancora,
E più lontan, nell’onorata reggia,
Ch' hadue rami nel Nilo, e quinci e quindi,
E dalia suora dì Cambise estima
Ebbe gii ’l nome, e la famosa tomba.
Ed oitra l’odorata aprica terra
Degli Arabi felici, ha strana gente,
Cbesoargel'ombra 'e ne sortisce ’l nome)
D’ entrambi i lati, incontra’I Boreael’An-
Equest’avvien, mentre vicino ’l Sole [stro
A’ freddi regni d’Aquiion trapassa ,
E gii lieto n’ accoglie ’l nuovo Autunno ,
Ricco de’ pomi e del suo vin spumante.
Con verde ancora e pampinosa spoglia:
Allora tempra i rai del Soie estivo ,
Scema gli ardori, e l’ombra amico acere-
to le notti co’giorni in libra agguaglia; rsce;
Ed innocente ne conduce al Verno :
In cui di nuovo ’l Sol da noi si parte ,
E s’avvicina agii Arabi ed agl’ indi.
Questi sono del Sole il moto e ’l corso.
Queste dei tempo ie vicende e i giri ,
Per cui qui si governa umana vita.
Ma degna ancor di meraviglia è l’arte
Del Fabbro eterno, e la sublime ed alla
Sua provvidenza, eh’ alle strade oblique
De’ sette erranti il termine prescrisse,
E vieppiù angusta via ristrìnse al Sole
Perocché soli il Sol giammai non varia
I.a torta linea , che divide e fende
Il cerchi» delia vita in parti eguali.
Gli altri escon fuor, ol’una, o l’ai ira parte,
Qual più , qual meno : e la feconda Luna
Vagar per tutto ’l cerchio ardita suole.
Esce Venere fuor del cerchio istesso.
Più della Luna audace e più feconda.
E quinci avvlen che ne’ deserti incult]
Sia 1’ Affrica arenosa e l’India adusta,
Di si vari animai nodrice e madre.
Né qui hiasmar la Provvidenza eterna ,
Ch’ali’ ordine del mondo, ai sommo, al col-
Di tutte l’ altre cose in lui prodotte, [mo
Giungilo le dispietate e strane belve
Merav Iella e decoro , e i fieri mostri.
Or mentre ’l Sol , per l’alta via rotando.
Giammai non esce dal camnùn prescritto!
Mostra con questo chiaro, illustre esempio
Al Monarca dei mondo 'I calle angusto.
Da virtute e da legge a Itti prefisso.
E s'egii ha ’ncontra dall’ opposta parte
La tonda Luna, eh’ al superbo Drago
Preme la lesta, o pur la coda ingombra,
Le nega i dolci raggi e ’l chiaro lume,
E ’n merzo sì frappon l’ arida terra r
Perchè la l.una impallidita adombrai
E se la vaga Luna a lui s’ aggiunge
(Il che due volte ne’ Gemelli avviene)1
Il Sole in parte a noi s’ oscura e vela.
E quinci avvisa , che se imbruna e perde
Per difetto lassù celeste luce ;
Non è luce mortai nel basso mondo ,
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POEMI SACRI.
136
Non splendor dì fortuna, onde s’abbagli
L’inferma vista dell’ errante volgo,
La qual talvolta non si turbi e manchi.
K solleva ’l pensiero all’ alta e prima
Santa luce divina , c luce eterna ,
Che lassù non conosce Occaso , od Orto ,
Nè difetto giammai , nè scema, o langue:
Ma già dì nostra umanità vestita
Fece seco ecclissar turbato ’l Sole,
Olirà suo slil : con meraviglia c scorno
Della natura lagrimosa e mesta :
Nè la cagìon conobbe umano ingegno.
Ma come appressi e s’ allontani ’l Sole ,
Perchè da sera l’ incostante Luna [ da :
Nasca sempre, c’n sull’alba ellas’ascon-
Pcrchè Saturno, (dove e ’1 fiero Marte
Serbili ordin contrario , innanzi al giorno
Tutti nascendo, e poi caggendo a sera :
Kd altri alleili si diversi e tanti,
di' appaion colassù di spera in spera ;
Varie fur le cagioni addotte in prova
Da varie sette, in contemplar discordi.
Altri, osservando 1 duo’ contrari moti
Ne’ cieli , e dal primlcr conversi e ratti
I meri sublimi incontra ’l proprio corso ,
Disscr che d’ognì cielo il proprio centro
•'.entro è del mondo, e ’ntorno a lui si volge
Pieno e perfetto T lor ritondo giro.
Nè questi sovra agli stellanti chiostri
llan locato altro corpo ed altro cielo:
Ma poser sott'a lor que' sette erranti,
Clic fan si varia l’ armonia superna ,
E rammirabil sua celeste lira.
Molle dando a ciascun rotanti spere ;
Come rote diverse , o molli carri
Si danno ad un signor per vari effetti,
De' quali il porta alcuno, altri il riporta
Per contrario sentiero , onde partissi ;
E di globi volgenti e rivolgenti, [da.
Qual più qual meno, il lor giudizio abbon-
ila tre delle portanti e vaghe spere
Concede prima al Sole il vecchio Eudosso :
Tre similmente all'incostante Luna :
Quattro agli altri pianeti. E di que’ girl,
Che riportano indietro, un meno assegna
FuorchcallaLuna, acuì nel loco estremo
Uopo non è chi la riporti , o torni.
Ma due poscia Calippo al Sol ne aggiunse
Delle portanti : e due portanti ancora
Giunse al servigio del notturno lume ;
Sicchè'n tutto cinquanta , olirà le cinque ,
Fur numerate dagli antichi ingegni.
Tanti carri di stelle , e d’ or cosparsi ,
Tante fervide rote e tanti ordigni,
Tanti e si vari moti , e unti girl
Servono alla suprema eterna mole,
Che’usè medesma si raggira c volge.
E'I gran maestro di color che sanno.
Quel che’n mille sue scole Insegna ’lmon-
Segul costoro, allorché ’n allo intese, [do,
Forse con doppio error, che I corpi accreb-
Molto e molto scemò le pure menti, [bc
Ma la novella età vieppiù conturba
L’ ordì ne antico, e spere aggiunge a spere,
E moti a moti ; anzi ’l tremante Cielo
Primo ci finge, e quasi infermo e stanco
Mentre eh' egli s'appressa , o fa lontano.
E ’n questa guisa baldanzosa ardisce
Vincer d’arte e d’ ingegno T secol prisco.
Volgendo pure , e rivolgendo intorno
Ai proprio centro, che del mondo è centro,
I vari Cieli , a lor giudicio eterni.
Altri per altra via seguirò Ipparco,
E Tolomeo, eh' alle stellanti spere
Faquasi oltraggio, e'nlordivisa, o finge
I moti e i cerchi assai distorti e strani ;
Mirabil mostro! e mentre al Sol concede
Tre spere erranti, senza dubbio afferma
die quella , che fra l' altre In mezzogira.
Non fa centro del mondo ’l proprio centro:
L’ ultima in parte ancor distorceepiega.
Afferma ancor clic, mentre T Sol rotando
Va in questa guisa, or più s’appressa al
centro
Dell’ universo, or sen fa più lontano, [chio
Nel maggior cerchio ancora un picelo) cer-
va immaginando, il qual si muova intorno
Sovra i poli suo’ propri , e lasci ’1 centro
Del mondo fuor del mezzo : e’n lui ripone
II Sole, ora’n sublime ed altro sito,
Ora ’n più basso : ora appressar la terra ,
Or dilungarsi : or con distorto corso
Lontra gli ordin de' Segni andar errando
Ora seguirlo. E nell’istesso modo
Fa ritrosa la Luna, c'1 suo bel cerchio
Finge ineguale, e non ritondo appieno,
E la figura le distorce, e ’l corso.
Cosi di queste due discordi sette ,
L’ una ben non dimostra, e non ci appaga :
L’altra, mostrando, è ingiuriosa ed empia
Conira i celesti giri , a cui la forma,
E ritonda e perfetta invidia e toglie.
ET lor semplice moto, onde Natura
Disdegnosa sen duole c sen richiama.
E la filosofia seco ripugna
All' apparenza , e con ragioni invitte
LE SETTE GIORNATE
l.c ribellanti scuole In terra sparge.
Ma 'I senso ancora alla ragione amico
Mostrarsi può, s’ altri in lontane parti
Peregrinando agli Etiopi adusti ,
Giungerà mai nella fervente zona,
Dov'è ’l cinto maggior che fascia'l mondo.
Ivi , se'I Sole in questo picciol cerchio
Incgual si movesse , egual non fora
Il di più lungo alla piu lunga notte.
E se la Luna pur nel cerchio impari
E non ritondo , si girasse attorno ;
Dopo saria mutar talvolta ’l sito [so.
A quella macchia ond’é'l suo volto asper-
Dtinquepiit non presuma ardito ingegno,
Incontra ’l vero, Incontra ’l ciel superbo,
Finger nuove lassù figure c mostri.
Ma clic ? ci afferma ancqr l' eli vetusta
I.e non credute meraviglie antiche.
E dc’suo'millc e mille e mille lustri,
E mille e mille il favoloso Egitto
Par che si vanti : e ’n più moderne carte
Delle menzogne sue famose c conte
La già vecchia memoria ancornonlangue.
E si ragiona ancora , ancor si scrive
Che, nel girar de’ secoli volanti.
La prima sfera si rivolge intorno.
Non dall’Orto lucente al nero Occaso,
Ma dal Settentrione al Mezzogiorno ;
E quinci dimostrar (s’io dritto estimo)
Come’l veloce Sol più e più s’ affretti,
Mentr’ci declina pur dal cerchio obliquo,
E gl’istessi affermar ( crescendo ardire )
Che’l Sol due volte dal lucente Occaso
Nacque: e due volte ancor mori nell’ Orlo,
Portando a noi dall’ Occidente’! giorno,
E lui chiudendo nell' avversa parte,
E ’l mutar di quel punto, In cui fermarsi
Ci sembra ’l Sole , e far più lungo ’l corso ;
Che Solstizio chiamò l’antica Roma,
Di tanto variar cagione esterna
Forse eredeano ; e fu dagli altri ascritto
All' alto ingegno degli Egizi industri,
E mutatoli Solstizio ancor si narra,
Perch’ei fu già ne’ lucidi Gemelli,
Or ò nel Cancro. E dunque inslabil punto
Quel clic sembra lassù si forte affisso.
Nò costante è del del l’ordine e l'arte,
Né costanza ò ne’ corpi , o sien d’ immonda
Rozza materia , o di più scelta e pura.
E se pur questo è vero, ò vero ancora
Che del Settentrlon l'eccelsa parte
Fia nel Meriggio alQn cangiata, e volta ,
Equella in questa: e’1 Sol, che gira errando
DEL MONDO CREATO. I3T
Perle distorte vie d'obliquo cerchio,
Allor farà più dritto alto viaggio
Per quella fascia, ond’ è partitoli mondo.
Tante varietali , c si discordi
Vedrà , quando che sia , l' età futura
Negli ordini supremi ; e pur son questo
Del Ciel le veci; ov’ ò chi ’i crede, e ’l pensa?
E di ciò la cagion s’ adorna e Unge,
Mutando regni, anzi pur regi al Cielo,
Da cui l' un fu scaccialo , e l' alto impero
Già prese delle Stelle alto monarca.
E regnando ’1 primier , che fu Saturno ,
Dalla parte, or sinistra, il Ciel si mosse;
Poscia usurpando Giove alto governo ,
Repente’! volse dal contrario lato,
E mutando del Cielo il moto e'I giro ,
Tutte insieme cangiò le cose a forza.
Quaggiù soggette al variar de’ Cieli.
Allor, come si finge, uom curvo e bianco ,
E nell' ultima età vicino a morte,
Rivolsc'ndietroaglianniil proprio corso,
E ritornò verso l’età matura
E già perfetto : c quinci passo passo
Vago giovili divenne, e poi fanciullo,
E con tenere membra alfine infante :
E dall’infanzia giunse al fine estremo
Di questa vita, c si nascose in grembo,
Pargoleggiando, dell' antica madre.
Oh! di favole antiche ombroso velo,
Per cui traluce l’incostanza Incerta
De' corpi tutti , e de’ supremi ancora !
A' quali ha dato Dio perpetua legge ,
E lunghissima ancor, ma non eterna.
Però , quando che sia , riposo avranno ,
Cessando ’l lor continuo e certo corso.
E ben di ciò vedransi in Cielo i segni
Anzi ’l gran di dell’ ultimo spavento,
In cui deve cadere accesa, od arsa
Questa del mondo ruinosa mole.
Allor cedrassi ’l Sol converso in sangue :
Ed altri segni spaventosi e fieri
Nel volto mostrerà l’orrida Luna.
Però disse , creando , ’1 Fabbro eterno :
Sìan i segni ne' tempi , e slan ne' giorni ,
Esian negli anni ì segni. E I segni or sono
Pur quasi note nella Luna impresse,
E ’n fronte al Sol modesmo , ond’ ci ci mo-
Ciò che fa d’ uopo alla terrena vita [ stra
De’ faticosi e miseri mortali.
Spcsso’n turbata vista annunzia ’l ciclo
Venti e procelle c tempestosa pioggia.
E l'arida staglon conosce ancora
L' uom già canuto, e per lung' uso esperto.
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1J8 POEMI
Ed una pur di tante cose insegna
Quel cli'è vero Signore c vero Mastro,
Quand’ egli disse : Rosseggiando, il Ciclo
Gii si contrista , onde sari tempesta.
E questoavvien , quando si muove ’l Sole
Per entro a fosca e tenebrosa nube
Dell' aer denso e 'mpuro , onde traluce
Quasi per colorato e grosso vetro ;
Però sanguigno, e quasi involto ci sembra:
0 quand' intorno al Sol si gira e volge ,
Gemino Sole , o pur tre Soli insieme
Fan di sè spaventosa c fiera mostra :
Siccome vide gii l'antica Roma ,
Ed ora a' nostri tempi avvien sovente
Là sotto i sette gelidi Trioni.
Talor veggiamo entro l' oscure nubi ,
Distese in lungo variar le verghe ,
1 colori dell' Iri ; c fiero turbo [ bo ,
Quinci ancor si dimostra, pioggia, onem-
Alnien d’aria mutata indicio aperto.
L’istabil Luna ancor a noi predice
Co! vario aspetto ’l variar de’ tempi.
Perchè sottile e pura ’l terzo giorno
Stabil serenità promette, e segna ;
Mas’ ella ’ngrossa mai l’ un corno e 1* altro,
SACRI.
Quasi vermiglia; allor altrui minaccia
Gran pioggia, e folla; o pur di torbid’ Au-
lì violento impetuoso assalto. [stro
Ma i vari segni in Cicl vieppiù distingue
Ne’ regni d’Aquilon, canuto e scaltro
Per lunga esperienza’! buon nocchiero.
E se giammai quella che ’1 Sol circonda,
Nubilosa corona, o l’aurcc Stelle,
In sè medesma si dilegua c cade;
Quasi egualmente al suo sparir s’attende
Un placido sereno, e ’l mar tranquillo :
Ma quando ad una parte ella si frange.
Da quella , onde si rompe T bel contesto
Dell’ aerea corona , attende ’l vento.
Se da più parli ella si squarcia e solve.
Nascono da più parti i feri spirti
Quasi repente, e fan contesa c guerra
In Ciclo c'n Mar, eh’ è tempestoso campo
Delle sonore c torbide procelle.
Ma questi segni fa costanti c tari
L'alto voler di Lui che muove ’l tutto.
Cosi gli piaccia a noi pace tranquilla
Mostrar dall’ allo : c disgombrar d' intorno
Quel die sovrasta minaccioso e grave
A questa vita procellosa e 'licerla.
GIORNATA QUINTA.
Nella quale furono da Dio creali i Pesci e gli Augelli.
L' antico abilator d' estranea parte ,
Che tornar pensa alla sua patria illustre,
Dopo varie fortune, e grave esilio,
E molti in faticosa, e dura vita
Trascorsi lustri , al suo fedele albergo,
Ed al cortese albergator si mostra
Grato, ed amico anzi ’l partir estremo.
Cosi noi, che bramiam di far ritorno [po.
Al del, quando che sia, tardi, o per tem-
Da questa mcn sublime opaca chiostra
Della terra, c del mar, clic ’nlorno inonda,
Da cui moli' anni I nutrimento e ’l cibo
Si caro avemmo , e si gradito ostello ;
Dobbiate gli ultimi offici c i detti e 1 doni
Di pictatc e d'amnr; dobbiamo i pegni
Di non oscura e non mortai memoria
A questa nostra si pietosa e cara
Nudrlce antica, che fanciulli in grembo
N' accolse , e vecchi ne sostiene c folce :
A questo mar che ne trasporta e pasce ;
A questo , onde spiriamo aer sereno.
Dunque narriam , come la sjnta destra ,
Poiché In tal guisa ebbe ciascuno adorno.
Di vari abitalor frequenti c lieti
Facesse tutti alfin nel giorno quinto;
Sicché non vi lasciò spazio, nè clima
Di vasta solitudine, e dolente.
Nè di perpetuo orrore incolto ed ermo.
Avea la dotta man del Mastro eterno
Di bel fiori di stelle ’l del dipinto,
E pur, com’occhi suoi lucenti c vaghi.
Già colla Luna in lui creato ’l Sole ;
Quand'egli disse: L'acqua ornai produca,
E seco l’aria partorisca insieme
Ogni vivo animai che vola c repe.
E nel suo comandar tutti repente
I fiumi diventar fecondi , e i laghi :
E i vaghi armenti e le squammose torme
De’ propri notatoti ’l Mar produsse s
E quanto ancor d'immondo c di palustre
Limo è ripieno, e senza corso, o moto
Ristagna, ed impaluda in pigro letto, [re,
Sortl'l proprioornamentoc'! proprio ono-
E non rimase neghittoso, o voto.
LE SETTE GIORNATE
Allorché Dio creò di nuovo il mondo;
di' immantinente gracidar nascendo
Nello stagnante umor rane palustri.
E si fatti animai nasceano insieme;
In guisa, ad eseguire '1 sommo impero,
Si mostrar Tacque frettolose e pronte,
E tutti quei , di cui potriansi appena
Le varie sorti annoverar, parlando,
Subito nati, in operosa vita,
E sé movente, disegnerò a prova
Di quel clic gli creò T alla possanza.
Che narrar non si può con lingua umana.
Ed allor prima fu creato, e nacque
Dotato T animai d'alma e di senso.
Perchè le piante e le frondose sterpi
Degli arbori , eli' al Ciel spiegar le chiome.
Bendi' abbian vita, onde si nutre, e cresce
Dall' umide radici '1 verde tronco.
Animali non son , nè ’n cara dote
Ebber dal Padre etcrno’l senso e l'alma.
Onde sentiamo, si diversi obbietti :
Benché vi sia chi non dineghi , e toglia
Alle scorze selvagge, ai rozzi tronchi
Un inchinarsi, un ripiegar sé stesso,
lln distender i rami in cara parte ,
UT è quasi un moto di frondose braccia
Per secreto desio d’amore occulto.
E nelle piante ancor stupido senso
Conobbe alcun antico , o che gli parve.
Ma resti pur questa sentenza errante
In quel silenzio , a lor cotanto amico.
Come si sia, creali il quinto giorno
Fur gli animanti, a cui non lega, e ’ndura
Rozzo e tardo stupore i pigri sensi.
E qualunque animale, o rcpe, o guizza
0 nel sommo dell'acque, o pur nel fondo,
Prodotto fu per ubbidire al suono
Della divina ed immutabil voce.
Nè (in pochi e brevi detti) alcun rimase
Escluso dal sovrano eterno impero.
Non quei, che T animai, figliando in parto,
Soglion vivo produr, delfini e focile :
Nè meno ’l picciol pesce, onde sovente
La man del pescatore a fune avvolta,
Per secreta virtù stupisce e turpe :
Non chi T ova produce , o chi si copre
Dì molle squamata, o di più dura scorza :
Non quel eh’ hanno le penne , o pur non
Ma tutti tur nelle parole accolti, [l’hanno.
E quasi ìnclilusi sotto certa legge ,
Del lito i vaghi abilator guizzanti.
E quei che nel profondo ’1 mare alberga :
Equei ch'allusi stanno a' duriacogli :
DEL MONDO CREATO. 139
Equcicbevannoinsiemeinamplagreggia:
E quelli ancor eli' erran dispersi a nuoto :
E le balene smisurate e Torcile,
Co’ pesci picciolissimi e minuti ;
E se fra questi ha pur chi 'I molle peso
Del corpo sovra i piè sostiene e porta,
Son di natura ambigua e quasi incerta :
E ’l gemino lor vitto In terra e ’n onda
Yan ricercando, non contenti appieno
Di semplic’esca, od' un sol cibo al pasto.
E son fra questi le stridenti rane , [ge
E I granelli di più branche ; a cui s’aggiun-
II cocodriilo, e '1 uotatnr cavallo,
Che del Nilo trascorre i largii! campi
Ed ondeggianti per l'asciutto rive.
Perdi’ i piccioli, i grandi, i dubbj e i certi,
Sotto ’l decreto d’ un eguale impero
Esser vario sortirò , e varia vita.
Allorché disse Dio : Producali Tacque.
E dimostrò colla mirabil voce
Quanto la vaga ed umida natura
Dell’instabil umor convenga a' pesci.
Perocché qual è l'aria a’ levi augelli,
0 pure ail animai clic spiri iu terra.
Cotale è T acqua al notator marino ,
Ed a qualunque guizzi in fiume c ’n lago.
E la ragione è manifesta a' sensi;
Perchè ’l polmon nella sinistra parte
Fra le viscere nostre ha ’l proprio sito
Spongioso e raro e trasparente, in guisa
Di specchio, o d' altro clic riceve immago
E la ritorna : c si ristringe ed apre.
Quasi mantice , o folle ; e ’l rezzo c T aura
Spirando e respirando, accoglie e rende ;
E ventilando, è refrigerio al core.
Clic di purpureo sangue è caldo fonte.
E coll’ istesso spirto , onde rinfresca
L’interna arsura, anco si forma e tinge
In vari delti la sonora voce.
Ma diè Natura alle guizzanti torme
In vece di polmon le curve branche :
E mentre le distende e le raccoglie ,
Dentro l’acqua riceve, o pur la sparge;
E cosi ’n loro ’l proprio officio adempie,
Ch'è quasi un respirar d’umore c d’onda.
Ma pur voce non manda ’l muto pesce :
Nè domestico mai , nè mansueto
Diventa : nè sostiene ’l tatto e i vezzi,
Onde palpa e lusinga umana destra ;
Benché U’ alcuni pur si narri e scriva ,
Ch'ban per propria natura c proprlasortc.
Olirà T uso comun , sonoro spirto :
Altri suono non pur, ma voce ancora :
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POEMI SACRI.
HO
AUri quasi parole , In cui distingue
Non ben loquace lingua ì propri altetti.
perche non basta al suon lo spirto interno,
Ond’ ci si forma , e '1 suo spongioso e raro
Polmone, c la sua vola umida canna,
Fistola detta; ma la voce appresso
Sol nella gola si figura e fìnge.
Alle parole ancor la lingua c i denti
Son d’uopo; onde non parla, e non informa
Gli accenti suol quel clic di lingua è privo.
Ma ’l suon nell' altre parti ancor si frange ;
Come nel cinto clic traversa e fascia
Le vespi e l’ api, si percuote e rompe
L' interno spirto; e quinci s’ode un roco
Mormorar, che per l' aria ’nlorno aggira.
Altri rompendo nell’istessa fascia.
Che cìnge ’l corpo suo, lo spirto interno.
Canta battendo l’ale : e 1 verdi boschi
Suonano ’ntorno a quei sonori accenti
Della cicala a’ lunghi estivi giorni.
Ma fra’ pesci nel mare, o’n fiume, o’n lago
Alcun non manda fuori o voce o suono,
Che sia molle , o di crosta almen coperto.
Altri con vario suon garrisce e stride,
Talché del suo stridor risuona intorno
L'onda sovente, e dal concento II nome
Prese quel pesce in mar, clic detto é lira.
Stride ’l pettine ancora, e stride a prova
La rondine marina : e questo e quella
Stridendo vola, est solleva in alto [tocca.
Con lunghe e larghe penne , e'i mar non
Ma nel fiume Acheloo non solo stride,
Ma voce’l suo cinghiale aversi crede.
E ’l cucco notatore ha voce aneli’ egli ,
Onde al cucco volante è quasi eguale;
Ma non é vera voce , e voce assembra
L’interno spirto, die si frega e frange
In quell’ orride branche, ond' ei risuona.
Ma sue parole quasi , e sua favella
Tra l' acqua c ’l limo ha la loquace rana ,
Delle paludi abitatrice immonda, [gua,
E quest’ awien , perché ha polmone e lin-
Di cui compiuta é l’ una e l' altra parte :
La prima al modo pur degli altri pesci :
E l'altra ancor, che manda’l roco suono.
Al gorgozzuol s’attacca c sì congiunge.
Ed ulular le rane , c gli altri ancora
Sotto Tacque s’udir pesci lascivi.
E P ululare é un amoroso invito,
Onde’l cupido maschio alletta, o chiama
La femmina consorte a dolci nozze.
Ma ’1 veloce delfino ha voce c suono,
Pcrch'ei non é senza polmone e sangue;
| Ma non halingua.ond’ei fortnle distìngua
| Quel suon ches’odc mormorar sull'acqiie.
I Ma ronfar gii dormendo ancora uditi ,
Il dormir son veduti umidi pesci :
I E quei clic dura crosta involse e copre
Poiché non abbian Tumide palpebre.
Le quai, chinate nel soave sonno,
liicnpron gli occhi a’ notalori stanchi.
Ma dal placido lor queto riposo ,
in cui sol mossa è la guizzante coda,
L’accorto pescator conosce ’l sonno.
Né gli trafigge sol col suo tridente
Ma colla cauta nian gli palpa e prende.
E spesso preda fa di quei eh' adissi
Sano agli scogli, o nell’ arene avvolti,
0 sotto un sasso , o sotto ’l curvo lido
Dormono ascosamente, o ’n imo gorgo.
In questa guisa é col pungente ferro
Presa l’ orata : e ’l lupo ancor percosso
Si desta appena, in cosi fisso ed alto
Sopore é immerso : e ’l fin del suo riposo
E col principio dì sua morte aggiunto:
Anzi dal breve nel perpetuo sonno
Desto ei trapassa , e se n’ avvede appena.
Ma ’l veloce dclfin , la grande e vasta
Ralena, mentre dorme in mezzo all' onde.
Fuordal sommo dell'acque innalzae spar-
La sua fistola cava , ond' ella spira : [ ge
E leggiermente le sue penne intanto
Agita c move. E nell' ombrosa notte, [sci
Vicppiùche’n altro tempo, il sonnoa’pe-
S’ irriga ; e pure in sul meriggio estivo ,
Allorché pasce i favolosi armenti
Proteo nelle marine ampie spelonche,
Come creduto fu , le plstri c l’ orche ,
A cui fa l'alga immonda un pigro letto.
Dormono ilunghi giorni : e dorme appres-
L’indovinopastor,trevolteequattro [ so
Gii numerate le squammose gregge.
Ma le favole antiche in altra parte [que
Han più opportuno loco, lo taccio adun-
Di Proteo e d’Arion , che tratto a riva
Dal veloce delfin , campò da morte :
E laccio ancora i mal creduti amori
Del pio delfino, c del fanciullo estinto ,
Per cui si dolse T suo marino amante :
E vinto aifin dal suo dolore Insano
Mori gemendo ’n sull’ asciutta arena.
Ma se di ciò si nega a prisca fama
Credenza alcuna, almen dì fede indegna
Non sia l’antica istoria, in cui si legge
Che la natura ancor piotate insegna.
Quasi maestra a’ pesci , e quasi madre.
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
Quinci al curro dclfin le gonfie mamme
Diede» perch* ei nudrisca i cari figli;
Anzi ei di nuoto ancor nel curvo ventre
Raccoglie i pargoletti , e si rientra
Ond' usci prima il non cresciuto parto ,
Quand’è più tempestoso il mar sonante.
Cresciuto poi fra le procelle , e i nembi ,
Sicuro apprende ’1 gir per Tonde a nuoto.
Senza temer flutto spumoso, o turbo :
Arte paterna : e pur col padre appare
Qual fida aita a’ naviganti audaci;
Ond’ antivede ’l buon nocchiere accorto
L’orrida guerra de’ contrari venti
E drizza al porto l’agitata prora.
Ma qual canuto pescatore, e lasso,
Ch’appo le rive del Tirreno invecchi,
0 del mar d’Adria, o deli’ Egeo sonoro ,
0 lungo ’i Caspio, o lungo’l ponto Lussino,
0 ’o su’ lidi vermigli, o dove inonda
Il gran padre Occan Germani e Franchi,
Scoti e Britanni, od Etiopi ed Indi ;
Qual, dico, abbia ivi l’età sua fornita
Nell’ infeconde c solitarie arene,
E ’ntomo a’ cavernosi e duri scogli ,
Or l’amo ed or le reti in mar gettando,
Narrar potria degli umidi notanti
Le tante sorti, in cui distinta e scevra
È lor natura e la progenie antica,
E ben mille maniere e mille modi
Di varia vita, e di costumi e d’opre
Pur variate, e lor diverse parli?
Perch’ altri ne conosce ’l mar d’Egitto,
E l’Eritreo, che fa Tonde sanguigne:
Altri l’Ircano, c quel d’Assiri e Persi :
Altri quello in cui lava 1 piedi Atlante:
E quello in cui biancheggia Indo ed Idaspe,
Che sono al nostro mare in tutto estrani ,
Od in gran parte peregrini ignoti :
Quanti ancor ne produce in grembo e pasce
L’ Ocean sotto T Orse , e sotto ’l cielo ,
Jn cui più non appare ’l Carro e l’Orsa,
Che qui saria quasi mirabil mostro ?
Ma pur da prima gli produsse in vita
Tutti egualmente la divina voce:
E ’n sì varie maniere anco distinse.
E quinci avvien ch’altri nel primo parto
Manda fuor T ovo : e noi riscalda , e cova.
D’augello in guisa; e non si forma ’l nido,
Nè con molta fatica i figli ei nutre ;
Ma l’acqua ’l peso in sè caduto accoglie ,
E ’l fa vivo animai , che guizza e nuota.
Altri produce l’animai da prima.
Nè come ’n terra’l mulo, o pur nell* aria
Sogiion molti meschiar l’ incerta prole
Lascivi augelli ; ma progenie immista
Si perpetua fra lor sempre feconda
Con legittime nozze; chè natura
Ha certe leggi , ond’ i consorti accoppia.
E se pur mesce la murena al fiero
Maschio serpente, l’un depone ’l tosco.
L’altra noi fugge, o’I suo marito abborro.
Nulla sorte di pesci ha d’ una parte
La bocca armata degli acuti denti ,
Dall’ altra affatto inerme , c quasi ignuda ,
Come ha fra noi la pecorella e *1 bue ,
E ni un pesce ancor , come si narra ,
Suol ruminare ornai sazio del pasto.
Se lo scaro ne traggi : c tutti a prova
Hanno in guisa di sega i bianchi denti
In due fila ristretti : e quinci e quindi
Vario c distinto è il cibo. Altri di fango
Si pasce e nutre : altri di funghi ed’ alga:
Altri d’erbe marine , ovver palustri,
0 di quelle ond’ i fiumi han verde ’l fondo :
Ed altri corre frettoloso all* esca ,
Che suol gettar nell’ acque umana destra,
E pur di cibo uman vago si mostra :
Altri ’i pesce minor nell’amo ingoia.
La maggior parte pur de’ pesci ingordi
Scambievolmente si divora e strugge,
E del maggior sempre ’l minore è pasto.
E spesso avv ien che nell’ istcsso modo
Quel che pur dianzi del minor satolla
Fece l’avida fame, or fugga invano
11 suo maggior , che lo persegue c caccia :
E dal gran predator sia preso alfine ,
Ed empia T uno e T altro ’l ventre istesso.
E questo ancor fra noi più spesso incon-
tra :
Perchè ’l possente a cui fu dato in sorte
Sovra umil plebe ’l grave imperio c’ngiu-
Pasce de’ più minuti avido ’l sangue , [sto,
E di qualunque gli è soggetto e servo.
E’n che diverso è un fiero ingordo petto,
Ch* avara fame di ricchezze c d’oro
Stimola sempre, c’nsazlabil rende,
Dal gran mostro del mar, che mille e mille
Via men forti di lui persegue, ed empie
Di lor la sua profonda alta vorago?
Già colui , fatto ingiurioso ed empio ,
Delpovcrel vicino i beni ingombra;
E tu dì lui , rapito e preso a forza ,
Godi le prede e le rapine antiche
Con tirannico dente , e rodi e struggi
E quasi parto a tue ricchezze aggiungi
Quel, che ’n moli’ anni egli usurpò rapace ;
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H2 POEMI SACRI.
E'n guisa lai più dell' araro araro ,
E dell’ ingiusto più n'apparl ingiusto.
Guarda clic non t' attenda '1 fine islesso ,
Nel quale incappa, csèmedesmo avvolge.
Mentre gli altri persegue, il pesce incauto;
Iodico amo pungente , o nascia , o rete.
Non fuggirai, non fuggirai , superbo,
Dopo tanti, altrui fatti, iniqui oltraggi,
L’ultima pena, che sovrasta, e tarda,
E qual sasso pendente aitili minaccia.
Ord'un minuto animalctto c vile
Riconosci l’insidie , e 1 falsi inganni ,
E fuggi ornai di frodi indegno esempio.
Il granchio la soave c dolce carne
Brama della marina e nobil conca :
Diffidi preda , e preziosa c cara ;
Perdi’ a tenero cibo un duro vallo
Fece natura, e circondollo intorno.
E perchè ’n guisa si congiunge e serra
L’una coll’altra forte e salda testa.
Che non viponno entrar Torride branche
Che fa dunqu'egli? quando in mar tran-
Solto 'I sereno cielo al chiaro giorno[quillo
De' dolci raggi , e del soave aspetto
Gode la conca , e si dispiega e spande ;
Allor, quasi di furto egli nascoso.
Un picciol sasso entro vi getta : c vieta
Ch’ella più si ricopra e si rinchiuda:
E ’n questa guisa della debil forza
Può adempire I difetti astuto Ingegno.
Oh di malizia , e d' uomo iniquo c scaltro ,
Ma pur ili rozza e d'infeconda lingua
Maligno magistero, c muta Tramici
Tu, se brami imitar P industria e l'arte,
Nell' acquistar , de' tuoi vicini ’l danno
Schiva, c non fare a' tuoi fratelli oltraggio,
Fuggi de’ condannati ’l vile esempio:
E di povero aver contento c lieto ,
La povertà , eli’ a sè medesima basti,
A’ diletti molesti , a’ servi onori
L'mil preponi all’ alterezza , al fasto :
E di te stesso in te trionfa c regna ;
Chè non han regno eguale o Sciti , od Indi.
Nè ilei polipo indietro i furti lo lascio ,
E I falsi inganni ; chè se mai s'appiglia
A qualunque si sia marina pietra.
Egli repente si dipinge e veste
De’ colori di quella, e lei rassembra.
Però se ’l pesce , che trascorre a nuoto ,
Da' sembianti ingannato in lui s' avviene,
Pur duro sasso ’l crede in mare occulto ;
E di leggiero è sua rapina e cibo.
Di tal costumi i lusinghieri accorti
Sun ne’ palagi de' possenti Augusti ,
0 de* regi sublimi : e ’n questa guisa
S'inchinan pronti ad onorar T altezza
Della fortuna ; e trasmutar sè stessi
Sogliono in color mille , e ’n mille forme
Siccomel'uso, o ’l tempo, o come chiede.
La voglia del signore , o’i suo diletto ,
Variando tcnor , sembianti e vesti ,
Parole e modi : e co' modesti insieme
Sono modesti : e sospirosi in atto
Co’ più dolenti; e con gli allegri, allegri:
Protervi co’ protervi : c legge c norma
Si fanno d'altrui senno, ed' altrui gusto.
Talché agcvol non sembra , o leve cura
Schivar i’ insidioso e duro incontro
Di questi in guisa, die si cessi ’l danno,
Clic T empietà sotto ’l contrario aspetto
Della pietà suole apportar sovente.
Di tal costumi ancor rapaci lupi
Soglion vestir di mansueto agnello
Candido manto , e semplicetti in vista
Altrui mostrarsi. Fuggi, ali! fuggi, amico.
Il costume si doppio e si perverso.
Segui la verità. Gradisci , ed ama
li sincero condor d'alma innocente,
E la non violata e pura fede, [avvenne
Vario è’I serpente e l'angue, e quinci
Clic ’l condannò sentenza antica e giusta
A trar per terra steso ’l proprio corpo.
Sincero è il giusto, e nulla mente, o finge.
Come Giacob , però l' accoglie e loca
L'alto Signorc'n sua magione eterna.
Ma questo cosi vario e’ncerto albergo,
Ov'abltiam, vivendo, è T ampio mare,
E grande e vasto, in cui serpenti e draghi,
S' aggirati senza fine, e (ieri mostri :
E’n lui co' grandi soli confusi e misti
I piccioli animali : e tutti insieme
Saggio governo c giusta legge afTrena
I popoli natanti. Ed tiai ben onde
Seguir d' alcun tu possa ’l raro esempio ;
Non accusarlo sol , se vizio , o colpa
Di natura imperfetta in lor conosci.
E prima , tu non pensi , c non rimiri
Come sian compartiti a' vaghi pesci
I propri luoghi, e quasi i propri alberghi,
I propri regni, onde da quello a questo
Non soglion trapassar, se non di rado ,
Gii altrui campi usurpando, e’I leltoe'lci-
Ma tra' confini suoi quasi ristretto [bo?
Ciascun si spazia entro ’l sortilo regno.
Nè geometra i lunghi spazj ed ampi
Divise lor : nè d' alte mura intorno
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143
LE SETTE GIORNATE
Circondò le magioni umide, algenti.
Nè termine vi pose : e d’ ogni parte
Quel che lor giova, è largamente aperto ,
E quasi destinato in propria sorte :
Questo sen questi pesci accoglie e nutre :
L'altro pasce quegli altri: e colle, o monte.
Coll' aspre rupi c con distesi gioghi ,
Non gli disparte , e non recide ’l passo.
Ma certa legge di natura a tulli
Divìde con misura eguale c giusta
(Come è prò di ciascun) l’ albergo e M loco ;
Ove con gli altri si raduni e pasca,
E quel , che basti in un sol giorno al vitto.
Già tali non siam noi, del padre Adamo
Contaminata prole, e'n Dio superba ;
Perchè noi trasportiam de’ padri antichi
I termini già affissi , ed ampio acquisto
Faccialo pur sempre d’occupata terra.
Casa a raso aggiungendo, e campo a cam-
Città spesso a ci (tate, c regno a regno, [po,
Ch* a’ vicini si scema, e toglie a forza.
Conobl* prima le balene e Torcile
II loco che natura a lor prescrisse ,
E’I preparato pasto, e'I mar prorondo
D’ isole desolate olirà I paesi
Abitati occupar , dove non resta
D’ alcuna parte più la stabil terra :
Dove più non appare o lido, o monte:
Dov’arar non si ponno I vasti campi
D’innavigabil mare ; ove non giunse.
Spiando nuove genti e nuovi regni ,
E nuova gloria , il navigante audace :
Ove non prisca istoria, o vecchia fama,
Non ardir, non pensiero umano ed alto
Del folle immaginar, la nave approda.
Ma quel medesimi, ignoto immenso mare
Ingombrar le balene, eguali a’ monti.
Come si narra da nocchieri esperti :
Nè d’isola, o citiate oltraggio, o danno
Da lor riceve , o la nemica forza
Provano unquanco ingiuriosa e’n festa.
Ma qualunque di lor maniera e sorte.
Quasi in città , quasi in contrada amica ,
Anzi paterna , con antiche leggi
Nelle parti del mare , ove sortilla
Voler divino e sua natura , accampa.
Peregrinando ancor sen vanno i pesci :
F della patria In volontario esilio
Son rilegati in parte ignota e strana.
E si partono insieme accolti a stuolo ,
E’n guisa di guerrier, ch’ai dato segno
Lasci. in le proprie tende c’I proprio cam-
Seguendo’l suon della canora tromba; [po,
DEL MONDO CREATO.
Allorché ’l tempo destinato appressa.
Desti dalla possente antica legge
Della natura, e frettolosi e pronti
Verso *1 Settentrione han volto ’l corso.
E gli vedresti di torrenti in guisa
Correr dalla Propontide congiunti
Nel mar Eussino. Or chi li muove e regge?
Qual imperio di rege? o qual d’araldo
Al suon di trombe pubblicato editto
R già prefisso tempo a lor dimostra?
Chi guida 1 peregrini ? Or non conosci
L’ordine otcrno clic penetra e passa
Per le minute parti, e tutto adempie?
Non fa contesa alla divina legge
Ubbidiente ’l pesce; c a lei contrasta
L’uomo, indarno ritroso e ribellante.
Perchè Ha mulo, non avere a scherno
Il privo di ragion ; che vieppiù folle
Se’ tu, mentre ripugni all’alto impero
Del Re celeste. Odi la voce , ascolta
Del muto pesce le parole e i detti ;
Perchè ci parla quasi M moto e P opre ,
Onde a peregrinar t’ invita e desta ,
Ed a lasciar torbido flutto amaro.
Cercando in altra parte acque più dolci
Ne* regni d’ Aquilone, ove riscalda
Meri co’ suo’ raggi ’l Sole, c meno attragge
Delle sue parti più leggiere in alto.
Nè l’avaro desio di merci , o d’auro ,
Lor muove a trapassare i mari , e i fiumi ,
Come gli uomini suol, ma sol d’immista
E legittima prole amore e zelo.
Ma ricerrhiam perdi’ I giganti alteri
Più la natura non produce , e figlia
La terra pregna deU'orribit parto:
Ma di elefanti ancora , e di balene
Non si ri pente. E se fatture ed opre,
Son pur della divina eterna destra,
Son buone , e buone fur da lei prodotte ,
Che le produsse grandi , a’ monti alpestri.
Ed all' isole eguali : e’I nostro orgoglio
Volle abbassare, e darne alto spavento
Con quel sì mostruoso e fiero aspetto,
E colla smisurata orribil mole.
Perocché Dio, quando creò primiero
Tanti animali , e sì distinti e vari
E d’ opere e di moto c di sembiante;
Altri a servirne gli produsse in terra
Per uso umano , ubbidienti al nostro
Placido impero, e talor grave ed aspro.
Per sua grandezza , e per sua gloria ancora
Alcuni altri produsse: e'n lor dimostra
Quella , che fa gran cose , arte divina ,
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144 POEMI
E divina virtù , che presso e lunge ,
Più, e men chiaramente altrui risplendc.
Ma degl' industri Greci il folle ingegno
Le meraviglie del Signore eterno
Rivolse ’n giuoco , ed adombrarle in parte
Volle con varie sue menzogne adorne ;
Mentre descrisse olirà le mete c i segni
D' Alcide Invitto 1 favolosi regni
Di <|ue’ felici, e le giù illustri e conte
Isole fortunate , e '1 lungo corso
Di temeraria nave : c ci dipinse
Lo smisurato pesce , e'I vasto grembo,
Che popoli diversi in sè rinchiude;
Talché 'I profondo c tenebroso ventre
Alle genti nemiche, all'arme infeste
É di battaglia un periglioso campo.
Ma le navi da' pesci in mar sommerse,
Anzi da un pesce solo il fero assalto
Fatto a mille superbe armate navi ,
Favola non fu giù , nò scherzo o giuoco.
Ni favola è quel Giona in mar sommerso,
Ed inghiottito dal vorace mostro.
Ma dell’alto Signor l'alta possanza
Nelle picciolc cose altrui si scopre ,
Non sol nelle più grandi. Ecco trascorre
A vele piene c sparse il mar sonante
Con destro vento corredata nave :
E pesce minutissimo repente
Tarda e ritiene T suo veloce corso.
Come s’ ella radici in mar profondo
Atcss e fatte : e quinci al pesce il nome
Dal ritardar fu dato. E gran temenza
Non solo danno altrui balene ed orche,
0 la seca marina , acuta i denti ,
0 'I cane, o quella pur, che spada assembra;
Ma tal pesce ì nel mar, ch'ai line estinto
È paventoso ancora , e'n guisa punge,
Che presto apporta inevitabil morte.
E la picciola ancor marina lepre
Repente ancidc: epurse agguagli '1 danno
In paragon col prò , l' utile avanza :
E ci giova de' pesci ancor l' esempio.
Ma se te stesso ben misuri e stimi,
Uom, tu sei pesce , c questa vita (Il mare :
Ed alla rete , che si lancia in alto ,
E tanti vari pesci in sè raccoglie,
È somigliante '1 gran regno del Cielo ,
Che nc' suo' lacci ne raguna c strìnge,
E poi gli eletti nc' suo' vasi accoglie ,
Gli altri fuor getta, e ” distingue c parte.
Cosi avverrù nel co' .umar del mondo,
Clic gli Angeli uscirai!, santi ministri
Del Giudido divino: e fian divisi
SACRI.
I re! da' giusti, e quei dannati al foco,
Questi alla gloria destinati in Ciclo.
Vi son dunque de’ pesci e buoni e rei :
E 'I buon la rete non involvc e lega ,
Ma 'I leva in alto , c l’ amo non l’ ancidc ;
Ma d’ innocente 'I bagna c puro sangue
Di piaga preziosa. Uom, tu se' pesce;
Tu se' quel pesce, a cui l'aperta bocca
Dimostrò la staterà entro nascosa.
E '1 libero voler che ’n te riserbi,
Son le bilance tue distorte, o pari.
Uom, tu se’ pesce ; e '1 pescatore è Pietro,
0 chi di Pietro ha qui sembianza c vece.
Questo mare è il Vangelo, in cui si fonda
La Chiesa, eli' è di Dio sacrato albergo.
Non temer, o buon pesce, o rete, od amo.
Clic non ancidc altrui , ma sol consacra.
Se pesce sei , fuor delle torbid’ onde
Sorgi sublime, c 'I tempestoso flutto
Non ti sommerga : e s' è tempesta in alto.
Nuota sicuro, e ti ricovra al fondo :
E s’ è tranquillo 'I mar, fra l' onde scherza :
E s'è procella pur sonora, c turbo.
Guarda clic 'I nrmbo Impetuoso e denso
Non li percuota fra gli scogli al lito.
Ma sorgi, ornai sorgi dal mar profondo,
E 'I nostro ragionar dall'ondc emerga.
Miriamo in alto, alziamo al Ciclo i lumi :
Veggiam mirabilmente 'I lito adorno :
II sai tratto dall' onde in bianco marmo
Quasi indurarsi : e qual purpurea pietra
Rosseggiar sotto 'I ciclo il bel corallo,
Clic dentr'al mar fu molle e tener' erba :
E tra le conche biancheggiar lucente
La dura perla , c tra l'incolte arene
Fiammeggiar l'oro : e quasi care gemme
Di piu colori le dipinte pietre.
Nutrito ancor nell' acque è l'aureo vello:
Ed ha l’onda i suo' fior che sparge c porta
Sovra le sponde : e quindi 'I lucid' ostro
Anco risplende : e ciò ch’i duci invitti
III lieta pompa trionfale adorna :
Ciò clic s'adora nc' possenti regi ,
0 nc’ purpurei padri oggi s’onora,
É bellezza e tesoro c cara merce
Del Marc, anzi del Mar cortese dono.
Mill'allrc aggiungi ancor bellezze e feste,
E marittime vaghe altere pompe.
Spira 'I vento soave, e placid' aura
Con dolce mormorar susurra c vaga,
E 'nerespa l' onda ; che spumoso argento
Pur tra li scogli, o presso al curvo lido
Somiglia , e spesso a’ lucidi zaffiri
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LE SETTE GIORNATE
L'acqua profonda, cd a' soavi raggi
Del Sol si Unge di piropi in guisa.
Le vele sparse ventilar lontano
Veggonsibianchcggiandoa cento, amllle,
E ’n corso superar cavalli e carri.
E spiegar le famose Insegne antiche
Dipinte navi , c co' pungenti rostri
Fender )' umili vie : guizzare intorno
GII umidi pesci : e dimostrar sovente
Il veloce delfino 'I curvo tergo.
E lieti rimbombare a suon di tromba
Le sponde e Tacque, e gli arsenali el porti
Pieni di navi, e d'altri In varie forme
Contesti legni : e bella antica mole
Far ampia strada a’ cavalieri illustri,
E frenar di Nettun l'ira e l'orgoglio.
E i premj ancora, e l'onorale palme
De’ vincitori io scorgo, e’n varie antenne
La gloriosa inchino aita Corona, {doso
Ma già coni' uom, che dentr’ al sono on-
DelT Adrian si tuffi in lieto giorno,
E'n celebrato onor di pompa antica ,
E cerchi i piti riposti oscuri fondi ,
E i duri e sotto Tacque accolti scogli,
E i secreti che'l mare asconde in grembo,
Per riportarne su gettala gemma
Tra suo' purpurei padri al veglio duce;
Cosi dal suo profondo anch'io risorgo,
E dagli oscuri e tenebrosi abissi ,
La bella verità, ch'ivi sommersa
Par che si giaccia , porto in chiara luce ,
E pure agli occhi de’ mortali esposta
L 'offro da contemplar: nè manto appanna
Le care membra, o Telo 'I crine adombra.
Or dagli ondosi campi alzarmi a volo
A' ventosi dell'aria ardisco c tento.
Chi mi dà Tale'ii guisa di colomba.
Perch’io sovra le nubi e sovra I venti
M’ innalzi , e fra’ volanti al Ciel vicino
Mi spazi? Quel clic sovra 'I del ne scorse.
M'affidi ancor, mi porti e mi sostegna
Per questo procelloso e ’ncerto regno
Della fortuna , che si varia e cangia
In tante guise; c tanti alberga e pasce
Turbini e ven ti, e pioggie e nevi e fiamme,
Ond’è turbato degli augelli’! volo.
Era già ornalo 'I cielo , e picno'l mare.
Verdeggiavano i boschi c i prati e i monti,
Quando Dio comandò che sovra ’i suolo
Terrestre isser volando i vaghi augelli
Per T aria, in cui s' accoglie c si condensa
Quell'umido vapor ch'esala in aito
Dal freddo grembo dell'opaca terra.
DEL MONDO CREATO. MS
Talché repente gli animai pennuti
Nell’aere incominciaro '1 voloe’l canto.
E chi tra’ muti pesci era pur dianzi
Desto, tra'l suon di tanti auge! canori
Or darò gli occhi in preda ai pigro sonno
E neghittoso e lento a’ vaghi augelli
Cederà nel lodare T Re superno ?
O’n render grazie a chi ci nutre e pasce?
Quegli duevolteaprova, e innanzi al gior-
E quando’) Sol da sera i raggi accoglie, [no,
E l’Oriente scolorito imbruna.
Fan di soavi note un bel concento :
Ed or tacita l'alma , c non sonoro
Trar vorrà T uno e l’ altro estremo tempo.
Che s'appella dal suono, e’n lui si chiude,
E s’apre T giorno strepitoso e ’ntento
All’ opre faticose de’ mortali?
Ah! non sia ver. Ma raccontiani seguendo
Del quinto di le buone e nobili opre.
Sono a’ pesci sembianti I vaghi augelli ;
E tra'l notante, e'1 volatore alato
F. quasi parentado : a quello T nuoto,
A questo '1 volo dift natura in sorte.
E l'uno e l'altro I liquidi sentieri
Colle sue penne seca e coila coda ,
Or mossa alquanto, or quasi in giro attorta,
Che ’n vece di tlmon governa'! corso.
Son diversi però : eli’ a’ pesci 'I cibo
Ministra l’onda instabile e vagante :
Agli augelli la ferma c stabll terra,
Però al notante necessari i piedi
Nonson, come al volante ; e quinci avviene
Che questo n'è fornito, cqtiel n'è privo.
Ma pur al crocodillo, il qual sovente
Scende a predar sull’ arenose rive
Del Nilo , i corti piè natura diede,
Anzi i piedi dal suolo ebbero 'I nome ;
Chè pedo il suol fu detto in greca lingua.
All'incontro un augcl per l'aria a volo
Si spazia, e sovra T ali ognora 'I peso
Porta e sostiene del suo debil corpo ,
Acuì piedi negò l'alma Natura;
Come gl' insegni , nel sublime volo
A mirar aito, a deprezzar la terra.
E quinci porge esemplo a nobilalma.
Ch'aspira al Cielo, e prende’l suolo a scher-
Questo alla rondinella appar simile, [no.
E tra' sassi pendenti in verde speco
Si forma ’l nido di tenace fango.
In cui s’ apre a gran pcn a angusto ’l varco :
Cipselo’l nominò la Grecia antica.
Altri de' volatori han piedi in sorte ;
Ma pur son male acconci al far rapina,
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Ufi POEMI
Ed al cacciar; c '1 nutrimento e l’esca
Cercan nell' aria. Annoverar Tra questi
Si può la rondinella peregrina,
A cui di piedi in vece è 11 basso volo ,
Che vicino al tcrrcn coll’ ale ’l rade;
E quella ancor, eh' è dell' erbose rive
Abitatrice, onde Riparia è detta.
Sono in moli' altre guise ancor diversi
Gli augelli, e di grandezza e di figura,
E vari di color, vari di vita.
D’opere variati e di costumi.
Ora, lasciando addietro i molli modi, [te,
Ond' han le penne scisse, o’ nsieme aggiun-
Quasi di pelle , o di vagina avvolte,
0 fuor di modo pur tenere e molli ;
Dirò ch'altri sian puri ed altri impuri :
Quegl’ Innocenti e mansueti, in terra
Scelgono 'I vitto pur di seme e d'erba;
Questi son vaghi di più fero pasto.
Di cruda carne e d' atro sangue ingordi.
Però |* unghie pungenti e curvo'l rostro
Ebbero ’n vece d’armi, e penne al volo
Più dell’ altre veloci , onde la preda
Sia tosto presa e lacerata in parti.
E non si fa di questi o stormo, o greggia ;
Ma soglion 1 feroci andar soliughi
Alla rapina ; e sol gli accoppia e giunge
Amoroso desio di cara prole.
Gli altri raccolti sono iu vari stormi ,
D’ amica compagnia bramosi e lieti ;
Securi no ; chi li perturba e sparge,
E spesso ancide il predator rapace.
E tali son le semplici colombe,
A cui si prezioso e bel monile
Fa la natura dì colori e d’auro,
E le gru peregrine e i magri storni :
Di questi, altri soggetti a grave impero
Non sono, c'n liberti tranquilla vita
Yivnn quasi con proprie antiche leggi :
Altri banno'l duce, ed ordinati a squadre
Seguon la scorta lor per l' aria a volo ;
Altri son propri abitatori antichi
Del suol nativo ; altri volar da lunge
Sogliono in terra cstrana , e ’n altro clima
Cercar più caldi Soli inuauzi al verno :
Altri ritornan pur co' freddi giorni
Percgriuaiulo alla stagione estiva.
Tornano al fin d'autunno i tordi a volo
Nel tepido confili del verno algente.
Dove son tesi lor ben mille agguati
NeU’inospitc terra : altri gl' inganna
Coll' Infedele insidiosa gabbia :
Alcun gli prende col tenace visco :
SACRI.
E nelle reti alcun gl’ involge e lega.
E la cicogna, ritornando, innalza
l.a primavera le sue verdi insegne.
Altri son della mano a' vezzi avvezzi.
Che dolcemente gli lusinga e moke.
Ed alla mensa del signore usati.
Altri son timorosi : e I dolci nidi
Fann' alcun' altri negli umani alberghi.
Altri selvaggi quasi , e quasi alpestri.
Prendono i luoghi solitari in grado.
Ma gran varietà la voce e '1 suono
Ea ne' volanti augelli . c gran divario.
Altri tacili sono , altri loquaci
Senza musica alcuna e senza canto :
Alcun' altri canori : ad altri insegna
IV assomigliar del suono i vari accenti
l.a Natura maestra , c l'uso e l'arte :
E la pieghevol voce in dolci modi
Inchina ed alza : altri ritrosi, indotti.
Con perpetuo tenore in un sol tuono,
Mandan fuor sempre l' immulabll voce.
E pomposo '1 pavon : superbo '1 gallo :
E la colomba placida e lasciva :
E la pernice perfida e gelosa,
Ch' a depredare I cacciatori aiuta.
Amano alcuni di raccorsi insieme,
E congiunger le forze , e i cari alberghi ,
Quasi in una città comune a tutti,
Sott’ un lor proprio re : l' impero e’1 fasto
Ricusan altri de! signor superbo;
Talché ciascuno a se provvede e pensa.
Sia da quegli'l principio, onde l'esempio
Prendiam per l’uso dell’ umana vita.
Comuni bau Tapi le citladi e i letti
Di molle cera , e le odorate celle :
Comune ’l volo c la fatica e Poppe
Di mlrabil lavoro, e i cari paschi ;
E comune hanno ancor la prole e i figli.
Clic non son nati in doloroso parto,
D'amor lascivo, il qual congiunge c mesce
l.'alTaticate insieme immonde membra;
Ma rolla bocca fuor succhiati c scelti,
Dagli odorali e rugiadosi fiori.
Poi tulle insieme in bella schiera accolte
Sott' un ordine solo , un solo impero
Seguon d' un re , eh’ è venerato a prova.
E non sostiene alcuna uscire a' prati ,
D'erbe vestiti, e di bei fior dipinti.
Se prima'l re non incomincia '1 volo.
E non è questo re per caso eletto ,
0 per Fortuna, che sovente innalza
A somma podestà l' indegno c'1 vile;
Nò per giudizio dell' errante volgo :
Digibzed Ijy.GoOgk
LE SETTE GIORNATE
Nè come erede dell’ antico regno
Degli avi anticbi nel superbo sullo
S'asside, gonfio del paterno fasto,
E ’ntenerito da lusinghe e vezzi ,
Nell’ arti pellegrine incolto e rozzo ;
Ma per natura T nobil regno acquista,
E da natura ha le reali insegne
D’ oro lucenti , onde s’ adorna e splende :
E gli altri dì grandezza e dì figura,
E di costumi mansueti avanza.
£ ben d’aculeo il re pungente armato,
Ma V aculeo non usa in far vendetta ,
Perchè son leggi , non in breve carta,
Od in aride foglie , o ’n frale scorza ,
O ’n durissima pietra impresse c scritte.
Ma da Natura entro le menti infisse;
Ch’ove è più di possanza e di valore ,
Più vi sia di clemenza e di piotale.
Ma qualunque dell’ api il re non segue,
O pur si mostra in ubbidir ritrosa.
Del temerario ardir tosto si pente ,
O di sua tracotanza , e sente ’l colpo :
Fiero gastigo in sò medesmo , ed aspro ,
Che già soleano usar gli antichi Persi,
Dando a sè stessi volontaria morte.
Nlun barbaro re di Persi, o d’ Indi ,
0 di Sarmati pur, o nuovo o prisco.
Con tanta riverenza al regio scettro
Vide inchinarsi i popoli devoti ;
Quanti ne vede nel minuto stuolo
II fortunato re dell’ api industri.
Che l' arme , onde natura T fece adorno ,
Non usa ne’ soggetti e negli umili.
Odan di Cristo i servi, a’ quali è imposto
Che non si renda mai per male il male ,
Ma che nel bene il mal s’ avanzi c vinca ;
Odan deli' api caste il santo esempio ,
Nè d’ imitarlo alcun si prenda a sdegno ;
Cli’ ella nel procurarsi il proprio vitto
Non guasta l' altrui cibo, e noi corrompe ;
Ma di cera si finge 1 dolci alberghi ,
La qual da vari fior! accoglie e mesce.
E pur di fiori l’ ingegnosa , e d' erbe
D’ ogn’ intorno spiranti ’l vario odore,
Ixica alla sua capace angusta reggia
1 primi fondamenti , e sovra asperge
D' umor celeste rugiadose stille :
Liquido prima , e poi tenace e denso.
E con cera sotti] divide e parte
Minutissime celle , a cui di sovra
La somma parte , eh' è pendente c cava.
Fa lestudinl,evolte;e l'unaaU’altra [vre
S’ appressala guisa tal, eh' aggiunte c sce-
DEL MONDO CREATO. H7
La vicinanza lor dislringc e lega
Più forte insieme la tenace mole,
E fa non ruiuoso a lei sostegno;
Sicché può sostenere T dolce peso ,
E ritener che giù non caggia ’l mele.
E ben si mostra l' ingegnosa pecchia
Architetto nell’ opra , e nel lavoro
Maravigiiosa , c saggia e dotta appieno
Di quanto ’J geometra insegna e trova
Perchè formò le celle in giusto spazio
Con sei angoli tutte, e fianchi eguali :
E non per dritto i’ uuo all' altro appoggia.
Ma quelle Infime sedi in guisa adatta
Alle sovrane sue concave parti ,
Che nulla ne patisce ’l sommo e l’imo.
Ma come annoverar potrò narrando
De’ cari augelli le si varie vite 1
L’estrane gru dentro l’adunco piede
Portano ’l sasso, onde si folce, e libra
Tra Paure incerte l'agitato volo.
Mentre ne’ giorni nubilosi e brevi, [bro,
Lasciand’ addietro ’1 Termodonte, o l’E-
Passano i larghi mari , e ’n sull’ apriche
Sponde soglion vernar dell'ampio Nilo.
Tal per savorrainmartra'tentiePonde,
Altre rive cercando, ed altre parti.
Regge ’l suo corso la spalmala nave.
Queste ban di notte sentinelle e scorte ,
Che mentre Patire in placida quiete
Dormon sicure, van girando intorno,
E le notturne insidie , e i venti e Paure
Spian da tutte le parti impigre c pronte.
E poi fornita quella guardia, e ’l tempo
Di lor vigilia, a suon quasi di tromba [no
Dcstan gli addormentati : e gli occhi al son*
Danno per breve spazio : e’ n quella vece
Altri succede al faticoso ufficio.
Una precede l' altre, e quasi avanti
L’ alte insegne precorre : e poi si volge
Nel tempo dato : e la sua sorte e 1 loco.
Che si conviene al duce, altrui concede.
Dimostran molto di ragione e d’ arte
Le cicogne, e ’n tal guisa al tempo istesso
Quasi a spiegate insegne in queste parti
Vengon da più lontano ignoto clima.
E le nostre cornici amica guardia
Lor fanno Intorno, in ampio stuol con-
E son fidatascortaal lungo volo [giunte.
Co nlra la forza de’ nemici augelli ;
Come soglion guerrieri inglesi e scoti ,
0 germani ed iberi uniti In lega.
Ed in quella stagione in loco alcuno
Non ci appar la cornice , o poi ritorna
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148 POEMI
Tinta le piume d’onorate piaghe,
E del già dato aiuto i segni mostra.
Deh ! chi descrisse lor si certe leggi
Di sì pietoso officio ? o chi minaccia
Si grave accusa , o pur sì giuste pene
Achi gli ordini infermi, e ’l proprio loco
Per viilate abbandona in guerra, oin cam-
po?
Quinci prendete esempio, egri mortali:
E l'uomo impari dagli auge! volanti,
Quai degli ospiti sian le giuste leggi :
Nè chiuda avaro albergator superbo
Le dure porte a’ peregrini erranti
A mezza notte, o lor dineghi ’l cibo;
Se per gli estrani augelli i nostri augelli
Non ricusan d’ espor la vita in guerra,
E de* perigli altrui si fan consorti.
E qual altra cagion di fiera morte
In Sodoma versò di fiamme ardenti
Dal Ciel turbato spaventosa pioggia.
Clic la ragion del violato albergo
Sprezzata, e rotta? e quell’ iniquo oltrag-
Ma la pietosa provvidenza e cara, [gio?
La qual delle cicogne è vecchia mastra ,
Destar ben può de’ figli il dolce amore
Verso gli antichi loro e stanchi padri.
Quelle d’intorno al gcnitor languente,
A cui per lunga età cadere a terra
Sogliono i vanni c le minute piume,
Stanno pietose : c le già afflitte membra
E nude di pennute e lieve spoglie,
Scaldano al volator lassato e grave
Soavemente colle proprie penne;
E gli portano ’l cibo, ond’ eì si pasca:
E sollevano ancora c quinci e quindi
Coll’ ale il tardo veglio : e ’n questa guisa ,
Le disusate membra all’uso antico
Già richiamanti, danno aiuto ai volo.
Ma qual fra noi di sollevar I* infermo
Padre non sembra fastidito classo?
Chi n' impone alle spalle il grave pondo,
Quel cli’è creduto nell’ istorie appena?
E non più tosto disdegnoso c schivo
All'altrui braccia le caduche membra
Commette, e ’l mal locato officio a’ servi ?
Ora prendiani lodato c caro esempio
Di materna pietate , e non si dolga
Di povertatc, o di miseria alcuno,
Nè della vita sua disperi c pianga;
Mentr'ei riguarda ’l magistero e l’opra
Della pietosa rondinella industre.
La rondinella di minuto corpo.
Ma di sublime egregio, e chiaro afletto
SACRI.
Povera e bisognosa, *1 proprio nido
Ella medesma pur compone e finge ,
Prezioso vieppiù di gemme e d'auro.
Perchè d’ogni tesoro è vile ’l pregio
Allato a quell'albergo, in cui s’annida
La sapienza ; e ben è saggia e scaltra
Menlr’ella del volar mantiene e serba
La vaga liberiate : e nutre e pasce
I pargoletti, ancor teneri figli.
Sicuri dall’ insidie e dagli assalti
Degli altri augei, sotto i sublimi tetti.
Là dove l’uom ricovra : e per usanza
Al conversar uman così gli avvezza.
È’ mirabile ancor l'ingegno e l’arte,
Ond* a sè stessa le sue proprie case
Fa senz'aita d’architetto o fabbro;
E le festuche pria prepara e sceglie,
E le cosparge di tenace fango.
Per congiungcrlc insieme; e se co' piedi
Non può in alto portar tenero limo,
I/ali d’acqua si sparge, c poi di polve
Arida e leve; ond’ ella fa di nuovo
La fangosa materia all'umil casa.
Con questa, quasi colla, aggiunge insieme
Le già scelte festuche, e di lor forma
II nido a’ figli : a cui se gli occhi accieca
Pungendo, alcuno; ella ’l perduto lume
A’ ciechi rende colla medie’ arte.
Or chi di povertà si lagna e plora.
Miri la rondinella : e grazia speri
Da quel Signor, eli’ a lei sì larga dote
Diede, e sì ricco don d’ arte e d’ ingegno :
Onde di povertatc e di fortuna
Ogni sciagura, ogni difetto adempie
In sì lodata e sì felice inopia.
L'alcione, del mar picciolo augello.
Forma di palla in guisa ’l dolce nido
D’arido fior, clic ’l mare in sè produce;
E i pargoletti figli a mezzo 'I verno
Dalla tenera scinde e frale scorza
Nell’arenoso lito, in cui depone
Dell' ova ’l caro suo portato peso.
E questo avvien , quando da fieri venti
11 Marc a terra si percuote e frange:
E biancheggiando di canuta spuma
Sparge le molli arene, e i duri scogli.
Dell'alcione al desiato parto
È sopito ’l furor d’orridi venti ,
Son quetc Tonde tempestose, e ’ntorno
Sgombre le nubi , e serenato ’l ciclo :
In sì tranquillo c sì felice aspetto
De’ fidi augelli alla progenie arride:
E ’n sette prima di sì lieti giorni
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t
LE SETTE GIORNATE
Suol covar l’ uova la pennuta madre.
Negli altri sette uutre i nati figli.
Ed a questi ed a quelli ha’mposto’l nome
Dall'alcione *1 navigante esperto :
Ed al candor di lucido sereno
Da tutti gli altri gli distingue c segna.
Questo ci rassicuri c ci conforti ,
Perchè chiediamo a Dio le grazie e I doni ;
Lo qual, se’» grazia d’un minuto augello
L’orribil placa, e grande c vasto mare.
In mozx’ al tempestoso ed aspro verno,
K lo ritiene, c il fa tranquillo e piano;
Clic farà, s* egli intende al nostro scampo?
0 se provvede airuont, suo figlio eletto,
Di sua divinità sembiante inimago?
La lortorclia dal suo amor disgiunta.
Non vuol nuovo consorte e nuovo amore ;
Ma solitaria c mesta vita elegge
Jn secco ramo, c ’i» perturbalo fonie
La sete estingue : c de! marito estinto
Cesi ri ninna la memoria amara.
A lui sua castità conserva c guarda
A lui di moglie ancora ’l caro nome;
Perché solvcr non può l’iniqua Morte
Le sanie leggi di vergogna , e i patti ,
A cui s’astrinse volontaria in prima.
Quinci la vedovella esempio prenda ;
Nè baldanzosa alle seconde nozze
S’ affretti, e tuffi nell’ obblio profondo
L’amor suo primo e la sua prima fede.
L’aquila in allevar la nobil prole
È vieppiù d’altro disdegnosa e ’ngiusta;
Chè di tre figli i due percuote , e scaccia
Con gli aspri colpi de’ suo’ duri vanni ;
E ’l terzo alleva , a cui non inanelli ’l cibo,
Che suol rapire ’l predator volante;
E forse altra cagion più bella e giusta,
Non avarìzia del nutrir la spinge
Ma severo giudicio , onde riprova
l'eoo)' a lei non convenga) indegno parto :
Perchè volge l suo’ figli inverso ’l Sole ,
Sospesi in aria nell’ adunco artiglio:
E quel che non dechina a’ raggi ardenti
La ripercossa vista c '1 debil guardo,
Ma ’ntrepido nel Sol l’ affisa e ferma,
E scelto a prova, e gli altri abborrc e sde-
(Pur com’ indegni di reale onore) [gna
Con quel suo generoso e gran rifiuto.
Ma gli scacciati entro ’1 suo nido accoglie
Quella che rompe 1* ossa, e quinci ’l nome
Prende , od aquila sia bastarda , e nata
Di gcnitor deforme, od altro augello:
Nè gli lascia perir d’orrida fame.
DEL MONDO CREATO. 149
Ma co’ suo’ figli lor nutrisce e serba.
E tali son quei duri acerbi padri ,
Cli' espongono i bambini , o sono iniqui
Nel compartir fra’ suoi l’avere e l’esca
E tutti quel, ch’hanno l’artiglio adunco,
Allorcli’i figli timidelti ’l volo
Tentali primiero, c spiegan l’ale appena
Con mal sicure ancora e ’nccrte penne.
Gli spingo» tosto dal paterno nido ;
E s’ alcuno al partir è tardo o lento ,
Coll’ ali sue percosso e ripercosso
Precipitando ’l caccia ’l fiero padre.
Ma verso i figli suol l’amore e ’l zelo
Della cornice assai di laude è degno.
Clic ’n atto di pietosa e fida madre
Raffrena nel lor primo ardito volo
I.a debil prole, e lor ministra ’l cibo
Lunga stagion, perchè s’avanzi c cresca,
E molti sono ancora, e vari augelli.
Cui non fa d’uopo, in generare, il maschio,
Come gravidi sia» di vento c d’aura.
Ma son poscia infecondi i nati figli ,
Nè fan perpetua la ventosa prole
D’ Euro i nipoti, o pur di Noto e d’Austro.
Ma senza mescolarsi , c senza coppia
Di maritale amor concepc e figlia
L* avvoltar, clic sì tardi a morte giunge;
Meraviglioso al mondo, c raro mostro,
Che col secolo suo la vita agguaglia.
Or se deride alcun gli alti misteri
Della nostra divina invitta Fede,
Nè creder può che da virginei chiostri
Dell’ intatta Regina il Figlio uscisse.
Di sua verginità servando ’l fiore;
Miri qual dia famoso c reno esempio
Alle cose divine alma Natura :
E quel che può nell’ aria augel volante,
Possibil creda a Dio , che puote ’l tutto.
E i medesml avvoltoi presagio e senso
Hanno quasi divino, ond’è prevista
De’ guerrieri la morte; anzi talvolta
Sogliono accompagnar Tarmate squadre,
Antivedendo la sanguigna strage
Dell’ orrida battaglia , c ’l fin dolente.
Ma chi potria delle locuste appieno
GII spaventosi eserciti narrarti?
Ch’ ad un quasi di guerra orrìbil segno
Sogliono a schiere sollevarsi In alto ,
Ed accamparsi , ed ingombrar d’intorno
Quant’ è largo ’l paese , c i dolci fruiti
Pria non toccar, clic dal sovrano impero
Lor sia permesso ’l depredare i campi?
Debbo anco dir, come al meriggio estivo
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ISO POEMI
Le canore cicale 1 verdi boschi ,
Quasi nel petto avendo interna lira,
Faccian sonar con que' continui accenti?
0 come ’ncontro al Sol ripari e schermi
DI luoghi (enebrosi , c d' ore tarde
Cerchi l’ auge! , che dall’ antica Atene
Alla sua Diva fu nutrito, e sacro?
E com’ el solo Infra gli augei volanti
Adopri I denti , e In quattro pie si fermi ?
Benché due n’abbia l’alfricano augello,
Ch’ ha si gran corpo , e di sì grave peso ,
Sovra due tanto egli ’l leggero appoggia ,
E l’ali sue quasi di cuoio spiega:
E come penda l’un dall'altro avvinto,
Quasi catena Inanellata e lunga:
E ’n questa guisa pur Natura insegni
Di seambievol amore i fermi nodi :
E come gli occhi dell’ auge! notturno
Sian somiglianti ad uom, che tutto intenda
D’umana sapienza a' vani suiti] ?
Perchè di quello iu lenebroso orrore
La vista è forte, e poscia ha lumi infermi,
Laddove ’l Sol le tenebre disperda.
Cosi di questi appare acuto ingegno
Nei vano contemplar; ma in vera luce
La dehil mente imbruna, e tutta adombra.
Debbo anco dir, come ti svegli all’ opre
Di canoro aogellin l’acuta voce, [desta
Che (unge intuona, c ’l Sol richiama, e
Il peregrin, e ’l buon cultor ne’ campi,
L' uno al suo faticoso aspro viaggio ,
L’altro a secar le gii mature spichc ?
0 dir come ne rompa ’l dolce sonno ,
E n'invili a vegghiar con fida guardia
Conira l’ insidie d’ avversario antico
Il tardti augei , che già sottrasse al risco
La gran citta , del mondo alta regina,
A lei scoprendo la notturna fraudo ,
E ’l barbaro crude! ned’ ombra occulto,
Cile per oscure vie saliva in alto
A quel suo trionfale altero monte ,
Ove gii sorse in maestate augusta
Alta rocca ali' imperio, a Giove il tempio?
0 descriver degg’ io del bianco cigno
Il divino presagio, e ’l dolce canto.
Anzi l’ antiveduta c lieta morte?
Onde l’ alma humnrtal s’ affida , e spora
Farsi Ut sovra ’l Liei per grazia eterna.
0 del verme Indiano , a cui natura
Mirabilmente fa le corna e l'ali,
Espor si varie e si cangiate fonile ?
Però, voi, che sedendo, illustri donne.
Tessete c ritessete in tronchi e ’n Bori ,
SACRL
E ’n pià maral igliosc altre figure
Prezioso lavoro , e cari slami ,
Da (unge a voi mandati insln dagl’ Indi ,
Per adornar di vaga e molle veste
Le care membra; voi, nell’opra, o donne.
Dovete richiamar nell’ alta mente
Quel ch’altre volle ragionare udiste.
Che risorger dobbiam , ripreso ’l manto
Di nostra umanitate, e farci eterni.
Tutte vestile allor dì luce e d’auro
Risponderete al Sol , che Palme illustra.
Assise in gloriosa ed alta sede,
E d’ altro ornate che di perle e d’ ostro.
Or a le mi rivolgo, e tu supremo
Fra gli altri onore avrai negli alti carmi ,
immorlai, rinascente, unico augello:
E questo lia quasi odorato rogo
Di chiare laudi , in cui la fama antica
Si rinnovi nel mondo, e Pali spanda,
E per questo sereno e puro cielo
Lieta si spazi c gloriosa a volo ,
A scherno avendo ornai gli arabi monti.
Dio, fra gii altri dipinti e vaghi augelli ,
Quel di, che prima dispiegar le penne
Per Paria vaga al suoli dell’alta voce,
Fe’ la fenice ancor, come si narra ,
Se pur degna di fede è vecchia fama.
E ’n si mirahil forma il Padre eterno
Di mortai , rinascente , unico augello
Figurar volle quasi in raro esempio
I,’ immortai , e rinato , unico Figlio ,
Che rinascer dovea , come prescrisse.
Quanti’ ei ne generò P eterno parto.
Loco è nel più remoto ultimo clima
Dell’ odorato e lucid’ Oriente,
Là dove P aurea porta al elei disserra [no.
Uscendo ’l Sol , che porta in fronte ’l gior-
Nè questo loco è già vicino all'Orto
Estivo, o pur ali’ Orto, onde si mostra
Il Sol cinto di nubi a mezzo ’l verno ;
Ma solo a quello, ond’ ei n’ appare, ed esce
Quanti’ i giorni e le notti insieme aggua-
tai si stende negli aperti campi [glia.
Un larghissimo pian : nè valle , o poggio
In quell'ampiezza sua tlcchina, o sorge.
Ma quel loco è creduto alzare al cielo
Sovra i nostri famosi orridi monti
Sei volte e sci la verde ombrosa fronte.
E quivi senza luce al Sole è sacra
Opaca selva : e con perpetuo onore
Di non caduche fronte è verde ’l bosco ,
Che P ondoso Ocean circonda intorno.
E quando dell’ incendio i segni adusti
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LE SETTE GIORNATE
Nel del lasciò nel carreggiar Fetonte ,
Seeoro ’l loco fu da quelle fiamme.
Eqnando giacque in gran diluvio 'I mondo
Sommerso , ei superò le orribili acque.
Nè giungon quivi mai pallidi morbi ,
Opur l'egra Vecchiezza, oT empia Morte ;
Non cupidigia , o fame infame d' oro ,
Noti scellerata colpa , o fiero Marte ,
0 pure insano amor dì morte iniqua.
Sono l' ire lontane, e 1 duolo e ’l lutto,
E Povertà di orridi panni involta,
E i mal desti pensieri , c le pungenti
Spinose enre, e la penuria angusta.
Quivi tempesta, o di turbato vento
Orrida forza ’l suo furor non mostra.
Nè sovra i rampi mai l’ oscure nubi
Steudono ’l negro e tenebroso velo ,
Nè d’ atto cade Impetuosa pioggia ;
Ma ’n mezzo mormorando in vivo fonte
Lucido sorge e transparente e puro,
E d'acque dolci e cristalline abbonda:
E ciascun mese egli si versa e spande ,
Talché dodici volte ’l bosco irriga.
Quivi alza rami da sublime tronco
Arbor frondosa, e non caduchi e dolci
Pendono i pomi tra le verdi fronde.
Tra queste piante, e ’n quella selva alberga
Appresso ’l fonte l'unica Fenice,
Che della morte sua rinasce c vive :
Augello eguale alle celesti forme ,
Che vivace le stelle adegua , c *1 tempo
Consuma, e vince con rifatte membra.
E come sia del Sol gradita ancella,
Ha questo da Natura officio e dono ,
Che quand' in cielo ad apparir comincia
Sparsa dì rose la novella Aurora,
E dal eie! caccia le minute stelle ,
Ella tre volte e quattro in mezzo all' acque
Sommerge’l corpo, epnr tre volte equat-
Liba quel dolce timor del vivo gorgo, [tro
Poscia a volo s’ innalza , e siede in cima
Dell’arbore frondosa, c quinci intorno
La selva tutta signoreggia e mira :
Ed al nascer del Sole indi conversa,
Dei Sol già nato aspetta i raggi c ’l lume.
Ma poiché l’aura di quel lurid'auro.
Onde fiammcggia’l Sol, risplende espira,
A sparger già comincia ’n dolci modi
Il sacro canto : e la novella luce
Colla mirabil voce affretta e chiama;
A cui, voce di Cinto, o di Parnaso
Dolce armonia non si pareggia in parte.
Nè dì Mercurio la canora cetra
DEL MONDO CREATO, lì)
L'assembra, nè morendo ’lbianco cigno.
Ma poiché Febo del celeste Olimpo
Trascorre i luminosi aperti campi ,
E per quell’ ampio cerchio intorno è v oito.
Ella tre volte ripercossa al petto
L’ ali d’ oro e dipinte , al Soie applaude
Con non errante suon tannile e 1 giorno.
E la medesma ancor parte e distingue
L’ ore v eloci , e queir accesa fronte ,
Venerata tre volte, alfin si tace.
Pur come sia dei sacro oscuro bosco ,
E di que’ tenebrosi ed alti orrori
Sacerdote solinga , a cui son conti
I secreti del Orlo e di Natura :
Però di riverenza e d' onor degna.
Ma poi , fomiti cento e cento lustri.
Nella vetusta età più grave e tarda ,
Ella , che già passare a volo i nembi
Poteva c le sonore alte procelle ,
Per rinnovar la stanca vita e ’1 tempo
Chiuso e ristretto pur da spazj angusti ,
Kugge del bosco usato il dolce albergo.
E di rinascer vaga , i lochi sacri
Addietro lascia , e vola al nostro mondo,
Ov’ha suo' regni l'importuna Morte.
E già drizza Invecchiata ’l lento volo
In quella di Soria famosa parte,
A cui died' ella di Fenice ’l nome.
E di selve deserte ivi ricerca
Per non calcate vie secreta stanza ,
E si ricovra nell’oscuro bosco.
Ed ailor coglie deli' aereo giogo
Forte palma sublime, a cui pur anco
Comparti di Fenice 1 caro nome ,
Cui romper non potria co' feri denti
Serpe squainmosa, o pure aitgel rapace,
Od altra ingiuriosa orrida belva.
E chiusi ailor nelle spelonche 1 sentì
Taccion fra’ cavernosi orridi chiostri,
Per non turbar co’ lor torbidi spirti
Del bell' aer purpureo ’l dolce aspetto.
Nè condensato turbo 1 vani campi
Del del ricopre , ed al felice augello
Toglie la vista de’ soavi raggi.
Quinri ’l nido si fa : sia nido, o tomba
Quello in cui pere, acciò rinasca e viva
L’ augcl , che di sé stesso è padre e figlio,
E sè medesimi egli produce e cria.
Quinci raccoglie detl’ antica selva
I dolci succhi , e' più soavi orlori ,
Che scelga ’l Tiro, o l’Arabo felice,
0 Pigmeo favoloso , od Indo adusto .
0 che produca pur nel molle grembo
J52 POEMI
De’Sabei fortunati aprica terra.
E quinci l’aura di spirante amomo,
Colle sue canne ’l balsamo raguna ;
Nè cassia manca, o l’odorato acanto,
Nè dell’ incenso lagrimosc stille ,
E di tenero nardo i nuovi germi ;
E di mirra v'aggiunge i cari paschi;
Quando repente ’l variatili corpo,
E le già quote membra alluoga e posa
Nel vital letto del felice nido:
E nel falso sepolcro ardente cuna
Al suo nascer prepara anzi la morte.
Sparge poi colla bocca 1 dolci succhi
Intorno, c sovra alle sue proprie membra.
Ivi l’ esequie sue si fa morendo:
E deboi già con lusinghieri accenti
Saluta ’l Sole, anzi l’adora e placa:
E mesce umil preghiera all'umil canto,
Chiedendo i cari incendj , onde risorga
Col nuovo acquisto di perpetua forza.
Fra’ vari odori poi l’alma spirante
Raccomanda al sepolcro ; c non paventa
L’ardita fede di sì caro pegno.
Parte di vital morte ’l corpo estinto
S’ accende, e l’ardorsuo Gamme produce,
E del lume lontan concepe’l foco,
Ond’egli ferve olirà misura, e flagra ,
Lieto del suo morir, perchè veloce
Al rinascer di nuovo egli s’ affretta.
Splende quasi di stelle ardenti ’l rogo ,
E consuma’! già lasso c pigro veglio.
La Luna’l corso suo raffrena e tarda,
E par che tema in quel mirabil parto
Natura faticosa c stanca madre.
Che non si perda l’immortale augello;
Ma di gemina vita in mezz’ai foco
Posto in dubbio confin distingue e parte.
Nelle ceneri aduste alfin converso,
Le sue ceneri accolte egli raduna
In massa condensate , e quasi iu vece
È l’occulta virtù d’interno seme.
E quinci prima 1* animai ci nasce,
E ’n forma d’ ovo si raccoglie ’n giro ,
Poi si riforma nel primicr sembiante :
E dalle nuove sue squarciate spoglie
Alfin germoglia l’ immorta! Fenice.
Già la rozza fanciulla a poco a poco
Si comincia a vestir di vaga piuma.
Qual farfalla talvolta, a’ sassi avvinta
Con debil filo, suol cangiar le penne.
Ma non ha per lei cibo ’l nostro mondo :
Nè di nutrirla alcun si cura intanto;
Ma celesti rugiade intanto liba;
SACRI.
Dall' auree stelle e dall’argentea Luna
Cadute in cristallina e dolce pioggia.
Queste raccoglie, e fra ben mille odori ,
Sin che dimostri ’l suo maturo aspetto
Nelle cresciute membra, indi si pasce.
Ma quando giovinetta ornai fiorisce.
Fa ritorno volando al primo albergo.
E quel ch'avanza del suo corpo estinto
E dell’ aduste e ’nceneritc spoglie.
Unge di caro ed odorato succo ,
In cui balsamo solve, incenso e mirra,
E con pietosa bocca indi l’informa,
E tondo ’l fa : siccome palla, o spera:
E portandol co’ piedi , al lucid’ orto
SI rivolge del Sole, c ’l volo affretta.
E l’accompagna innumerabil turba
D’augei sospesi, e lunga squadra c densa ;
Anzi esercito grande intorno intorno
Fa quasi nube, e ’l volator circonda.
Nè di tanti guerrieri alcuno ardisce
Al peregrino duce andare incontra;
Ma dell’ardente re le strade adora.
Non il fiero falcone ardita guerra
Gli move , o quel eh’ i folgori tonanti
(Cotn’ è favola antica) al ciel ministra.
Qual le sue barbaresche orride torme
Scorgea dal fiume Tigri il re de’ Parti ;
Di preziose gemme , e d’ aurea pompa
Altero, e di corona ’l crine adorno,
Purpureo ’l manto , eli’ è dipinto e sparso
Dal lago di Soria di perle e d’oro ,
E col fren d’ oro al suo destricr spumante
Regger soleva ’l polveroso corso
Per le città d’ Assi ria alto c superbo ,
Ov* ebbe fortunato ed ampio impero :
Tale ancor va , meraviglioso in vista,
L’augel rinato, e con reale onore
E reai portamento i vanni ei spiega.
Il color è purpureo , onde somiglia
Il papavero lento, allorch’ al cielo
Le sue foglie spargendo, al Sol rosseggia.
Di questa quasi velo a lui risplendc
Il collo , la cervice, il capo e ’l tergo.
Sparge la coda, clic di lucid’ oro
Rassembra e d’ostro poi macchiata e ti nta.
Nelle sue penne ancora orna e dipinge.
Pur come in rugiadosa e curva nube.
L’arco celeste , in cui si varia c mesce ,
Verdeggiante smeraldo a’ bei vermigli,
Ed agli altri cerulei e bianchi fiori.
Ha duo grand’ occhi, eguali a duo giacinti,
E riluce da lor vivace fiamma ;
E pur gemma somiglia ’l rostro adunco.
LE SETTE GIORNATE
La testa le circonda egual corona ,
Come la cinge al Sol co* raggi ardenti.
Son le gambe squammose, e d’or distinte,
L* unghie rosate, e la sua forma illustre
Tra quella del pavon mista simiglia ,
E dell* augel che *n riva al Fasi annida.
Grande è cosi eli* appena augello, o fera
Nata in Arabia sua grandezza agguaglia ;
Pur non è tarda , ma veloce e pronta,
E con reale onor nel ratto volo
La reggia maestate altrui dimostra.
Del verde Egitto una citiate antica
Ne’ secoli primieri al Sol fu sacra :
Quivi sorger solca famoso tempio
Di ben cento colonne altero e grande,
Già svelte dal tebano orrido monte;
E quivi, com’è fama, il ricco fascio
Ripor solea sovra i fumanti altari :
E *1 caro peso, destinato al foco,
Alle fiamme crcdca ire volte e quattro,
Adorando del Sol 1* ardente iminago.
Fiammeggia *1 seme acceso, e ’l sacro fumo
Con adorate nubi ondeggia c spira,
Talch’egli aggiunge agli stagnanti campi
Di Pelusio; e spargendo odori intorno,
Di sè riempie gli Etiopi e gl* Indi.
Meravigliando alla mirabil vista
Traggc l'Egitto, c *1 peregrino augello
Lieto saluta, e festeggiando onora
Repente : e la sua forma in sacri marmi
Scolpita, è in lor segnato *1 nome e*l gior-
O fortunato, e di te padre e figlio, [no.
Felice augello, e di te stesso erede.
Nutrito e nutritor, cui non distingue
Il vario sesso e lunga età vetusta
Non manda, come gli altri , al fine estremo :
Nè Venere corrompe, o *1 suo diletto
Non cangia indebolito, e vati dissolve :
Cui di Venere in vece è lieta morte,
Onde rinasci poi l' istesso ed altri,
E colla morte immortai vita acquisti.
Tu , poiché la vecchiezza i mari e i monti
Cangiato ha quasi, c varialo *1 mondo,
Perpetuo ti conservi, c quasi eterno,
A tc medesmo ognor pari c sembiante.
E tu se’ pur del raggirar de’ tempi ,
E de* secoli tanti in lui trascorsi ,
Di tante cose e di tant’ opre illustri
Sol testimonio, o fortunato augello :
DEL MONDO CREATO. 153
E felice vieppiù, perch’a noi mostri,
Quasi in figura di colori e d’auro,
L' unico Figlio del suo padre Iddio,
Dio, com’ è *1 padre a lui sembiante e pari.
E la Natura col tuo raro esempio
Insegna pure all'animosa mente
(S’ella dubita mai) com’Ei risorga
Dalla sua morte, c dal sepolcro eterno.
E benché nostra pura e’nvitta fede
Abbia lume più chiaro onde c’ illustri.
Te non disprezza, e con perpetuo onore
Il tuo bel nome al suo Fattor consacra,
Cli* è sommo Sole, ond* ha sua luce il
Soie.
Fallo avea tutto ornai gli umidi campi ,
Ch* agitar suole *1 vento obliquo, o l’ onde,
Co’ propri abitatori il Padre eterno,
S’ abitatori pur dell’ aria vaga
I volatori augelli, e non più tosto
Son della terra, ond’ hanno ’l cibo e ’l volo ;
Quand’ egli vide *1 suo lavoro e l’opre
Tutte esser buone, c gli animai feroci
Buoni pur anco : e sua bontate impressa
In lor, qual nota del suo Mastro o segno;
Però gli benedisse. E ’n questa guisa
Disse : Crescete; e numerosa prole
Tutte Tacque riempia, e ’n sulla terra
In gran numero ancor s’ avanzi c cresca
Ogni progenie de’ volanti augelli.
E della santa voce il santo impero
Ancora è certa e ’nvlolabil legge.
Perchè dopo tanl’anni c tanti lustri;
Tanti secoli, a volo ornai trascorsi
Da’principj del mondo a quest’estrema
E tarda etate, in cui s’appressa *1 fine ;
Nè progenie di lor, nè fera stirpe,
0 per diluvio, o per Incendio ardente,
0 per lunga mortale orrida peste,
0 per lor feritale, o per T insidie
D’ umano Ingegno, o per P orribil armi
Estinta non rimase, o scema unqnanco ;
Ma quasi eterna si perpetua c serba.
Tanta della divina c santa Voce
E la virtù che lor difende c guarda ;
Perchè sia appieno e ’n ogni parte adorno
Questo che tutti abbraccia e tutti accoglie
Nell’ ampissimo sen, capace mondo.
Cosi fu fatto; ed al mattino il vespro
Giungendo, impose fine al Quinto Giorno.
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154
POEMI SACRI.
GIORNATA SESTA.
Nella quale creò Dio ogni specie di Bruii e l'Uomo.
Là dove innalza '1 celebrato Olimpo,
Creduto degli Dei lucente albergo,
Sovra tutte te nubi, c sovra i venti
Nell’aria quota la serena fronte,
E dove Alfco nelle sue Iucid' onde
Portar solea già l’ onorata polve
De’ vincitori, a coi le membra asperse.
Propose i vari prenij a' giuochi illustri
L'antica Pisa : e i più veloci c i forti
Vide sovente in dubbia lotta, o ’n corso
Affaticati : e i cavalieri e i cai ri
Colle fervide ruote all’ alla meta
Girarsi intorno, e ’n varie altre contese
Ricercar pregio e fama e chiaro grido :
E vide a prova ancor sublimi ingegni
Far di sè paragone, e ’n dolce canto,
0 con soave pur faconda liìigua
Gli udì maravigliando; e ben conobbe
Che pari non arca mercede o palma :
Ma 1 primi di nelle tenzoni antiche
Talvolta scn (lassar dubbiosi e ’ncerti
Senza corona, e sol nel giorno estremo.
In cui maggior fu la fatica e ’l risco
Del contrastare, o ’l vergognoso scorno
DI ceder vinto, diede i cari pregj
Fermo giudicio al vincltor felice :
E rimbombar d’ intorno il cliiaro nome
Udissi al suon della canora tromba.
Ma in questo quasi agone e quasi campo
Di sapienza, ov* adoriamo assiso
In altissima sede, a Dio sembiante.
Quel, cui permise ’l giudicarne in terra
Giudice non severo, anzi clemente ;
Più sollecita cura, e più gravosa.
Cura incerta d’ onor ne preme e ’ngombra
Nel giorno estremo, e nell’ estremo corso ;
In cui di faticosa aspra contesa
Quasi corona, o premio è posio innanzi,
Dura pena all* incontro altrui minaccia.
Già non è pari’l giuoco, e pari ’l frutto
Tra quel che lotta col nemico, o canta
Al dolce suon delle sonore corde,
E’1 mio (se lece dir) contrasto indegno;
Gli’ ivi ’l periglio è sol fastidio e scherno
Degli udi tori : e ’n questo è danno e morte.
Amici, adunque a me pietoso aiuto
Date, vi prego, e quasi lena e spirto :
E di par meco entrate in quest’ adorno
Maraviglioso, grande, ampio teatro
Delle cose create; in cui mirando
Il magistero del gran Padre eterno ,
Quasi per gradi alziam la pura mente
All’ invisibil suo felice Regno,
Ove gli ultimi premj altrui rìserba.
Nè già ricerco io qui verde ghirlanda
D’allor frondoso, che si sfronda, e perde
In breve tempo la vaghezza e ’l pregio :
0 di pallida pur famosa oliva.
Qual da' gran fonti già del gelìd’ Istro
La riportò d’ Anfitrione il figlio;
Ma sieno 1 pregj miei salute e pace
In terra, e più negli stellanti chiostri.
Intanto a voi questa corona eccelsa
È posta innanzi, e voi medesmi al vostro
Puro giudicio di lodevol opra
Bramo di coronare. Udite adunque
Con pietosa udienza, o fidi amici.
L’aspra natura dell’ estranio belve.
Dell’ umil gregge e de’ terreni armenti,
E dell’ uom, cui di terra il Padre eterno
Creò dasezro, c da principio umile,
Formollo imperioso a scettro, a regno,
E di vita immortai ; se propria colpa
Non era a lui di faticoso esigilo
Dura cagione, e d’odiosa morte. [Gelo
Poich’ebbe ’l grande Iddio spiegalo ’l
Sovrano, c stesa ancor l’ infima terra,
E fermato ’l ritegno in mezz’all’acque,
Che sovra c sotto le distingue e parte ;
E comandalo che s* aduni insieme
Quella Natura instabile e vagante :
E imposto al mare ed alla terra ’l nome,
E l’arida di piaute ornata e d’erbe;
Indi si volse a far più bello ’l Mondo,
E died’al giorno ed all’ algente notte
I duo’ lumi maggiori e più lucenti,
E tutti variò di stelle e d’ auro
Con diverse figure e vaghi giri
I primi corpi, e con perpetue tempre
Maravigliosa fé’ la vista, e ’1 corso.
Poscia prodotti entr’ all’ondoso grembo
Dell’ acque amare e dolci i vari pesci,
E nell’ aria i volanti e levi augelli ;
Disse Dio Creator (e ’l sacro detto
Fu certo impero, c ’nvlolabil legge)
L* anime de’ viventi ancor produca
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LE SETTE GIORNATE
D’ogni sorte la terra, e ’n quattro piedi
Altri appoggi ’l corporeo c grave pondo
Altri nel suol disteso ’1 porti e serpa :
E la progenie anco produca, e figli
Di quali nque altro va rependo, e insieme
Colle fere produca armenti e gregge.
Cosi Dio fece le terrene belve,
E le cornute, o pur lanose marni re
De7 mansueti, e quei ch’ai suol congiunti
Strisciando se u’ andar col giro obliquo.
Dunque animata è quest’amica Madre?
Dunque anima ha la Terra, oud’ ella al par-
Quasi femmina, fu bramosa e pronta ? [to,
E loco han pure 1 Manichei superbi
Di saper vano, c le menzogne antiche
Di chi filosofando c mente e spirto
Died’ a questa mondana ed ampia mole?
Lo qual per enlr’a lei trapassa e spira.
Confa lor parve, e ’l cielo e l’ima terra;
E la spera del Sol lucente e vaga,
E ’l globo della Luna, e l’ auree stelle;
E dell’aria e del mare i larghi campi
Nutre, e misto al gran corpo in vari modi
Muove agitando le diverse membra?
Ma chi vestire osò d’alma spirante
La terra, o volle dar sua mente al mondo,
E farlo Dio, non che spirante e vivo
Animai, che luti’ altri accoglie in grembo ;
Male intese di Dio que’ sacri detti,
E ’n peggior parte la sentenza torse.
Perdi’ alma non avea l’arida terra;
Ma chi le comandò, largille ancora
La virtù di produrre i nuovi parti.
Nè quando detto fu : Germogli ’l fieno,
E ferace di frutti il verde tronco;
Ella ’l produsse alior, siccome occulto
Il si tenesse nel profondo seno : [elee.
Nè palma, o quercia, o l>cl cipresso, od
Pur come ascoso dal fecondo ventre
Dì fuor mandò sovra l’ inculto suolo;
Ma delle cose, che si fanno, o fersi,
E il divino parlar natura e vita.
Dunque quando ’l Signor disse : Germogli;
Intese in sua divina alta favella : [bo,
Non cacci fuor quel che raccoglie In greni-
Ma quel eh’ ella non ha, di nuovo acquisti;
E la forza a lei diede il Padre eterno.
E ’n questa guisa or le comanda, e dice :
Produca l’alma; c non dell'alma innata
Intender vuol, ma di virtù largita
Colla mirabil sua divina voce. [so;
Ma non comanda all* acque al modolstes-
Sol l’impone il produrchi serpe e striscia
DEL MONDO CREATO. 1S&
Coll’ alma viva : od alia terra impone
Che partorisca P anima vivente.
E cosi disse Dio, se dritto estimo,
perchè nell’ acque agli umidi notanti
Compartir volle men perfetta vita;
E men degna natura : e quinci avviene
Ch’ entr’ al denso elemento, e ’rnpuro emi-
Abbian via men acuti e puri i sensi, [sto
Grave è l’ udire, e ’l lor vedere ottuso,
E memoria non hanno, c non s’imprime
Nel senso interno immaginata immago.
Nè contezza è fra loro, o per lung'uso
Notizia alcuna, onde ’n si rozza vita
La carne, e ’l ventre signoreggia e regna.
Ma ne’ terrestri Imperatrice e donna
E P alma in guisa, ebe talor si crede
Che di ragione e d* immortale ingegno
Eli’ abbia larga partee ricca dote.
Interi i sensi, c ne’ presenti oggetti
Acuti sono, c del passato impressi
Alti vestigi, c non dubbiose, o ’nccrte
Son le memorie ; e lor virtù non (angue.
E colla voce non oscura i segni
Sogliono dar de’ loro interni affetti.
E quinci ’n lieto, o ’nsuon dolente c mesto.
L’allegrezza si mostra, o ’J duolo appare,
0 di cibo ’l desio di fuor si scopre,
0 rimbomba Pamor ch’entro gl' iniìamnia,
E non può starsi in fero petto ascoso
Sotto tenera lana, o duro ed aspro
Ispido vello : onde *1 belar dell’agno,
E ’l nitrire e ’l ringhiar son quasi note,
E ’l latrar, 1* ululare in monte c ’n bosco,
0 pur lungo un corrente e chiaro fiume
E ’l muggir e ’l ruggir, d’affetto interno.
Mill’ altri affetti ancor con mille voci
Suol variando dimostrar Natura.
Dall’ altra parte, degli ondosi regni
L’errante abitator non solo è muto,
Ma immansueto, e dall’ usanza abborre
Dì nostra vita, e per lusinga o vezzo
Mai non s’ avvezza, e nulla apprende, o
prende
Di nostra umanità : ma schiva e fogge
D* esser consorte all’anima che regna.
In questa guisa Dio creò nell’ acque
Corpi animati, e nella terra ei volle
L’ alme crear, da cui si regge *1 corpo.
Quinci ’l suo posscssor fu nolo al bve.
Conobbe P asine! l’ umil presepio
Del suo signor ; ma non conobbe ’l pesce
Il nutritor : tale entro P acque, e tanto
Fu lo slupor dì tardo e grave scuso!
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i SC POEMI
(Conobbe P asine! l’usata voce,
E conobbe la via eh* egli trapassa,
E fu duce talora all’ uomo errante
Nell’ incerto seiitier, ond’ ri travia.
Nè di più acuto udire, o più sottile
(Se’l ver si narra) altr’ animai terrestre
Vantar si può soli' a si rozze membra;
Ma nel cammello portatore estrano
Di graii pesi, ed Affricati deforme,
È dell* ingiurie alta memoria c salda,
Ed ira grave al vendicar costante;
E percosso talor l’ira profonda
Lunga stagion riposta in scn riserba,
Pur come estinta, c la ripiglia a tempo,
Rendendo ’l male c ’l ricevuto oltraggio.
Udite voi, che di virtulc in guisa
La memoria dell’ onte in voi, di sdegno
E d’astio e di rancor nutrite occulta,
Udite ’l paragone, a cui sembianti
Fate voi stessi, mentre Tire ascose
Tenete pur, come fav file ardenti
Solt’inganncvol cenere sepolte :
Ch’accendendosi poscia in secco legno,
0 ’n arid’esca, fiammeggiar repente
Sogliono, c rinnovare ’l foco estinto.
In colai guisa l’anima superba
Fu ne’ bruti prodotta, c voi l’ esempio
Seguite pur delle sdegnose bel\c.
Ma qual si fosse già nel primo parlo
L’alma loslra immortai, fia noto appresso:
Or detrattila ferina a voi si paria.
L* alma d' animai fero è vita c sangue :
Ma *1 sangue ’n carne si condensa c cangia :
E la carne corrotta alfin in terra
Pur si risolve; onde mortale è l’alma
Di feroce animale, anzi piuttosto
Un non so clic di morto. Udite adunque
Perdi’ alla terra Dio produrre impose
L’anima de* viventi : c come segua
Che l’alma in sangue si trasmuti e volga,
E*l sangue in carne, e quella carne in terra,
E per le stesse vie si \olge e riede
La terra in carne, c poi la carne in sangue,
K ’l sangue in alma; onde ritrovi e vedi
Che t'anima de’ bruti è sangue e terra.
E non pensar che piu del corpo antica
Sia l' alma fera, onde rimanga in vita
Poscia, che ’l suo mortale estinto giacque ;
Ma riconosci le cangiate forme,
E i variati giri ; c fuggi intanto
Degl’ ingegnosi le canore ciance,
Che starlan meglio in lor silenzio occulte.
Non hanno questi pur rossore c scorno i
SACRI.
Di far che 1* alma, onde uom ragiona e ’n»
tende.
Sia quella stessa onde latrando ’l cane
Scn corse, e sibilando empio serpente.
E fin goti sè medesmi in varie forme
Esser mutati, c non pur servi c regi
Sott’a lari sembianti c varie membra
Esser già stali ; ma vezzose donne,
0 pur marini pesci, o piante, o sterpi.
E ciò scrivendo, più di pesce, o tronco,
Si mostrati di ragione ignudi c d’alma.
Ma fra tanti superbi c varj ingegni
Non sorse alcuno in quell’ età vetusta.
Clic l’anima stimasse o limo, o terra.
Ma seguendo del moto o pur del senso
(Incerti duci) le vestigia c I segui.
Altri la credea spirto ed aer Icic,
Altri foco sottile, o vi\a fiamma,
Altri pur la stimò natilo umore,
Altri lapor da quel rumante c misto :
Terra nessun. Cosi la Madre antica.
La Terra, dico, clic produce c figlia
L’alma dc'iiii, quasi inculto germe.
Fu defraudata allor del proprio onore
Da que' superbi, c ’u contrastar costanti,
E discordi fra lor ritrosi ingegni.
Ma noi rendiamo aita gran Madrcantica
L’otior dovuto del suo nobil parlo;
Esita figlia chiamiain l’alma spirante
Di feroce animale. Or non ci caglia
Se nuì’a ora di nuovo, n di vetusto
Delle figure della vasta Terra
Osiamo d* affermar con certe prove,
Ouasi giudici giusti in tanta lite.
Perdi’ altri mol ch'ella figura e forma
Abbia di sfera: altri la laria r finge,
Otias» un cilindro, c simigliarne ai disco :
Altri la fa come sia cesta, od aia,
>acua e cava nel mezzo, c d’ogni parte
Pur egualmente la polisce ed orna.
E que!, che ratto immaginando al Cielo
Fu come scrisse ne’ toscani carrai,
Indi pur vide, o di veder gli parve
La Terra, che ci fa tanto feroci ,
Quasi una bassa e picciolctta aiuola;
Ma pur in giro ei la circonda e forma.
Ed altri ancor nelle due estreme fasce,
E nell’ ampia di mezzo e larga zona
La privò d'abitanti : c nuda ed erma,
E con squallido aspetto orrido in vista
La ci dipinse, c ’n alla nei e c ’n gelo
Sepolte figurò le parti estreme.
E ’l maggior cinto dalle fiamme acceso
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LE SETTE GIORNATE
Sol due ione lasciò soggette al Sole ,
Che mai per dritto non rinfiamma e scalda.
In due grandi endsperi, c sempre avverso
Fa con obliqui raì più dolci tempre.
E noi ]'una abiiiam, chè quinci c quindi
Yiviam ristretti in breve spazio angusto
Dal gel perpetuo, o dall’ardor soverchio.
L'altra soli’ altro ciel barbare genti
Accoglie, a cui sparito è il Carro e l’Orsa.
Ma la novella età discopre e mostra
Ch'ogni di lei gelata, o accesa parte,
L'uom dalla prima sua terrena stirpe
Duro animai costante alberga c pasce.
Talché non sembra l’abitala terra
Timpano più come affermando insegna
Il gran maestro di color che sanno:
Nè 'il Torma di lorica agli occhi appare;
Ma pur in cerchio si rivolge e gira ,
Di pomo in guisa che si fende ed apre.
Isola no, che non si giace in seno
Al gran padre Ocean, ma'l tiene in grembo,
Come osa d’ affermar l’età novella.
Che per troppo veder men alto intende.
Ma sia di ciò quel che ragione e senso
Può dimostrar ne’ più vicini obbietti.
Or tacciam sue figure, c i larghi spazj
Non misuriam qual geometra in giro,
E non vogliam superbi al Re del cielo
Pi sapere agguagliarci e di possanza.
Perch’ ei la terra nelle man rinchiuse ,
E misurò pur colla mano i mari ,
E tutte Tacque insieme, e ’lcicl col palmo:
Chi pose i monti spaventosi in libra?
E’n giogo i boschi e Taspre rupi in lance?
Chi tien dell’ampia terra ’l largo giro?
E in guisa di locuste in lei dispose
Gli sparsi abitatori c'1 ciel sublime.
Quasi camera sua, si fece in volta.
Se non il Re, che lui sostiene e folce?
Non affermiamo ancor con vano orgoglio
Quanto T opaca e tenebrosa terra
L* ombra fosca ed algente innalzi e stenda;
Ni* come privi di splendor T errante
Luna, quand’ella giunge ’nconlro al Sole:
Nè s* ella di Ciprigna ancora adombra
Il vago aspetto eia sua luce imbruni;
Ma tutti siam per meraviglia intesi
Alla voce di Dio , che corre c passa
Alle cose create, e compie ’l mondo
Nelle parti di mezzo e nell’ estreme.
Qual ampia spera, o pur marmorea palla,
Ch* è da robusta man percossa c spinta,
Giunge ’n loco pendente, ed indi a basso
DEL MONDO CREATO. 157
Dal sito che s’avvalla e ’n giù declina,
E dalla propria sua volubil forma
Con veloci rivolte in giù rotando
Portata va, sinché le arresta ’1 corso
La piana terra , in cui si giace c posa ;
Tal della santa voce al suon commossa
La Natura trascorre, c passa a dentro
In tutto quel che nasce csi corrompe;
E va servando ogni progenie e stirpe
Simile a sé, lindi’ ella al fine aggiunga.
E del cavallo il succcssor corrente
Fa che ci nasca ; c pur sembiante al padre:
Dal tauro ’1 tauro con sue dure conia :
Dal superbo leon villoso ’l tergo
Nasce ’l leone, ed ha pungente artiglio:
E ’nsicmc col leon T impeto c T Ira
Nacque, c quel suo magnanimo disdegno.
Onde Tumil nemico a terra steso
Trapassa alteramente, e non l’offende ;
Nacque T amor di solitaria vita.
Per cui sprczzaicompagni,cquasi abbor*
E per deserte arene, o ’n alta selva [re.
De’ Mauritani, o de’ Numidi errante
In caccia c ne’ perigli ci va solingo,
0 pur fra ’l Nesso e l’Acheloo corrente,
Dov’ i leoni producea l’Europa.
E ’n guisa di possente aspro tiranno,
E per natura indomito e superbo,
Nè degna egual, nè dell* estremo cibo
Pascer la cruda sua fame profonda :
Cotanto schiva il disdegnoso gusto
L’avanzo di non presa immonda preda.
Si larghe canne ancor le diede ’n sorte
Natura, e grande c si Porribil voce.
Clic l'alto suo ruggir di tema ingombra
1 più veloci e i più leggieri al corso,
E sbigottito alfin gli arresta e prende:
Ma dopo ’l pasto egli è giocoso e lieto,
E festeggiando, con gli amici ei scherza
Quasi di nulla tema e non sospetti.
Poi fatto grave nell’età vetusta,
E lardo in caccia, osa’l feroce veglio
Alle città dar periglioso assalto,
E gli uomini Infestar fra l’ alte mura.
Ma questa cosi fiera orrida belva,
Quando più superbisce, e’n maggior rabbia
Divenuta crudel lo sdegno accende ,
Teme d’ardente face, e fugge M foco.
E sbigottito ancora ei fugge ’l gallo,
E impaurito è più dove biancheggia
Il bel candor delle spiegate penne.
E la pantera, impetuosa belva ,
È repente agitata : a’ varj moti
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158 POEMI
Dell’ alma sua veloce ha ’1 corpo acconcio,
E le membra pieghevoli e leggiere.
E delle macchie sue quasi dipinto
Mostra ’l bel pardo variata pelle :
Ed ascondendo ’l suo feroce aspetto,
Colla pittura delle spoglie , alliec
I semplici animali, e troppo incauti:
Cosi gli prende, c ’nsidlosa fraudò
Le giova più nella selvaggia preda,
Che ’l suo corso veloce, o ’l leggier salto.
Ma l'orsa è neghittosa e pigra e tarda,
E di costumi occulti e'n alto ascosi :
E di simil figura ammanta e veste
L' alma feroce : ha grave e rozzo ’l corpo,
Quasi Indistinta e mal composta mole.
Ch' entro l’ algente ed orrida spelonca
Ha sue latebre, ove s' agghiaccia ctorpe.
Ma poscia nel furor s’ infiamma c ferve
E cerca d'ogni ingiuria aspra vendetta.
E ’neontr’ al ferro ella s’ avventa e ruota
Ne’monti alpestri e piaga aggiunge a piaga,
Correndo quasi a volontaria morte.
Ma pur con lingua industre Informa e finge,
Di fahbroln guisa,! suoi deformi orsacchi.
E tu, più rozzo assai d’orsa silvestre,
I costumi de’ figli Incolti ed aspri,
Mcntr’ ò retate ancor tenera c molle ,
Non formi, non polisci c non adorni?
Nò ’n pietosa opra hai lusinghiera lingua.
Ma In officio crude! pungente c dura?
E l'orsa ancora alle sue proprie piaghe
Sa (com’insegna la Natura industre)
Ritrovare ’l rimedio, onde risana;
Perchò, quando più son profonde e gravi.
Col verbasco le tura, e l'arid' erba
Terge la parte sanguinosa c secca,
E la serpe d’inferma c scura vista
Di finocchio si nutre : e cosi scaccia
Quell’ Infelice umor che gli occhi appanna.
L’ aquila ancor colla lattuca agresto
Conferma ’1 vacillante e dchil lume;
La testmline allor, che ’l fero tosco
Della serpe rancide, e dentro serpo
II pasciuto velcn , salute e vita
Dall’orìgano cerca, e non indarno.
E l' egra volpe in discacciar la morte.
Che le sovrasta, usa nel proprio male
Due lagrimctte di stillante pino.
E la montana capra, allorcli’ afiisso
Di pennata saetta in mezzo al fianco
Ha ’l duro ferro, medicar sò stessa
Sa con quell' arte che Natura insegna :
E dittamo pascendo , il duro strale
SACRI.
L’ esce por dair interna c grave piaga.
Della scimia ’l Icon languente ed egro
Avidamente cerca ’l fero pasto.
E beve ’l pardo della capra ’l sangue.
E pasce i ramoscel d'olivo il cervo.
E tu dell’ alma tua languida a morte,
11 rimedio non trovi? e non conosci
La vera medicina? e non delibi
Succo vltal dalle sacrate carte?
E i presagi del tempo ancora insegna
Mastra Natura, c'I variar del cielo
Dal caldo al freddo, dal sereno al fosco;
E qual tempesta indi minacci, o tutbo.
Talché in antiveder la pioggia e i venti,
E le procelle torbidi e sonanti
Talor men dotti son gli umani ingegni ,
La pecorella all’ appressar dei verno
DI largo cibo sì provvede e pasce.
Quasi antevegga la futura Inopia,
Che l’oscura stagion gelando apporta :
E 1 buoi rinchiusi nel più freddo tempo
Entr' alle calde loro Immonde stalle.
Quando la primavera a noi ritorna.
Mossi dal lor nativo e certo senso
I.a domita cervice, e ’1 collo irsuto
Stendono oltr’i presepi, e pur guardando
bramati d' uscire al tepido sereno.
L’istrice ancor nelle sue proprie lustre
Fa doppia quasi porta , onde respiri :
E di lor una ò volta al nobil Austro,
E l'altra al fiato d' Aquilone algente;
E se teme di Dorca '1 fiero spirto,
(lontra ’lScltentrion si tura ’l varco;
Ma se ’l vento afTrican l' offende e turba ,
Quel suo foro ventoso incontra chiude,
E si ricovra alla contraria parte.
E quinci chiaramente a' sensi appare
Che l' alta Prov v idenza in ogni lato
Trascorre e passa, e ’l tutto adempie ed or*
E per le cose eccelse c per le illustri [ua:
Non mette ella in non cal l' oscure e basse;
Ma nel vile animai un certo senso
Suol destar nel futuro, onde provveggia
Egli asò stesso. E l’uom mai sempre intento
Si starò nel presente , e quasi a bada
Senza pensar nella futura vita?
Deh ! rimiri T lodato e raro esempio
Della formica faticosa e 'ndustre.
Che ’l vitto, onde si pasca al freddo vento,
Rlpon la state : e benché lungo ancora
Sian di stagion molesta i giorni algenti ,
Neghittosa non cessa, e non s'allenta
l.a negra turba ; anzi sò stessa av vezza
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO. 159
Nelle fatiche , e per gli adusti campi
Pene l’opra non men, che l’orac’l giorno.
Sin ch'abbia ne' snoi spechi ’l gran riposto.
Essa coll' unghie proprie incide c sega
1 cari frutti, e'nmniditi al Sole
Gli asciuga e secca j e 1 bel tempo sereno
Spiando , gii prevede i lieti giorni ;
Talché, (pianti" ella i grani a’ raggi espone.
Pioggia non stilla dall’ oscure uubi ,
E di sereniti I* Indicio è certo.
Quinci ripon nelle sue celle anguste
L'asciutta messe, e poi la serba e parte ;
Custode e dispensiera e ’ntenta all'oprc.
E non sol mentre ’l Sole accende I campi.
Ma le fatiche sne notturne ancora
Dal ciel rimira la rotonda Luna ;
E quelle più serene e calde notti
Tolte al dolce riposo , al queto sonno,
E giunte al travagliar continuo e lungo.
Tanta In minuto corpo industria c lena
Di spirto infaticabile e ’ngegnoso
Pose Natura , eh’ è miratiti madre ;
Anzi della Natura il sommo Padre
Tanta virtù le diede in raro dono.
Ob come grandi sono, oh come eccelse.
Come meravigliose , o Mastro eterno ,
Tutte l' opere tue , che tu facesti
Con Infinita sapienza ed arte!
Ma noi nepoti del vetusto Adamo ,
Pur , quasi doni di natura e doti ,
Abbiam molle virtù, che proprie , e nate
Coll’ ignudo bambin d’ un seme istcsso
Sono, ed uscite da' materni chiostri.
Nè legge , od arte , o pur antica usanza ,
0 nuovo esempio le dimostra c ’nsegna,
All' alma ancora semplicetta e vaga ,
Che pargoleggia eulr’ alle molli membra;
Ma sua propria vaghezza e suo desio
L’ inchina , e move con amico affetto
Chi ne insegna d’odiar la febbre e i morbi
Seguaci c gravi, ond'è languente ed egra
L’umanitatel e d' abborrir la morte
Senza maestro e sena’ altrui consiglio ?
Non arte , non ragion , non uso , o legge ;
Ma quella , che ne fa cotanto amici
A noi medesmi , lusinghiera c dolce
Nostra natura, a noi l'insegna e detta.
In questa guisa ancor la nobil alma
Dechina ’l vizio , e volontaria T fugge
Sena’ altra cura , o magistero , od uso.
E reggendo Virtù , di' è bella in Tista,
Se n lnvaghisce e ia ricerca e segue;
Talch' è fuga de’ vizi il primo passo,
Ond'eHa i suo’ vestìgi indrizza ai Odo.
Ed ogni vizio è male interno e morbo
Dell’ alma inferma, e ’n van desire accesa.
E la Virtù, eh' è sempre al vizio opposta,
E saniti dell’alma; ond'è nell'opre,
E negli offici suoi costante c salda.
E quinci a tutti la Giustizia è cara ;
È cara la Prudenza: e grazie e laude
Ha la Modestia : c ’n più miratiti vista
La Fortezza, virtù dell'alma invitta,
( Malgrado di Fortuna empia e superba)
S’onora c cole, e simolacrl cd archi
Le sono alzali , c sacri altari e trmpj.
E queste ha per fedeli e care amiche
L’alma domesticata, c se n’ adorna.
Più che dì sanili , le membra c ’l corpo.
Amate 1 parili , o voi pietosi figli :
E voi , pietosi padri , i figli amate
Senza irritare il gioveniie sdegno;
Cliè Natura il v’ insegna e ven costrìnge.
S’ ama la leonessa, orrida belva ,
I pargoletti suoi ; se ’l fem lupo
Difende I lupicinl , e ’nsino a morte
Per lor combatte; avrà suoi nati a scherno.
Più crudel delle fere, il erodo padre?
Tanto rigor, tant' odio, c tanto nbblio
Di Natura sari nel petto umano ?
0 del materno amor soave e dolce
Forza, che pieghi la feroce tigre ,
E dalla preda , a cui vicina c stanca
Corre anelando, la rivolgi indietro
Alla difesa de’ suoi cari parti !
Coni’ ella trova depredato c sgombro
li suo covil della gradita prole ,
Repente corre : e le vestigia impresse
Preme del cacciator , che seco porta
La cara preda : e quel rapido innanzi
Fugge portato dal destricr corrente :
E per sottrarsi alla veloce belva
(Ch'altra fuga non giova, od altro scampo)
Con questa fraude d' ingegnoso ordigno
Delude la rabbiosa, e sè difende.
Perchè di trasparente e chiaro vetro
Una palla le getta innanzi agli occhi ;
Onde schernita dalla falsa immago
La si crede sua prole , e ferma ti corso,
E ['impeto raffrena, e il dolce parto
Brama raccor nel solitario calle ,
E riportarlo alla sua fredda cava.
E ritenuta pur dai falso inganno
Delle mentite forme , anco ritorna
Ma più veloce assai (ch’ira l’affretta)
Dietr’ a quel predator eh' innanzi fugge,
t
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160 POEMI
E gli sovrasta ornai rabbiosa al tergo.
Ma quel di nuovo col fallace obbiclto
Dello speglio bugiardo aflrena c tarda
Il corso della tigre, c si dilegua.
Nè dalla madre per obblio si perde
ta sollecita cura, e ’l proni’ amore.
Ma l’ infelice si raggira intorno
A quella vana e 'ugannatrice immago,
Quasi dar voglia a’ propri figli il latte.
E ’n questa guisa la schernita belva
La cara prole, e la vendetta ancora
Perde in un tempo, eh* è bramata e dolce.
E se ’n tal guisa suol amar la tigre ,
O la consorte del Icon superbo ,
0 del famelic’ orso , i propri figli ;
Qual maraviglia fìa , s’ amar tediassi
La mansueta ed innocente agnella
E la cerva selvaggia c fuggitiva
Il dianzi nato ancor tenero parto?
Fra molte pecorelle in ampia maiidra
Il semplicetto ignei, scherzando a salti,
Esce dal chiuso ovile, e di lontano
Ei riconosce la materna voce.
E ricercando dal suo proprio latte
1 dolci fonti affretta ’l debil corso:
E dove sian le desiate mamme
Vote del proprio umore, ei se n’appaga,
Nò fugge l’ altre più gravose e piene :
Ma le tralascia: c ’l suo dovuto cibo
Sol dalla madre sua ricerca e brama.
La madre ’i dolce e pargoletto figlio
Fra mille e mille, al suo brlar conosce.
In questa guisa di ragion sublime
Ogni difetto un largo senso adempie.
Che per natura in umil greggia abbonda,
Forse acuto vieppiù del nostro ingegno.
Ma nel suo partorir solinga cerva
Mostra vieppiù d'accorgimento e d’arte,
D’altr’ animai, in cui sia parte, o seme
Di provvidenza , c di ragione industre.
Però piuttosto alla pietatc umana
De’ suoi cerbiatti crede ’l novo parto ,
Delle fere tremende; e l’ aspre rupi,
E le selvagge lustre, c i lochi incubi
Fugge la paurosa : e dove scorge
De’ piedi umani le vestigio impresse
Press’ alle vie da lor calcate e corse ,
Ivi sicura ’l suo portalo espone :
E dell’ erba siSiclia ivi si pasce,
0 nelle stalle qui ricovra, c scampa
Gli artigli e i denti di selvaggia belva:
0 dura cuna in rotta pietra elegge
Là dove s' apre un solo e picciol varco ,
SACRI.
E i pargoletti suoi difende e guarda ,
E lor da quattro mamme il latte istilla ,
E da due mamme quelle a cui Natura
Fu di tal nutrimento avara e parca.
E perdi’ ella di tele amaro è priva.
Ha lunghissima vita ; onde talvolta
Candida appare , e nel condor senile
E venerata dall’ amiche genti :
Siccome quella, che sen giva errando
Libera e sciolta, in solitaria chiostra.
Che liberolla ’l suo felice Augusto.
La vaga fama alla famosa cerva
Le corna d’oro ancor figura e finge,
E le circonda di monile ’l collo;
Ma dell’onor delle ramose corna,
E di questa nativa altera pompa
La Natura privollc, avara madre:
E ne fu più cortese e larga a* cervi.
I quai le soglion rinnovar sovente :
E lasciando le vecchie a terra sparse
Dal proprio peso, onde son piene e dense.
Rifar le nuove alla superba fronte ;
E ciascun anno un lungo c nuovo ramo
Aggiunger pur delle ramose corna;
Dalle quali anco germogliò talvolta
L'odra seguace frondeggiando in alto.
Oh! meraviglia, onde Natura accrebbe
Vaghezza e pompa all’ animai fugace,
Ch’è pur fugace, c paventoso c vile
In cosi altero c così fero aspetto,
Armato di sue lunghe e inutili arme.
E ’l suo gran core, onde ’l formò Natura,
Non è d’ orgoglio , o d’orgoglioso ardire,
Ma di viltate c di timore albergo.
E in guisa pur di timidetta lepre
II suo liquido sangue appena ha fibre.
E quinci avvienche non s’accoglie cstrin-
Tenace e saldo, ma simiglia il latte, [ge
Mal senza quaglio appreso, onde ci trascor-
Ma talvolta d’ainorc acceso e punto, [re.
Nella stagion, che ’ntepidita ’l grembo
Apre la verde Terra, e ’l pigro gelo
Già si dilegua , e per disfatta neve
Gorron turbati i rapidi torrenti ;
Risveglia’! cervo al cor guerriero spirto;
E fa battaglia , c di ferire ardisce ,
S’ alcun per l’alta selva a caso incontra.
Ed allora non pur le tigri c i lupi ,
E gli orsi informi c la dipinta lince
E’1 cinghiai, che fregando al duro tronco
L’ orride coste, di tenace fango
Passi alle dure spalle aspra lorica ;
Ma cupida d’ amor la fera madre
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LE SETTE GIORNATE
Erra, obbliando i pargoletti inermi,
Cbenon iian fati’ ancor gli artìgli c 'I vello.
E i più timidi ancora in furia, c in foco
Sospinti son da stimoli pungenti.
Smisurato furor conduce e porta
filtra il sonante Ascanioc i gioghi alpestri
D’Jda sublime, olirà l’ Eufrate c ’l Tauro
L' aride madri del guerriero armento.
Passano i monti, e gli alti fiumi a nuoto;
Fuggon tra sassi dirupati c scogli ,
E per valli profonde , e non incontra ,
0 Sole, ai nascer tuo, nè ’ncontro ad Euro,
Ma verso Borea e Cauro, e d’onde attrista
D’oscura pioggia i cieli il nubil Austro.
Quinci lento veneno alfln distilla,
Ch'lppomane chiamò la prisca lingua
Degli antichi pastori : e fu sovente
Scelto già dall’ iniqua empia matrigna,
E con erbe maligne , e con parole
Non innocenti fu adoprato e misto.
Tanto polea l’ amore e ’l dolce zelo
Di più tenera prole in fero petto :
Tanto ardente desio di nozze immonde ,
Che per natura si risveglia e ’nfiamma,
E negli orridi boschi ad aspra guerra
Move non pur le dispietate belve
Ma i duci ancor de’ mansueti armenti
Pendon sospesi alla battaglia incerta
Che di piaghe e di sangue ’l petto irsuto
Lor empie e sparge , e la fronte superba ,
Le mute spose, eie cornute torme,
Di cui debban seguir l’audace impero ,
Eia vittoriosa altera scorta,
E non osati partir la fera zuffa
Meravigliando I lor maestri istessl.
E se !' amor de'lìgli, o quel cheagglungc
Insieme a generar cupida coppia.
Può tanto in cor ferino e ’n rigid’ alma ;
In quei che fa di sè vaghi e superbi
Nostra ragione c ’l nostr’ umano orgoglio ;
Quanto potrà? Qual meraviglia adunque
S' una c due volle , anzi tre volte e quattro
Per l' istessa cagion s' accese ed arse
Dell'odio antica inestinguibil fiamma?
E l'Asia contra la superba Europa
Di ferro e di furore armata In guerra.
Strage c ruinc e fieri inccndj ardenti
Mescldando ne ’ngombrar la terra e Tonde?
Nel fido cane ancor [se dritto estimi)
Dove manca ragione ’l senso abbonda.
E quel eh' appena i più sublimi ingegni,
Filosofando nell’ antiche scuole ,
Conobber degli acuti sillogismi ,
DEL MONDO CREATO. l«l
Mentre varie figure in varie guise
Tessean di lor con intricali nodi ;
Quell' (stesso , dicb’ io , subito ’l cane
Per sua natura agevolmente apprende;
Perchè trovando le vestigia impresse
Della timida lepre , o pur del cervo ,
Arriva là , dove si fende e parte
L'na strada in più strade, e 'iilorno a’ primi
Principj delle vie s’ avvolge e gira ,
Odorando i sentieri , o 1 passi sparsi :
E fra sè stesso in questa guisa intanto
Sembra sillogizzar : La vaga fera [corso,
0 ’n quella parte , o ’n questa ha volto ’l
0 per quest’altra almen s’ indrizza e corre :
Ma non seti va per questo, o quel sentiero,
Dunque per questo calle i passi affretta.
Cosi conchiude argomentando ’l cane ;
E ’l pronto senso è di lung’ arte in vece
Per cui rifiuta ’l falso, e trova ’l vero.
Nè più ne ritrovar le varie sette ,
Scrivendo collo stile , o colla verga
Nell’ arena del lido , o ’n secca polve ,
Degli argomenti le diverse forme :
Due condcnnando , come false , a morte ,
L'altra approvato, in cui rimase impressa
La verità , clic nel soffiar dell’Austro
Poi si cancella , o nel gonfiar dell’ onda.
E non s’ av vede la superba mente
Degli orgogliosi e miseri mortali ,
Clic ’n polve è scritta , ed In minuta arena
La verità che trova umano ingegno
Senza lume divin che Palme illustra :
Onde nell’ imbrunir d’ un breve giorno
La si porta e disperde ’l mare e ’l turbo.
E bench’ antica età si glorii e vanti
Di sacre note e di colonne eccelse ,
In cui descritte fur le nobil arti
In quel sacro a Mercurio adorno tempio :
E sian per fama ancora illustri e conte
L’ altre colonne , in cui serbar credeva
Da’ diluvi sicure , e dagl’ incendj
Mill’ antiche memorie a terra sparte ;
Iti queste e quelle , nel cangiar del tempo,
Non rimane di lor vestigio , o polve :
Si lunga notte ’nvolve 1 nomi c l’opre.
Ma contra ’l senso de’ veloci cani
1 timidi animali hall senso ed arte,
Onde sovente i lor vestigi ispessi
Soglion guastar , perchè la fuga occulta
Segno palese non discopra e mostri.
E conoscono ancora i venti e P aure ,
Ond’ è iiortato agii odoranti cani
11 noto odor, che gli tradisce e nenie.
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I«2 POEMI
Così U Provvidenii in ogni parte
Trapassa e giunge , ed al fugace scampo
De' paurosi ella ulora intende ,
E spesso lor concede ingiusta preda
Agli animosi, e la virtù ferma
Colle spoglie de' tinti onora, e pasce
Pur di rapina le robuste forte.
Ma qual memoria e sì tenace e salda
Cmìiì t quella taior del fido cane ?
0 qual d’ animo grato e di costante
Altri puO meritar più chiara laude ,
Se ardisce ’1 fido caa col fiero assalto
Scacciar empio ladroa dal caro albergo ,
Vietando ì furti al predatar notturno ?
Ed al pugnare ed al morire è pronto
Coll' amato signore , e per l’ amato
Signore almeno , e consertarlo in t ila ,
Se stesso offrendo a gloriosa morte?
Spesso innatui al sublime altero seggio
De’ giudici seseri il fido cane
Fu de' Docenti accusator, latrando,
E spesso 1 muto testimonio indegno
Non fu di fede, e cadde In giusta parte
Sovra 1 reo la temuta orrida pena.
In Antiochia già, come si narra,
In solitaria parte estinto giacque
Un uom, ch'uà fede! cane atra compagno,
Nell’ ora che tra 'I lume incerto e l’ ombra,
La queta notte dal sonoro giorno
Strepitosa divide , e desta all' opre
1 mortai faticosi, e 11 richiama
Dalle fatiche al lor riposo amico.
E r urei sor ch’ebbe mercede in guerra ,
Era uom CTudel , di sangue e di corrucci ,
Che si pensò celar la fiera morte
Sotto l'oscuro e tenebroso manto
Delia caliginosa e fredda notte ;
E dal medestno manto andò coperto
in più lontana e più sicura parte.
Ciacca nell' atro sangue il corpo estinto
Squallido, immondo e pien di morte T vol-
Spars’eraintornoarhnirarioT volgo, [to;
Il can , gemendo in lagrimcv ol suono ,
Piangea del suo signor r orrida morte.
Intanto qnel che deir iniquo fatto
Dianzi contaminato indi partissi.
Per non esser sospetto , c intiera fede
D' incoccala acquistarsi , ivi con gli altri
A parlar dell’ atroce , orribU caso
Facea ritorno con sicura fronte :
( Tanta è la fraude dell’ umano ingegno )
Entrando in quella folta ampia corona
Dui popol vario, assai pietoso in vista
SACRI.
S' appressava a colui eh’ anriso giacque.
AUor cessando alquanto il fido case
Dal lauientevol gemilo dolerne.
Prese delia vendetta erribil armi ,
E preso 'I tenne con gli acuti denti ;
E mormorando il misera fili verso ,
Tutti converse in doloroso pianto.
E fede ei fatta alla mirabil prova
Solo '1 tenne fra molti e non lasciate,
Nè railentoiio da' tenaci morsi.
Alfio turbalo il reo del certo indicio.
Ritorcer in altrui la grate colpa
-Nou polca più deii'odio e dello sdegno,
E dell’ iugiurioso e grave oltraggio ,
Nè'l sospetto estirpar del proprio fallo
Nell' altrui mente infisso; e 'a questa guisa
Far vendetta polca , ma non difesa
Da un quasi muto accusator latrante,
E preso e violo c condannato a morte.
Ma chi potria le meraviglie antiche
Narrar de’ cani, e i rari illustri esempi!
E chi sepolti entro l’ istessa tomba
Mostrarsi col signor? o ’n rogo ardente
Co' medesimi onor gli accesi ed arsi ?
0 ’n guerra pur tra folte schiere e<l armi ,
Celebrar la nativa invitta fede?
Citi da' tiranni , o da’ nemici estinti
Oserà di sacrar sanguigne spoglie
Alla gloria de' cani? e'n viva pietra
Scolpirli ’n leiseguarl'iraprcse e i nomi
Di que’ famosi , che da lunga guerra,
E lungo esilio trionfando insieme
Co' fidi amici , rilomaro aifine
Nell’alta patria clic circonda ’l mare!
Scppelo ben la Grecia antica , e ’1 vide ,
Che Uni' isole in seno inonda e chiude.
Taccio ne’ monti e nell' alpestre selve
Tante vittorie loro antiche e nuove.
Taccio i capi recisi e ’n alto affissi ,
E taccio di feroci orride belve
In guisa di trofei sospese spoglie.
Ma dove ancora io voi tralascio addietro,
0 ’n brevissimo dire astringo c premo,
Dcstrier veloci , c portatori illustri
De’ cavalieri in gloriosa guerra ,
E ’n polveroso arringo c ’n largo campo ?
Degli onori compagni o del periglio
Sete guerrieri voi , che mossi a prova
Al chiaro snon della canora tromba
Avete parte in sanguinosa preda;
E ’n auree spoglie c ’n onorata palma.
E ’l vide già non pur l'antica Pisa
Ne’ vari giuochi , o 1 celebrato Olimpo
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LE SETTE GIORNATE DEL MONDO CREATO.
163
Ma Tebe e Troia, anzi gli spazi e i lustri,
Ch’cbber d’Olimpo misurato ’l nome,
E Maratona c Leu t ria , c poscia ed ante
Delia nobil Farsaglia i piani e i monti.
Ove portando pria sul forte dorso
Nelle battaglie ’l cavalier novello.
Miraeoi novo e non veduto mostro.
Somigliaste ’l biforme alto Centauro.
Chi potrebbe di voi le spoglie c i pregj
Narrar appieno, e le fatiche e i merli?
Voi spargeste non pur nell' alle imprese
Col piagato signore il largo sangue ;
Ma (se creder ciò lece} il largo pianto
Ancor versaste con affetto umano,
Lagrimando sua dura acerba morte.
Voi parte in gran trionfo, c ’n nobil tomba
Co’ regi aveste, c con gli croi vetusti,
E deste ’l nome alla città famosa
Sepolta, c serba ancor la fama c ’l grido.
E voi non di tridente , onde percossa
Partorisca la terra, altera prole
Foste, nè vi formò terrena destra.
Ma l'alta voce del Signore eterno.
Più di tromba sonante , al nascer vostro
Principio diè, pria clic di terra in terra
La sua possente man formasse Adamo.
E questa che più chiara ognor rimbomba
Nella Natura ubbidiente ancella ,
Di voi perpetua la progenie e ’l nome.
Ma quel guerricr in voi spirto superbo.
Ch'ali' uom quasi vi fa d'onor congiunti,
Urnilii coll’ esempio il Ile celeste.
Che fra ben mille olive, c mille palme
Premer degnò d’ un asinelio ’l tergo;
E voi concesse a’ gloriosi Augusti ,
A’ magnanimi regi, a' duci invitti:
In guisa tal, clic l'alterezza e '1 fasto ,
Ed ogni altra mondana Illustre pompa
All'umiltà conceda I primi onori
Ed a quell’ umil sofferenza e queta.
Ch’ai mansueto gli omeri prepara,
E nel presepio ha più sublime lim^'
E più virino al Regnator cclcs* 1
Che ’n del tra’ fav olosi e v^’
Non ha ’1 destriero, o sua i
Ma qual mi porta sp
Studio, o vaghezza ol<
Torniamo a contro
Fatte da Dio la ;
Chè provvidcii
Che dell’atr'
Fe’ la prò '
Quasi irl
' Fece all’ Incontra fertile e feconda
De’ timorosi la fugace prole,
Di cui suol farsi agevolmente in caccia
Larga e diversa preda. E quinci avviene
Che molti figli suol produrre al parto
La llmidctta lepre; a coppia a coppia
Gli partorisce la selvaggia capra.
E di gemelli ancor Faglia silvestre
Suol andar grave, e gcncrarl’ insieme.
Perchè non manchi da vorace fera
Consumata la stirpe. E d' altra parte
La Ocra leonessa appena è madre
D' un figlio sol , che ’l lacerato ventre
S’apre co’ duri artigli ; e’n questa guisa,
Ancldendo la madre allordi'ci nasca.
Al nascer suo fa sanguinoso ’l varco.
E la v Ipera ancor fiera mercede
Rende alla genitrice, e fuor se n’esce
Rodendo l’alvo alla pregnante serpe.
Se di vari animali ancor rimiri
Le varie parti , a te non fia nascoso
Il magistero del Fattore eterno.
Che nulla fece in lor soverchio, o manco.
Perchè volle adattare acuti denti,
E quinci e quindi alle ferod belve.
Divoratrici di sanguigno pasto.
Ma d' una parte sola armano i denti
Quelle , di' han vario cibo c vari pasch
Ne’ verdi prati ; c ’l ruminar concesse
Alle innocenti in oziosa vita.
E le gole e le pelli c i ventri e i seni ,
E le reti coll' altre incerte |>arti ,
Ove s'accoglie, onde trapassa ’l cibo.
Onde nutrisce le diverse membra
Il puro e leve, e l'altro impuro e grave
Poi ritrova all’ uscire aperto 1 varco.
Non soli vani artifici, o fatti indarno.
Ma necessari ; e di ciascuno appare
E l'uso, e ’l prò, per cui mantieusiinvit'
0 breve , o lunga
Del cammello
In guisa tal.
E giunge m
Quasi
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164 POKMI
Che di grandezza ogni terrena avanza
Bestia superba , e gli fu dato ad arte.
Perchè dar possa altrui tenia c spavento ,
Quasi di collo ancor i'oflìcio adempie; [glia
Perocché breve ha ’l collo, e non l’aggua-
A* piedi , e se 1* avesse ancor più lungo ,
Mal sostener potrla la mole e 1 pondo.
Però col naso el si provvede , c prende
Col naso ’l cibo, e 'il guisa è cavoadcnlro
L’estranio naso, che raccoglie e serva
Mei voto suo del ragunato umore
! quasi laghi , onde la sete estingua.
Di fiume ’n guisa poi gl' irriga e sparge ,
(a>mc lucido Tonte in bianco marmo
Scolpito da maestra e dotta mano.
E d' urna in vere effigiala belva '
Con estraneo sembianze orrida in atto,
La qual dal naso, o dall' aperta boera ,
0 d'altra parte d'acque infonde e versa
1 larghi rivi, e 'I suol n’asperge intorno.
Cosi la smisurata indica fera
Del pria raccolto umor Ta larga copia
Mirabilmente , onde ’l suo naso assembra
Fontana, di Natura emula c d’Arle.
Ma coll’ istesso naso ancor sovente
Suol far l’officio di pieghcvol mano:
In tante guise egli ’l ritorce c stende.
E col medesmo ancor placido c queto
Ed innocente, ci suol passar per mezzo
Le mansuete e semplicette gregge.
Senza notar le pecorelle umili,
Che gli cedono ’l passo c quinci e quindi.
Ma I più feroci impetuoso afferra,
K leva in aria, c poi gli sparge a forza,
Precipitando orribilmente a terra.
Cosi gran sasso ancor levato in alto
Da macchina, talor ruina a basso
Da lei sospinto, o dal suo proprio pondo.
Ma come il collo c la cervice è breve ,
Altramente saria soverchio peso
Del vasto corpo, che s’ appoggia e ferma
Sovra i suo' mai composti e rozzi piedi ,
Che non mostrati giuntura, onde distinti
Sleno, c le gambe son di trave in vece,
0 di colonne alla gravosa mole.
E in guisa d'uomo ci sol l’ incurva c piega,
Mentr’egli siede, masi volge c pende
Sempre o sul manco lalo.o pursul destro;
Perchè impedito dal soverchio pondo ,
Sovr’ entrambi non può star dritto e pari.
Perù sì vede ognor pendente c citino
Nell' un de* lati allorché siede e posa.
Anzi delie ginocchia ci sol ripiega
SACRI.
Le deretane, e l’ uomo in ciò somiglia ;
I.' altre rigide slansi, e dure c salde.
Onde s'appoggia ad un selvaggio tronco
D'orrida pianta : ivi riposa c dorme
Un suo duro, profondo c pigro sonno.
Ma la pianta si piega al peso c frange;
Talvolta ancora ella è recisa e tronca
Dal cacciator, che de' suo' lunghi denti
Cerca l’avorio; eli' è si cara merce,
Onde si faccia poi mirahil opra ,
E di barbara man raro lavoro.
Cade al cader del suo rollo sostegno
La fera belva ruinosa a basso ;
Com’ edificio , clic dì scossa terra
Il moto crolla, c vacillando adegua
Alsuol.cb'è di ruina ingombro e sparso.
Nè potend'clla più levarsi in alto,
E dal gemito suo tradita a morte,
Che gli passa coll’ arine ’l molle ventre.
Nè potean penetrar l’irsuto dorso
Con lance e strali, e l’altre estreme partì
Dell’ elefante che si lagna c more.
Ma sov ra le sue grosse , orride spalle
Ei suol portare in perigliosa guerra
Torre, che grave appar d’ armata gente.
E portando il gran peso ei tutto atterra
Ciò clic rinconlra, e par volubil monte.
Od animata rocra ’1 fiero mostro;
Onde solean gii gli Africani c gl’indi
Perturbar le nemiche avverse schiere ,
E l' armi sanguinose a terra sparse
Calcar sovente, e rabbattute squadre.
Questa gran fera se non more, o cade
In lagrlmosa guerra, o ’n fera caccia,
Anni trecento vive; e senso e spirto
Ha di pioti : talché devota adora
1.’ algente I.una, che le notti illustra.
Un'altra fera è li nel freddo clima.
Dove l’Orsa del cielo i fiumi agghiaccia.
Nè di pioti , nè di grandezza eguale.
La qual pensando alla futura fame
(Conserva fa del divorato pasto
In un proprio e nativo e largo vaso,
Ove ’1 ripone al maggior uopo, e ’l serba:
Tratlonel poscia, indi si ciba c pasce.
Cosi di cibo l’un, d'umore ed' onda
Provvido l’altro, non patisce inopia ,
In guisa di città ch’assedio e guerra
Aspetta, c 'manto si provvede ed empie
Di clùch'al vitto uom chiede, i cari albcr-
E i larghi vasi c le profonde fosse. [ghi,
I Ma pur quest’ animai si fero e grande,
I Cui Roma vide trionfante e lieta ,
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LE SETTE GIORNATE
Quando Leon sedea nell’ alta sede, [guisa
Domato all* uom soggiace. E ’n questa
Volle mostrar Iddio, che in tutto fece
I feroci animali all' uom soggetti ;
All’ uom sua viva e sua diletta immago;
All' uom che ’n guisa d’ immortale crede
Delle cose divine elegge e chiama
All’alta gloria del celeste regno.
E non sol lece contemplar mirando
Negli animali più feroci c grandi ,
Quella divina provvidenza ed arte ,
Cbè ne’ piccioli ancora ella si mostra:
Sìccoik* ancor non men dell’alto monte,
Che vicino alle nubi al ciel s’ innalza ;
Mirabil sembra la profonda valle.
Dove si schivi ’l fero orgoglio e l’ira
De’ venti, usali a ricercar mai sempre
L’eccelse parli ; c si ricovra c scampa
In queta parte, e soli* un puro cielo,
Che ’n sè conserva tepido c sereno.
All’elefante, eh’ è si fiero e grande.
Spavento dà con paurosa vista
(Olii ’l crederebbe?) Il vile e picciol topo.
Lo scorpìo ancora orrido pare a’ grandi,
D’arme pungenti e di veneno armato.
Ma non però la temeraria lingua
li suo veneno in Dio rivolga c versi;
Nè gli dia colpa che *1 serpente c ’l drago
Egli facesse ; e ’l verme e ’l picciol angue,
Che lunge saettando amaro tosco,
Ancide l’ uom con dolorosa morte.
Cbè ’n questa guisa ancor s’accusa ’l Ma-
Se dalla temeraria età proterva, [stro,
Che ribellando alla ragion contrasta,
Temer si fa colla severa sferza ,
E con dure percosse c dure piaghe;
E ’l medico in tal modo ancor s’ incolpa,
Ch’ indi ricerca medicina a’ mali.
Tu, se confidi iu Dio, securo ascendi
II basilisco venenoso e l’ aspe,
E T leone c ’l dragon sopprimi e calca;
Che sopporranno al piè sicuro c giusto,
La domita cervice e ’l collo a forza.
E di Paolo t’ affidi ’l chiaro esempio,
Alla cui santa invlolahil destra
(Menlr’ci disceso nell’ apriche rive
Di Malta, raccogliea materia al foco)
La vipera non diè tormento o morte :
Nè quel che di leggìer s’ appiglia c serpe,
Tosco micidiale a lui s* apprese :
Tanto la grazia può d’alma innocente.
Ma debb’ io far noiosa e fera istoria
Di vipere crudeli e di ceraste?
DEL MONDO CREATO. 165
D’ idre, che di colubri un folto vallo
Sibilando si fan d’ intorno al collo
Ceruleo e gonfio, ed all* orribil testa?
Opur d’aspidi sordi ai forte carme?
0 di fare, di ceneri e di chelidrl?
D’ alfasi algente, o del serpente acceso.
Che dardo sembra ? e come dardo il tosco,
Uccisor de* mortali, avventa e lancia?
0 pur di te, che più famosa palma
Fra le pesti aflricanc ancor 1’ acquisti
Nocendo altrui ? Nè solo spirto e I* alma.
Ma ’l cadavero istesso a morte involi
Anzi ’l rapisci e gliel consumi a forza?
Come’lpitlor che delle membra estinte
Il pallor, lo squallor dipinge, ed orna
Di colorì di morte esangue aspetto,
Parte ci aggiunge orride fere c mostri
Spaventosi, e gii fa sembianti al vero :
Ma dove ’l vero di spavento ingombra ,
Delle finte sembianze il falso inganno
Altrui diletta, e ’l magistero adorno;
Cosi con questi miei colorì e lumi
Di poetico stil , con queste insieme
Ombre di poesia, terribil forme
Fingo, e fingendo di piacer m’ ingegno
Àgli alti ingegni, c dal profondo orrore
Trarquel diletto, che i più saggi appaghi.
Ma pure (schivo altrui fastidio e scherno,
E per questa di fere e di serpenti
Arida, adusta c spaventos’ arena
Più non mi spazio, ed a più lieti obbietti,
Quasi nuovo Caton, mirando io varco.
Ma i frettolosi passi anco ritarda
Larga schiera di strani orridi mostri ,
E di vari animai volami a stuolo,
Clic da putride membra estinto corpo
Produsse, o senza seme, c senza padre
L’antica madre ancor produce, e figlia
Dal riscaldato, e ’nsieme umido grembo.
E queste innumcrabili e vaganti
Danno anzi noia, che terrore o doglia.
Quante, oh ! quante ne veggio in nubi, o’n
ombra
Volarmi intorno ed oscurarne *1 cie!o![bra?
Ma chi gli scaccia in trapassando e sgom-
II tuo lume gli scaccia, o Padre eterno.
Gli’ io chiedo a te, dove dal Santo il Santo
Par che discordi, e sia contrario in parte.
Se tu Dio fosti creator di mosche.
Io, quanto lece per ragione umana,
Ch’ al tuo lume divin l’ illustri o ’nformi,
Oso affermar che tu creasti allora
In lor perfetta età maturi ì parti ;
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1GS POEMI
Di piante e d’ animai perfette uscire
Nel bel paese delia chiara luce
Alia alta noce del tuo santo impero.
E non fu alcuna tralasciata addietro
Delle selvagge ed infeconde piante,
0 pur delle feconde ; e gii nascendo
Sin dal principio erano adorne e gravi
Di sue frondi ciascuna, e de' suoi frutti.
E non com' oggi avviene, oggi a vicenda,
Mentre sue volte ogni stagione alterna,
Son generale, e non già tulle Insieme.
Prima ’l fecondo seme è sparso in terra,
0 pur la stirpe in suol profondo affissa ,
E poi nascer reggiani le piante c l' erba,
Ed avanzar crescendo, e d' una parte
Le radici mandar sotterra a dentro
Di fondamenti in guisa, e d' altro lato
Verso ’l cielo intubare ’t tronco e i rami ;
E poscia germogliar le fronde e i fiori.
Ultimo nasce ’l frutto, e ’nchlno ei pende ;
Ma non maturo, nè perfetto ancora.
Appoco appoco ei si trasmuta, e cangia
Molti vari sembianti e molte forme.
Prima minuto è«ì che gli occhi inganna,
E quasi dalia vista egli s' invola,
E rassomiglia gli atomi volanti.
Che ci appaion del Sole a' chiari raggi.
Dappoi nutrito dell' unior terrestre.
Ed irrigato da rugiade ed aure.
Si nutre e cresce, c si colora c tinge
Come opra ei fusse di pittore illustre.
Ma quando Dio creò di nuovo ’i mondo.
Tutte le selve di frondose piante
Perfette egli produsse, c ì dolci frutti
Tra’ rami si vedean, non mica acerbi,
Quasi appena cominci, anzi maturi
Faceano invito a’ non ancor prodotti
Animali, c dovean la fame e ’l gusto
Lusingar tosto alle dolcezze ignote.
Gravida ancora , a quel sovrano impero,
La Terra partorì la stirpe e l’ erbe
E I dolci fruiti. In cui virtù nativa
Era nascosa di fecondo germe,
E di seme immorlal, che quasi eterno
Dovea poi rinnovar te cose estinte.
E gli animali poi creati insieme
Vestiti fur delle lor peUi irsute,
0 di candida, molle c pura lana ;
0 di sue corna e di pungenti artigli
Ciascun apparve immantinente armato
Nell’ età sua perfetta e già matura.
Nè della prima infanzia allor conobbe [bra.
Alcuno il tempo c ’n non cresciute mem-
SACRL
Anzi questa gran mole ancor novella ,
Questo grande, elicli’ io, mlrabil mondo
Non conobbe l’ infanzia, e tuli’ insieme
Perfetto apparve, c nell’ aspetto adorno.
Ma non fur opre tue gli orridi mostri?
Opre tue non fur già. Maestro e Padre
Della Natura, ma sol vizio e colpa
Della maleria a dismisura ingiusta.
Ch’or lia dlfetto,or nclsoverchio abbonda.
E s’addivien giammai che ’l maschio seme
Debole, c raro sia dal veglio stanco,
0 sparso dal fanciul, nè vincer possa
Con quella sua virtù,che ’nforma e more
Ne’ chiostri occulti dei femmineo ventre
L’ indigesta materia umida, e ’nforme;
Femmina nasce, c eli’ ella nasca è d’ uopo :
E se non caro, è necessario il parto.
Ma d’ uopo non è già elle sia prodotto
Orrido mostro al mondo, e non ci nasce
Per grazioso fin, ma grazia, o fine
Non ha nascendo : e ia materia invitta,
E ribellante alla miglior natura.
Ch’ai meglio è sempre in operando intenta,
£ impossente cagion del nato mostro.
Ma la materia vinta, e non ribella.
Nè ’n contender ritrosa accoglie ’n grembo
Le forme obbediente, c quinci nasce
Maschio ’l figliuolo, e di bellezze adorno,
E di fattezze al genitor sembiante.
E chiunque traligna, ai proprio padre.
Ed alla stirpe de’ maggiori amica
Disslmil fatto, è quasi al mondo un mostro.
E spesso avvicn eh’ egli traligni in guisa,
Degenerando da progenie illustre,
Che dall’ umanità quasi è diverso;
Ned uomo è più ; ma d’ odioso aspetto
Del male sparso c mai concetto seme
Un mal nato animai ci nasce e vive,
Ch’ è detto mostro ; c la natura istessa
Lo schiva cd odia, e disdegnando abborre.
E già, come divolga antica istoria,
Con testa di monton nacque un fanciullo,
E con testa di bue poi l’ altro apparse.
Ed un vitello ancora ebbe nascendo
Il capo di fanciul : 1’ ebbe di toro
Un’ undl pecorella e mansueta.
Ma chi non sa ia mostruosa forma
Della chimera? in cui la capra aggiunta
Era al leone, c ’l Icon giunto al drago?
E chi non sa siccome accoppia e mesce
L’ istessa fama alla giumenta li grifo
Là fra le nevi d’ iperborei monti ,
0 de’ Rifcl, dov’ ci difende e guarda
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LE SETTE GIORNATE
1.’ or ti bramato da' mortali erranti ?
E Torme sono ancora illustri e conte
Quelle che figurò l’ antico Egitto,
O P Affrica arenosa : e questa affisse
All’ uoffi di bue la spaventosa fronte ,
E col tei ricopri P altere corna
Giove ancor, nominando 7 falso Nume;
Ed adorollo in suo famoso tempio,
Ch’ un tempestoso mar d' arene intorno
Ginger solca ne' solitari campi.
Quel con faccia di cane altrui dipinse,
O pur impresse 7 suo latrante Anubi,
Olirà milP altri idoli suoi bugiardi.
E la Giudea dall' affricano inganno
Non fe' diverso il simulacro, o 7 mostro
Quando a Moloc i sacrifici offerse.
Ed a questo fallace e vano errore
Origin prima dii Natura errando
filtra 7 suo fin nel mostruoso parto.
Suol partorir ancor di molte membra
Confusi i mostri, e sul medesmo busto
Molte giunger Insieme orride teste,
O molti piè sopporre al corpo istesso.
E quinci preso ardir la fama audace
Briareo fece, ed Egeon gigante,
E gli armò cento mani e cento braccia.
E di corone ancora ornò la fronte
Di Gerlone, e nell'antica Spagna
Collocollo in sublime ed alta sede;
Ma in questa guisa forse ella dipinse
L’anima umana, imperiosa, altera.
In cui son tre potenze insieme aggiunte.
Or, lasciando da parte occulti sensi,
E di favole antiche ombre, o misteri,
Onde sua luce al vero ancor s'adombra:
Simigliarne ragion produce i mostri,
E d' offeso animai confonde e guasta
Mentr'al materno sen tenere membra,
O sia difetto di confuso seme ,
0 di materia pur maligna colpa,
E vizio innato : e ciò più spesso incontra
1 n quei , che fan si numeroso il parto.
Tal è del gallo la pennuta madre,
E tale ancor la semplice colomba.
In cui figli lalor confuse e miste
Ebber le membra : e con due teste ancora
Fu giù veduto un orrido serpente.
Ed al buon servo di Gesù diletto
In quel sogno divin con sette apparse
L’estranea belva , a cui lasciva donna
Premendo assisa alteramente 7 tergo,
Attrasse 1 regi agl’impudici amori.
Con sette è finto l’ animai di Lenta ,
DEL MONDO CREATO.
Orrida peste ; e rinascenti al ferro
Kur creduti quc'capl , e 'adorno tronchi.
Tralascio alfin deli' animai rinchiuso
Nel laberinto la dubbiosa forma.
E tralascio di Sfingi e di Centauri ;
Di Polifemo e di Ciclopi appresso.
Di Satiri, di Fauni e di Silvani,
Di Pani e d’ Egipani e d’altri errami ;
Ch’empier le solitarie inculte selve
D’ antiche maraviglie , e quell’ accolto
Esercito di Racco in Oriente ,
Ond’ egli vinse e trionfò degl'indi.
Tornando glorioso a’ greci lidi ,
Siccom'i favoloso antico grido.
E lascio gli Arimaspi , e quei ch’ai Sole
Si fan col piè giacendo e schermo ed om-
E i Pigmei favolosi in lunga guerra [bra;
Colle gru rimarransi . e quanto unquanco
Dipinse ’n carta l’Affrica bugiarda.
Perchè vero non è che mai prodotti
Fosser si mostruosi , e vari aspetti
Dalla Natura. E s'è pur vero in parte,
Dio non produsse allor creando i mostri;
Perocché 7 mostro èquello, in cui s’incol.
Difetto di materia, o pur soverchio, [po
Ond’ ai suo genitor disvimi! nasce;
Ma rade volte : e ’n odiosa vista
E di Natura vergognoso scorno :
0 pur (• segno, onde 7 gran Re superno
Sgomenta gli egri e i miseri mortali,
E minaccia la pena e morte e scempio.
Non fece allor creando il Padre eterno
1 muli , o pur le mule : e quella e queste
Illegittima prole e dubbio parto
Kur poscia d’ animai, eh’ aggiunse ’nsieme
Desio sfrenato di natura : c nacque
D’ asino 7 forte mulo e di giumenta ;
E di pronto destrier veloce al cono
La mula , uva di pigra c larda madre ;
E somigliando 7 generoso padre
Corse talvolta nell' Olimpo a prova ,
E riportò correndo ’l caro pregio.
Ed or si gloria di portar sul dosso
Sacri , purpurei padri in Vaticano
In di festo ed altero c nobil pompa :
E incontra move a messaggicri eletti
Degli alti regi c de' famosi Augusti.
Nacque talvolta del destrier corrente
li mulo ancora, e l’asina si vanta
Pur anco di veloce e nobil madre;
Ma l’ uno sparge non fecondo 7 seme ,
L’ altro l' accoglie in non fecondo ventre :
Però nascer non suol del mulo il mulo,
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POEMI SACRI.
Come dall’ un reggiani nascer sovente
L’altro cavallo, e nel guerriero armento
Succeder generoso al padre il figlio.
K la cagion di ciò varia s’ adduce.
A’ corrotti meati il cieco veglio
La reca; quel dich’io per fama illustre,
Ch’ai vaneggiar de* miseri mortali ,
Rider soleva; e le sciagure c i danni
Del suo dotto ei degnò continuo riso.
Ma quel che si lanciò nel foco ardente
D’Etna sublime, c la sua vita (ahi folle.;
Volle finir nella fumante fiamma,
Giudicò poi che mal s’ apprenda insieme
Il liquido col liquido commisto ;
E si mescoli meglio ’l molle e ’l denso.
Come addi vie n a chi fonde , c disfacc
I metalli diversi e lor confonde.
Che lo stagno e l’argento in un condensa.
Altri di più sublime e chiaro ingegno,
Che fu maestro di color che sanno,
Quant’ in mille sue scole insegna ’l mondo,
Della sterilità piuttosto assegna
La più vera cagione al freddo seme.
Pcrch’ è fredd’ animale , e pigro e tardo
L'asino, e ’ntollerante al freddo verno.
Però di Scizia nel gelato clima
Ei non ci nasce fra le nevi c il gelo ;
Benché tra’ Franchi ei nasca, e fra’ Brilan-
E dell’asino nato è freddo il mulo, [ni.
Però sembiante al padre il freddo seme
II figlio non produce in freddo grembo;
Ma s’addita talor per raro mostro.
Meravigliando, della mula il parto.
E ’l mulo ancor, quando seti’ anni ei coni-
si mesce alla giumenta, ed ella espone [pie
Nuovo pori ito del mirabil figlio.
Ma dove ardente Sol la Siria accende
Sovra Fenicia già ne’ tempi antichi
Solean le mule partorir sovente,
E* de muli nascean sembianti i muli ;
Talché passò negli ultimi nipoti
La memoria degli avi , e lungo tempo
La bastarda progenie ’n pregio lue.
Or mancata è la stirpe, e spento ’l nome
Tra* nuovi Siriani c tra’ Fenici,
Nè vantar se nc può Sidone, o Tiro.
Nascer soleva ancor ne’ primi tempi
Di cavallo c di cervo il figlio misto,
Che prendeva l’onor di lunga chioma,
E di vaghe ramose altere corna
D’ enlrambo i suo’ parenti insieme aggiun-
Illegittimo sì , ma bello e grande [ti :
Mirabil figlio, e leve e presto al corso.
E poi crescendo gli pendeva al mento.
Pur come barba fosse , il lungo vello.
Fra gli Aiacetl già l' amiche selve
Libera già pascendo errante fera ,
Dove pascer solcano i buoi selvaggi ,
Con muso adunco, e con ritorte corna.
Con nero pelo , e con robuste membra.
Or non so chi la veggia, o dove appaia.
Benché nc’ climi algenti , orridi boschi
SogHano anco nutrire i buoi silvestri,
E sian fra noi famosi e gli uri c l’alce.
Ma del cavallo e del corrente cervo
Par che non sia più noto ’l misto figlio;
Nè ’l feroce destrier si giunge al pardo
In guisa tal che nc veggiamo ’l figlio.
Siccome il rimirò l'età vetusta :
Tanto l'onor della bastarda prole
Manca, volgendo gli anni, e ’l nome e ’l gri-
fi quest’av> ien, perchè fatture ed opre [do:
Non furdi quel celeste eterno Fabbro,
Il qual perpetue fe’ le varie stirpi
Degli animali , e le rinnova e serba.
Mancate son ancor I* estranee e miste
Forme confuse d’ animai feroci.
Che prcss’ a’ fiumi accoppia A finca adusta,
D’orribil vanità fiera c superba,
0 van mancando: chè serbarsi in vita
Lungamente non può di vario seme
La progenie illegittima ed incerta.
Sol legittima stirpe è quasi eterna.
Siccome piacque al suo Fattor , creando.
Ma già vicino all’alta e nobil meta,
A cui lasso cursor m’ affretto e corro.
Del bonaso m’avveggio, e dell’Iena
Lasciata addietro, e dell’ orribil fera.
Che Tossa umane trae d’ oscura tomba,
E la voce dell’uomo assembra c finge.
Veggio ’l rinoceronte adunco ’l naso,
E veggio te , che d’un bel corno altero.
Purghi del losco le turbate fronli.
Veggio che fra le nevi e l’alto ghiaccio
Il rangifero, occulto al nostro mondo,
Porta correndo le veloci rote.
Veggio mill* altri , e nell’ algente Zona ,
E’n quella che più ferve c più s’infiamma,
Qui non visti animai, ma chiari e conti
Per lungo grido di perpetua fama.
Ma però non ritardo ’l lento corso.
Già stanco e grave, c là m’ appresso c
giungo,
Dove tra le fiorite ombrose piante,
E tra mille vaghezze e mille odori ,
L’ uom creato da Dio m’ aspetta e chiama.
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LE SETTE GIORNATE
Quale esperto figli noi, clie’n festa e ’n
Spaziò per città calcata, e piena [pompa
Della minuta errante c bassa plebe;
Se tede alfine In più sublime parte
Del caro padre ’l veneralo aspetto,
Là dov’ adorno di lontan risplendc
Un re possente di corone c d’ostro;
Sdegna la varia turba, e Turni] volgo,
E là ricovra , ove T affida e ’nvita
Presso all’altera maestade augusta
Del genitore antico il lieto cenno,
0 pur l’ imperiosa e nota voce :
Tal per questo creato, adorno mondo,
CITÒ città di mortali ed’ immortali
Grande e sublime, in cui perpetue leggi
Son prefisse ab eterno al viver nostro.
Pur dianzi io ni’ avvolgca bramoso e vago
Di tante meraviglie, a parte a parte
Tutte cercando, e rimirando intorno:
Onde fermai talvolta i lardi passi
Fra gli animai, che son l’ ignobil volgo.
Or che mi s* offre in vcnerabil fronte
Nel Paradiso il Genltor vetusto
Non diviso anco dal suo Re sublime,
Ohbliando luti’ altro, a lui mi volgo,
Ed odo voce che nel cor rimbomba,
Non già da statua del bugiardo Apollo,
O da ruvida quercia o da spelonca.
Nè d’idolo scolpito in legno o in marmi.
Ma sin dal Ciclo, c ben celeste assembra :
Uom, conosci te stesso, o santa scorta,
Che per questo sentiero a Dio conduci.
Perchè la nostra mente a Dio s’innalza
Sovra sè stessa c lui conosce e ’ntende.
Nè contemplando i bei stellanti chiostri,
E ’l gran giro del Sol , che tutto illustra,
Cosi possiam nell* invisìbil luce
Conoscer il gran Dio che fece ’l mondo;
Come dal contemplar la nostra mente
A conoscer la sua leviamo in alto
L’ali del pronto c fervido pensiero,
Che non si ferma negli umani obbietti.
Ma qual luce degli ocelli , ove si giri ,
Ove si fermi, ivi rimira e scorge
Prati , selve , campagne c mari e fiumi,
Aspri monti , erti poggi ed ime valli :
Pur non vede sè stessa ; e ’n chiaro speglio
Sol di sè può veder la vera immago :
Tal mente umana , che tutt’ altro intende,
Quanto di fuor di lei dipinge ed orna
La mano e l’arte del gran Mastro eterno;
Non intende sè stessa, c non conosce
Quei eli’ ella sia , se non s’ Illustra al Sole
DEL MONDO CREATO. 109
Di verità , quasi cristallo ardente :
Ed illustrata non rimira, e guarda
Come in ispcglio pur la proptia forma,
E quel Signor, che della propria immago
La fece adorna , c di beltà sembiante.
S’ ella adunque òdi macchie orride asper-
Tergasi, e puro in sè raccoglia ’l raggio [sa.
Della Divinità , che ’n lei fiammeggia.
Poich’ebbe fatti gli animai terrestri,
L*opre sue buone Dio conobbe, e disse :
Facciali! noi Tuoni, com’èla nostra imma-
Simil a noi. Fere la Terra e ’l Cielo, [go.
Pur dianzi e’I Sole e gli stellanti chiostri:
Nè chiese aiuto, o dimandò consiglio.
Ed or creando l’ uomo ei si consiglia :
Tanta opra fui Giudeo protervo ed empio.
Odi la voce del Signor, che parla.
Ed a chi parla? a sè medesmo e seco.
Tu , clic di verità sol vedi ’l lume.
Siccome per finestra acceso raggio ,
Ritroso e ribellante ancor repugni?
Nè tre varie persone in Dio conosci ,
Quasi sotto un bel velo ano! dimostro?
Qual sollecito mai notturno fabbro,
0 qual maestro di mcn nobll arte,
Solo sedendo fra’ suo’ propri ordigni ,
Là dove nìun altro insieme adopra,
Dice a sè stesso, e sè medesmo alTretta
Con importuno c frettoloso impero:
Facciam la spada , o pur l’adunca falce
Facciamo immantinente, o’I curvo aratro?
Ciancc son queste, anzi calunnie espresse
Di falsa lingua alle menzogne avvezza;
E s'infinge ’l Giudeo, mentre figura
A sè medesmo pur mentite larve.
E come orride belve all’uomo infeste.
In angusta prigion ristrette e chiuse.
Non polend’ adempir l’ardente rabbia.
Fremono In quel serraglio, e’n fero suono
Dimostrati Tamaror dell’ira accolto,
E la natia lor feritale interna :
Cosi gli Ebrei sospinti a passi angusti
Osano d’ affermar che ’l Padre eterno
Con gli Angeli ragioni in questa guisa,
('on gli Angeli, che stanno a lui d’intorno ;
E gii Angeli ministri all' opre Invili.
Quasi egli chiami del consiglio a parte
1 servi suoi, che sono all’uom conservi,
E gli faccia signori in si grand’opra.
In cui l’uomo è creato a Dio sembiante.
Qual magistero al suo maestro eguale
Esser potrebbe? oli sorda e cieca mente,
Oh sciocchezza c follia d’alma profanai
8
170 POEMI
Molli seni raccòrrò , e fargli degni
Di tanl’ officio, e rifiutare *1 Figlio?
Pensa a quel che poi segue: A nostra imma-
L’uom farriani. Forse un’immagiu sola [go
Ha con gli Angeli Dio? come una forma
lstessa è necessaria al Padre e al Figlio?
Ma nell* uomo, ed in Dio l'alta sembianza
Non è figura, o qualità del corpo,
Ma solo è proprio alla divina mente
L’immago, onde F umana ancor s’informa
E'n tre potenze interne Iddio figura.
Perchè sicrome Dio sè stesso intende ,
E sè stesso intendendo , ama sè stesso ;
E quinci nasce ]' Intelletto ctonio;
E d’ambo quinci c quindi eterno Amore
Spira ; c tre lumi sono, c non tre Dei,
Ma tre persone in un sol Dio congiunte ;
Cosi la nostra mente in noi produce
La volontate, c la memoria appresso
Di questa, c quella si figura c forma:
In guisa tal, clic la natura umana.
Bendi' una sia da tre virtù distinta,
In sè dimostra la divina immago,
Ed In sè stessa Dio conosce ed ama.
Fece ancor somigliante il Padre eterno
L’anima c la ragion, eh' è l'uonio esterno
A sè medesmo, di' è divino amore.
E dell’esterno Adam vestilo intorno,
li tenne occulto, c ricoperto a’ sensi.
E si perclf egli è buono c saggio e giusto,
Pietoso e forte in tollerargli oltraggi.
Lunga stagion ne soffre, c non s’ affretta
A vendicarsi; c poi si placa c molce.
Tale ei creò Tuoni primo, e '1 feo sembiante
Nel puro amor, eh’ è la virtù primiera ,
E d’ ogni altra virtù divina c sacra
Impresse in lui mirabilmente i segni.
Come ’1 pittore alla sua bella immago
Col suo leggiadro slil colori c lumi
Vari, e diversi ognora aggiunge e sparge ;
Ed ombreggiando anco le va d’ intorno.
Sin eh' è perfetta la figura c T arte ;
Cosi '1 Piltor di nostra umana mente
Colorò Tallita c de' suo’ raggi illustre
Tutta la fece, e del color distinto [lumi.
Sempre accrescendo a lei splendori c
E come In scultorcal bianco marmo
Col duro ferro, e toglie sempre, c scema
Quel eh’ è soverchio, c dall’ incisa pietra
Spira alfin quasi viva c vera forma;
Cosi togliendo alla materia ’1 Fabbro
Della natura glorioso, eterno,
Quel di’avea di più duro c di terrestre,
SACF.l.
L’ uman sembiante in viva terra apparve.
Talché divenne F uom sembiante immago
Della Divinità , che ’n Dio risplende.
Ma quel colori, c la mirabil luce
D’altri falsi colori asperge c macchia
La progenie, ch’ognor traligna, c perde
Lesuc prime sembianze c tutto adombra.
Talché Dio non somiglia, c quasi assembra
Pittura tinta col pennel d’ A verno;
Ed allumata in Flegctontc o in Lete,
La nostra umanità macchiata c lorda.
Dunque in sè stesso l’uomo ornai conosca
Contaminate le div ine forme.
E mentre può, si ripulisca e terga, [corpo;
E sempre all’alma aggiunga, c toglia al
Perchè simil si veggia al primo esempio,
E F uom figliuolo al Ile del Cicl si mostri ,
E degno erede del celeste Regno.
Poi benedisse Dio la cara immago
Di sè, da sè creata, c disse appresso:
Crescete in numerosa c bella prole :
Riempile la terra , c lei soggetta
fate all’arbitrio vostro, al vostro impero.
Signoreggiate in mar gli umidi pesci,
E ne* campi dell’aria i vaghi augelli,
E qualunque animai si move iu terra.
Soggetto sia non meno al vostro regno.
In questa guisa tu creato appena,
Uom, creato re fosti, e l’alto impero,
E la sublime polestalc impressa
Non li fu data in secco o fragil legno,
0 nelle pieghe pur di breve carta,
Perchè la roda alfin putrido verme:
Ma la Natura scritta in sè riserba
L’alta voce divina, e ’l chiaro suono.
Comandi, c ’l naturale c giusto impero
In terra estenda, e denti’ al mar sonante,
E nel sublime ancor doli’ aria vaga.
Imperioso tu nascesti in prima ;
Or perchè dunque se rvi a’ propri affetti,
E la tua dignità disprezzi e perdi ,
Ligio ornai fatto del peccato c seno?
Perchè te stesso prigionier cattivo
Fai di Salando, in sue rateile avvolto,
Se già nascondo sci principe detto
Delle cose create, e re terrestre?
Perchè, quasi gettando, a terra spargi
Quel eli’ ha nostra natura in sè più degno
Di riverenza c di sublime onore?
Qual all’ imperio tuo prescritto in terra
È fine? o pur nell’ aria, o ’n mar profondo ?
Se ben Le stesso e lui misuri e scorgi.
Non hai tu penne da volar nel cielo ;
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LE SETTE GIORNATE
Ma l'ardita Ragion nulla ritiene.
Questa coll' ali sue trapassa a volo
Non pur dell'aria I piu ventosi campi,
Ma del elei gli stellanti ed aurei chiostri.
E via men cupo c men prorondo '1 mare
E del suo peregrino e vago ingegno.
Che va spiando dentro a* salsi regni
I secreti dell’ onde c i sensi e i fondi
E le sue occulte meraviglie : c quindi
Vittorioso alfin ritorna in alto.
Di saper ricco e d* immortai tesoro.
Cosi per arte dell* umano ingegno
Prende tutte le cose e fa soggette.
E disse Dio di novo : Ecco a voi diedi
Ogn* erba , che da seme in terra sparso
Germogli, ed ogni pianta, in cui sembianza
È di sua stirpe: e quinci *1 cibo e l’esca
Avrete : c ’l vitto insieme ancor n’ avranno
1 volanti del del sublimi augelli ,
E i più gravi animai , die *n sulla terra
Move e trasporta l’anima vivente.
E ’n questa guisa nell’antico stato
Dell’ innocenza , anco innocente ’l cibo
Non macchiato di sangue, o d’empia morte
Contaminato, o da rapina ingiusta.
Fu conceduto all’uomo, e dato insieme
AH' animai, che senza sdegno ed ira
Era soggetto al mansueto impero.
Non uccideva ancor d’erba nocentc
Maligno tosco , o pur d’orribil angue.
Ma tutto quel che produrea nel grembo
La madre terra era salubre e caro.
Nè tinto ancor s’avea l’artiglio e i denti
L’ affamato leone, o’I lupo, o l’orso,
Nè l’avvoltoio allor da corpo estinto
Cercava ’l cibo, perchè morto ancora
Non era alcuno, e delle morte membra
Non era ancor molesto e grave ’l lezzo :
Ma pascolar ne* verdi erbosi prati ,
In guisa di canori c bianchi cigni ,
E siccome veggiam talvolta i cani ,
Cui la Natura è mastra, andar pascendo,
GIORNATA
Nella quale, trattandosi del Giudicio finale, e
da Dio cri
Roma , dappoi che *1 glorioso impero
Ebbe dbteso dall’ Occaso all’Orto,
E posto *1 freno all’ Aquilone c all* Austro :
Al popol vincitor mirabil vista
Di duo teatri in un sol giorno offerse ,
DEL MONDO CREATO. 171
E ritrovar la medicina occulta i
Cosi pasccvan quei l’erbc novelle.
Ch’or son voraci di sanguigno pasto.
Non si faceva ancor ingiuria in caccia.
Non eran tese ancor l’ insidie ascose
Alla selvaggia e solitaria vita.
E i feroci animali all’uomo amici.
Tutti con lieto c con benigno aspetto
Placidi, umili ivano errando intorno
Ubbidienti a quel sì giusto impero.
Perchè non solo re d’orride belve,
E di serpenti, o pur d’augei sublimi,
E di volanti in mare umidi pesci
Era l’uom primo : ma signore, c donno
Ne’ propri affetti avea lo scettro e ’l regno,
E I suo’ propri pcnsier teneva a freno.
Saldo e costante , imperioso c grave.
Ma poiché ribellante al santo impero
Del Creator sprezzò l’alto divieto;
A lui mostrarsi ancor ribelle in guerra
L’ orride belve: c le caduche membra.
Clic strugger poi dovea l’orrida morte.
Altro cibo nutria di sangue asperso ,
Cibo mortale, a’ miseri mortali
Dato per esca in men felice stato.
Dappoiché l’ acque nei diluvio accolte
Ondeggiando coprir le piagge e i monti.
Ma perchè Tuoni, divina e sacra immago.
L’aita origine prisca anco riserba;
Non perde il naturai suo primo impero
Sovra le fiere : e può con giusta legge ,
Anzi con giusta e conceduta guerra,
Farne preda c rapina, e cibo c veste
Alle sue faticose c dure membra.
Nè questa legge è ingiuriosa ed empia,
Ma di Natura, anzi del Re superno.
Che fece serve all’ uom Torride belve,
E le gregge e gli armenti e i vagiti augelli,
E gli abitanti ancor del mare ondoso.
Così fu fatto. E Dio conobbe e vide
L* opere sue perfette. E ’l sesto giorno
Ebbe qui fine , ed egli in sè riposo.
SETTIMA.
Ila gloria eterna, si dimostra il fine per cui fu
x> l'Uomo.
I quai si congiungean volgendo attorno :
Sicché le genti In lor divise c scevre,
Di cui Tona pur dianzi all’altra parte
SI stava occulta , coll’ unirsi insieme
Nell’ ampia forma d’un perfetto giro,
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POEMI SACRI.
Si vider tutte; e non rimase ascoso
Alcun di loro, anzi mirando a cerchio
Ripieni i gradi dell’assisa turba.
Meraviglia e diletto ebber repente
Pur dell’aspetto inusitato e novo.
Ma in questo eli' allor fece’! Mastro eterno
Gran teatro, e volubile e rotante,
Ch’anfiteatro di sua gloria assembra;
Reuch’ una spera sola in sè congiunti
Duo rinchiuda diversi ampi cmisperi,
Pur I* uno all’altro si nasconde e cela.
E dell* opposte in lor divise genti
Questa mai quella non rimira o scorge.
E già nulla ne 'illese, e ’n dubbio visse,
Se pur altri abitanti avesse ’l mondo,
0 fosse in parte solitaria ed erma
La terra ignuda, o soli’ all* onde ascosa :
Nò perchè sempre intorno ’l ciel si volga,
Sarà giammai , che la girante scena
Mostri i popoli a noi, eh ’han fissi incontra
1 lor vestigi nella prisca terra,
Onoi co’ nostri alberghi a lor discopra
In questi quasi pur distinti gradi,
Per cui s’ innalza e si dechina *1 polo.
Ma quel che far non può volubil giro
Di tanti cicli, c infaticabil corso.
Fa della mente, clic si volge e riede
In sè medesma, il rapido pensiero,
Ch'èquasi un suo perpetuo e vario molo.
Perchè dinanzi a lui si toglie ’l velo
Della terra interposta ;c ’n Dio mirando,
Scorge nel suo gran lume ’l mondo accolto.
Clic divieti quasi angusto all’alma accesa,
Che fuor del inondo è ratta ; e nulla adoni-
I popoli co’ regni a’ lumi interni. [bra
Talché ne’ gradi lor disposti intorno
Sol contemplando, il pellegrino ingegno
Scopre i ferini ed ultimi Riarmi,
E scopre insieme gli Etiopi c gl’ Indi.
E d’nn lato gli appare ’l freddo Carro ,
E’I pigro Arturo; e pur nel tempo istcsso
Altro polo, altri lumi insieme ei scorge.
Non perchè ’l mondo a lui s’accorci cstrin-
Ma perchè la sua niente in Dio s’avanza ga,
E divicn ampia si, eh’ a lei soggetto
L’universo in un guardo accoglie e mira.
Come già vide ’l benedetto Padre,
Gli’all* allo ciel di mille accesi lampi.
Parte seguendo ’lsuo pcnsicr sublime.
Ricerca pur, s’ove ’l Cultore eterno
Segnò morendo ’l luminoso calle ,
II Paradiso a maraviglia adorno
Facesse : c ’u qual estranio ignoto clima
Florisser le felici c nuove piante
Quando pria fu creato ’l padre Adamo.
Era dunque compiuta ornai la Terra,
Compili i cieli, e gli ornamenti c i fregj
L* opere di sci giorni avean distinte,
E quel meraviglioso alto lavoro;
Quando cessando Dio d'opra novella,
E del crear, ebbe nel dì seguente.
Che fu settimo giorno , alto riposo.
Nè fu poi Creator di nuova prole ;
Ma le prodotte conservando in vita.
Di lor prese il governo. E tli quotarsi
Nelle cose create a lui non piacque.
Già fece ’l cielo; od acquetarsi in cielo
Non prese in grado. E i bei stellanti giri
Fece; e col vago Sol l’errante Luna:
Nè volle riposar nell’ auree stelle,
0 nella sfera del sovran pianeta,
Ovver nel cerchio della Luna algente.
Fece la terra ancor, eh’ è ferma e salda;
Nè riposò nella gravosa terra.
Che ’n sè medesma si mantiene e giace.
Dove dunque, ed in chi quiete e posa
Ebbe il Fattor di cose eterne c magne?
Ben è ragion clic le costanti e gravi
Sien quelle sole, in cui non prenda a sde-
Di riposare: anzi quiete e moto, [gno
Non fu giammai senza la stabil parto.
Però sempre si muove ’l ciel non tardi
Sovra i suo’ poli, e quinci e quindi affissi,
E non si moveria, se stabil centro
Ei non avesse al suo perpetuo corso.
Onde si finge ’l favoloso Atlante,
Che ’ntorno a’ poli opposti il ciel rivolge,
E nella ferma terra i piedi appoggia.
E gli animali ancor mobili c vaghi
Mover non si potrian, se ’n lor non fosse
La stabil parte che s’acqueta e posa.
E però quella, chesi curva e piega
Nel movimento, è lor di centro In vece.
Dunque se mover debbe il Motor primo
Non sol convenne ch'egli immobil fosse.
Ma che ’n non mobil parte il moto eterno
Fermasse ancora. E di fermarlo in terra
Ei non degnò. Dove fcrmollo adunque?
Qual della terra è più costante mole?
NcU’uom quetollo e l’uomo al fin dcll’o-
\ olle crear perchè cessasse ’l moto, [prc
E se moto non fu , l'arte divina
Restasse di crear l’ opre moderne.
Più della terra adunque è l’ uom costante.
Siccome quel che dell’eterno esempio
E vera immago , c ’l suo caduco e gravo
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LE SETTE GIORNATE
Spogliar si deve ; e ’ncorruttibll forma
Rivestendo, lassuso alfin s'eterna
Nella quiete d'invisibil regno.
In questa guisa volle Iddio, creando,
Mostrar della sua morte alto mistero.
Quasi in figura; anzi predir da lunge
Ch'anzi i tormenti della morte il Figlio
Dovea nell’ uom quotarsi ; e ’n membra u-
A guisa di mortale, al dolce sonno [ mane,
Conceder gli affannati e lassi spirti.
Dunque s'acquetò Dio nell* uom terreno:
E I* uomo in sè non ha quiete o pace?
Non han quiete in sè gli egri mortali ;
Ned opra di Natura in sè riposa.
Ma gira ’l foco nel perpetuo corso
Del cicl sempre inquieto, e sempre vago.
L'aria agitata da contrari venti,
È da sè stessa ognor divisa c sparsa.
L'acqua trascorre, e senza pace ondeggia.
E questa, cii*a noi par gravosa c ferma ,
Terrestre mole ancor si scuote, e crolla
Da’ fondamenti : c ruinose atterra
Le cittadi, c le terre eguali a’ monti,
E i monti stessi: e scissa 'I pcttoc ’l grembo,
Talor nelle voragini profonde
Scopre i regni di Pluto e i ciechi abissi ;
E l’ultima ruma altrui minaccia.
Ma nel suo Creator pace c riposo
Han le creale cose. E ’n sè medesmo
Egli s’acqueta: nè d’esterna gloria,
Nè d’altro ben, fuor di se stesso, ha d’uopo:
Ch’ è sommo bene; e con riposo eterno
Governa l’immortal felice regno
Là, 've dal travagliar ne chiama a parte.
E se *n terra nell' uom quotarsi ei volle.
Fu perchè l’uomo in Dio s’acqueti alfine.
Però quand’egli in sì mirabil tempre
1/ umanilade al suo divin congiunse,
Pose alla vita faticosa e stanca
In sè medesmo alfin dolce restauro.
E gloria e grazia , onde s’ adempie c bea
Nostra natura d’ esaltar cotanto,
In lui si vide. Adunque *1 sesto giorno
AH’ opre nove fin sul vespro impose.
Nè poi nova progenie, o nova stirpe
Egli dovea creare. E ben convenne
Che del gran mondo producesse ’! parto,
E di tutte le specie in lui raccolte.
Col numero di sei, ch'è più fecondo.
Ma dica quel eli' ha la scienza e l’ arte
Del numerar, coni’ è pregnante il sci;
E nelle parti sue perfetto c pieno,
Generar poi di sè varie figure
DEL MONDO CREATO. 173
Di numeri egli possa : c tutto aggiunga
Ciò clic nelle sue scole insegna 'I mondo.
Dicavi ancor, coni’ è infecondo il sette,
Perocch’egli di sè nulla produce ;
E di nulla è prodotto; c poi seti vanti,
Com* ei faria di gran tesoro occulto.
Or tralasciai!!, quasi sprezzando, addietro
Quello , onde tanto va gonfia e superba
Mondana sapienza; e sol ci caglia
Dell’uso de’ fedeli antico e sacro.
Onde al settimo dì s'aggiunse onore.
L’onoraro i Giudei nel sesto giorno.
Quando lieti innalzar frondose tende;
E rlcovrar soli* a’ selvaggi alberghi.
E l’onorar nel di famoso ancora,
('.he per le trombe, e celebrata pompa,
E sonoro , e festante, e pregio al sette
Non men degli altri il dì propizio accrebbe.
E ’1 settimo anno fra gli antichi Ebrei
Fu d’ognl riverenza e d’onor degno.
Perchè ne* sei, ch’cran trascorsi avanti.
Lecito era a ciascun fender la terra
Col duro aratro, e ne’ solcati campi
Sparger con larga mano il fertil seme;
Ma nel settimo poi contento c pago
Ei raccogliea dal non arato grembo
Sol quanto volontaria ella produce.
Esci anni serviva ’l prisco Ebreo:
I.ibero da fatica c da servaggio
Era ’l settimo poscia. E ’l duro giogo
Degli Assiri superbo olirà I* Orante,
Olirà 1* Eufrate in Babilonia oppresse
Anni settanta i miseri cattivi,
E nove appresso, e candida rifulse
1.’ antica liberiadc al popol servo,
Quando’l sette col dieci ha pieno ’l giro.
Or trapassiam senza dimora a’ nostri.
Ben sette volte il dì cade e risorge
Il giusto cui d’ Adamo il grave iucarco,
E la natura sua caduca atterra,
Ma la grazia ’l solleva ; c ’n questa guisa
Di tal numero noi consorti andremo.
Settimo Enoch dal genilor primiero
Morte non vide: e ’l gran mistero adombra
Questa, ch’or vive, ed all'Impero estinto
Sorvivc ancor Chiesa immortale c santa,
E settimo Mosè dal padre Abramo
Preso la legge, c la cangiata vita,
L’ Iniquità scacciata, c ’l varco aperto
Alla giustizia ; e Dio, eli’ a noi discende
Con membra limane, cs’avvicina e giunge,
E più santa vlrtutc insegna al mondo
Mirabilmente, c nova legge apporla,
174 POEMI
Pur da Mosè son figurati In parte.
Ed aggiungendo pure al diecc il sette,
E sette appresso, dal vetusto Adamo
]1 Figlio di Maria prodotto apparve.
E poi conobbe ancora ’l vecchio Pietro
Del numero del sette alto mistero ,
Che di perdono e di quiete è segno, [ to.
Ma noi conobbe appien ,clie d ubblo e ’nccr-
Prima ne parve, c poscia ei puri' intese,
Chè ri veiol lo il suo Signore e Mastro,
Lo quale in perdonando aperse ’l grembo
Delle sue grazie, e de’ tesori eterni:
Nè sette volte sole, anzi settanta
Sette fiale a perdonare insegna.
Onde alla pena di Caino ingiusto,
E già macchiato del fraterno sangue.
Il perdono di Pietro allor risponde,
Quasi dall’altra parte il fallo opposto.
Ma ’l perdon del Signore adegua e passa,
Di Lamech condannato antica colpa:
Perchè di leve error perdono angusto
Par che si dia : ma se ’l peccato abbonda,
Ivi la grazia oltra misura avanza.
Ed a chi molto si perdona e ’ndulge,
Molto concede di fervente amore
Quel eli’ è verace amante e non s'infinge.
E di perdono adunque e di riposo
Segno ’l settimo giorno, in cui cessando
Il Padre eterno, di cessare esempio
Diede all’antico Ebreo, ch’iudarno or cessa
D’opre c di fede neghittoso e tardo.
E quel settimo dì mattino ed alba
Ebbe, nè vide poi la sera il vespro, [giorno,
Ch’ ancor non giunge, e non adombrai!
Lo qual s’illustra di perpetua luce.
Ma le veci del tempo, e ’l corso e i giri
Chiudono i nostri dì fra mane c vespro,
In cui ciascuno ancor s’ adopra c cessa ,
Ed al riposo le fatiche alterna ,
Insin che giunga spaventoso in vista
Quel che dee consumar la terra e ’l cielo,
Settimo giorno minacciato innanzi
Orribilmente. Allor le mura eccelse
Di questa luminosa antica mole
Espugnate faranno alte mine,
E ’l foco Uncilor, predando intorno
(ìli umidi regni, e i già fumanti e negri
Campi della fervente arida terra ,
Parrà che tutloabbia converso in fiamma :
Sicché appena del mondo ornai disfatto
Vedransl l’arse e ’ncenerite spoglie.
Quasi trofeo della Giustizia eterna.
Ma nel princìpio dell1 orribil giorno,
SACRI.
In aspettando i minacciati incendj.
Nozze non si faran, nè liete pompe;
E non si canibieran le care merci
Fra l’Indo o’I Mauro, o fra lo Scila algente
E P EUopo : anzi ’l timore adusto,
Nè la coltura de’ fecondi campi
De’ mortali sarà studio e fatica.
Ma d’ un novo stuporla terra ingombra
Attonita parrà; parran tremanti
Tutte l'opra di Dio creale in prima ,
Per l’ improvviso, insolito spavento.
E i giusti ancor delia sentenza estrema
Timore avranno. Allora il padre Àbramo
Temerà, non di foco, o di tormento.
Ma del grado d’ onore, a cui sortillo
La provvidenza del suo Re superno:
E ’n qual ordin de’ giusti a lui riserbi
La Giustizia divina i premj e ’l loco,
0 sia ’l primo, o ’l secondo, ostasi ’l terzo.
E ’l Re del del folgoreggiando in alto
Dimostrcrassi in bianca nube accolto.
E come nube, eli’ 6 squarciata,» velo,
1 cicli a lui dinanzi aperti c scissi
Vcdransi rivelar l’alta possanza.
E mille appariranno e mille ardenti
D’ esercito divin falangi e squadre ,
Risplendendo lassù di luce e d'arme.
Fiammeggerà coll’oro il fino elettro
Entr’alle spaventose oscure nubi;
E vedransl ir vagando a nembo a nembo.
E più di tuoni spaventosi udransi
Terribilmente le canore trombe.
Crollati c scossi i bei stellanti chiostri
Tremar tutti vcdransi al gran rimbombo.
Tremerà nell’orror confusa e vinta
La Natura creata; avran temenza
Gli Angeli stessi, e riverenti in alto
Al fulminante Re staranno intorno.
Qual re de’ Persi mai, d’Assiri o d’ Indi,
Si coronato fu d’orride schiere
Entri a presa città, che ’l foco e ’l sangue
Correndo inonda, e orribilmente ’ngotn-
E di recise membra, e di cosparte [bra;
Duine ’l ferro ancor riempie c colma?
0 qual immago d’illon superbo.
Clic fu dai greco incendio arso c combusto:
Qual dell* imperiosa alta Cartago
Ruinosa caduta, o di Corinto,
0 di Nunianzia pur ruina e scempio;
Qual di tulli, dich’io, confusa c mista
Lagrimosa e sanguigna , orrida immago
Potrà rassomigliarsi ai già distrutto
Entri a fumanti incendj , c vasto mondo r
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ns
LE SETTE GIORNATE
Che di sè stesso a sè fu rogo c tomba?
Allor rapiti fiano a volo i giusti ,
E le nubi saran carri volanti ,
Che porlerangli, c i duci Angeli eletti,
D'auriga in vece al nubiloso carro
Ciascun tari veloce ed allo il corso.
Risplcnderan come lucenti stelle
Allora i giusti. E dal gravoso pondo
De’ lor peccali , e di lor colpe avvinti ,
Cadranno i rei nel precipuio eterno
Oppressi: e non sarà eli’ indi risorga
Alcun giammai dall' odioso lncarco.
0 grande, spaventoso, orrido giorno!
E fia pur ver ch’abbia mattino ed alba?
Nè fine imponga a tan l’orrore il vespro?
Ovvcr termine fia pur anco affisso
A quel gran dì de’ prenij e delle pene.
In quell' ultima sera? E nova luce
Risponderà meravigliosi, eterna
Nel giorno ottavo, onde le menti illustri
Qual Roma già famosa , e nobil opra
Del gran Quirino e del nipote Augusto,
Del novo imperio fondatore c padre ;
Da barbarica man percossa, e vinta
Cadde in s£ stessa , e fra ruinc e morti ,
In sè medesma poi sepolta giacque;
Col vicario di Cristo indi risorse
Più bella agli ocelli della niente interna,
£ maggior di sè stessa, anzi del mondo,
Che capace non è del santo c sacro
Tuo regno già fondato in salda pietra:
Tal (s’agguagliar si può la parte al tutto)
Avrà suo fin questa caduca mole
Dell’universo, c col girar del tempo
Il girevol teatro a terra sparso
Cader vedrassi iu cenere c ’n faville:
Poi rifallo sarà dal Fabbro eterno;
R risorgendo in più mirabil forma.
Non fia soggetto al variar de’ lustri;
Nè mai più temerà mina o crollo.
Ma questo ora del cicl volubil tempio
Fermo sarà col Sole, e ’l torto corso
Fermo ancor fia dell’ alte stelle erranti.
Talché i beati avran costante albergo
Là dov’eterna fia pace tranquilla,
E non commossa da tempesta o turbo,
Pura invisibll luce, c stabil giorno.
Cui termine non fia l’orrida notte,
Nè correr si vedrà da mane a vespro;
E non avrà coll’ombra il giro alterno.
Nè con varia stagion vicenda c corso :
Ma premio avrau lassù le nobili alme.
Di riposo e di gloria in un congiunte,
DEL MONDO CREATO.
E fia somma quiete il sommo onore.
Là dispensate fian corone c palme
A’ gloriosi, c seggi alti lucenti.
E quei, che guerreggiaro in lunga guerra,
Quant'è la vita de’ mortali erranti
Sovra la terra, c riportar Vincendo
Dal nemico Saianuo in duro campo
Mille vittoriose e sacre spoglie.
Lassù vedrà usi trionfando a schiera
Nel gran trionfo eterno, c ’1 gran vessillo
Coronali seguir del Re possente
Degli altri regi. E la divina destra
In quel d’eternità lucido tempio,
Onde precipitando angel rubello
Cadde, sospenderà le spoglie eccelse,
Fi l trofei della Croce. 0 lieto giorno,
Giorno sacro e felice, in cui s’eterna
Da pompa trionfai , la gloria c ’I canto
E la quiete. Allor quiete c pace
Avran le menti rapide c rotanti.
Gli’ han sì vari i pcnsicr, sì vario ’l moto:
Ed or fuor di sè stesso un dritto corso
Fanno, alle cose pur caduche e basse
Quasi inchinando, e con distorti giri
Corron talvolta oblique ;c*n sè medesme
Si rivolgon talora , o fanno ’l cerchio,
0 ’ntorno a quel divino immobil centro,
DI cui l’anima vaga è quasi sfera.
E di Fortuna ancor l’iustabil rota
Ferma allor fia, s’ella col Ciel si volge.
Riposo ancora avranno 1 nostri alleiti.
Che ’nconlra la divina eccelsa mente
Fanno ritrosi passi, e torlo calle.
Siccome opposti al più sublime ciclo
Soglion volgersi ancor Giove c Saturno,
E la stella di Marte c di Ciprigna.
E giusto è ben che s’ allor fine avranno
1 moti delle stelle erranti c fisse ,
L’abbiano quegli ancor di mente e d’alma
Umana, di’ assembrar del cielo ’l corso.
Tulli avran pace allor nel fisso punto
Della Divinità. Riposo eterno
Sarà l’intender nostro e ’l nostro amore.
Che ’n tante guise ora si varia c cangia,
E con tante volubili rivolte.
Riposo eterno fia la grazia c ’l merlo,
E ’n seggio ctcrno.Orclii fra noi s’attempa
In aspettando *1 giorno, c sofTra e speri ,
E del tempo c del Fato i duri colpi
Vinca sol tollerando, c giusto oltraggio
Faccia alla disputala orrida Morte, [pio
E mentre il gran Clemente al primo csem-
La Chiesa Informa, ed all’Idea celeste,
176 POEMI
Seco ciascuno ancor nel puro tempio
Della mente serena Iddio raccoglia ;
E gli figuri il simulacro interno
Di sua pietà. Sia Palma il sacro aliare;
Vittima l’innocente acceso core;
Amor di carità sia foco e fiamma:
Così prepari in sè l’ interno albergo,
Pur volubile ancora, e pur costante
Ne* giri incerti, insili clic ’I nudo spirto
Voli a quella sublime eterna reggia.
Là dov'è ’l sacerdozio aggiunto al regno.
Ma dove, oli dove mi trasporla *1 corso
Del fervido pensier? dal giorno estremo
Torniamo a quello, incili creato in prima
Fu dal celeste il genitor terreno.
Dio sparsa non avea la pioggia ancora
Sovra l’arida faccia, e ’l secco grembo
DcU’ampia terra ; e’I buon cultorde’campi
Nato non era faticoso all’ opre.
Ma sorgea dal terreno un chiaro fonte.
Che tulio P irrigava, c i monti alpestri
Talvolta ancor bagnala, e l'aspro rupi;
Siccome ’l Nilo il verde piano inonda
Dell’Egitto fecondo, e i lieti campi
Di negra arena ricoperti impingua.
E fosse quello o nube aerea, o fonte,
Era sublime sì, ch’agli erti gioghi
Mormorando spargea I* onde correnti.
Fonte, fonte fu quella, c d’alta parte
Ne’ principj del mondo ancor novello
Fu a’ monti in vece di piovosa nube,
Non pure al polveroso ed timil suolo, [no,
Formò adunque *1 Signore, e ’l Padre eter-
Eterno Dio I’ noni di terrestre limo.
Ed in far questa della specie umana
Quasi statua vivente, ei pura elesse,
E sincera materia, allor di nuovo
Dall'acque separata : c *1 misto umore [glio
Colonne c sprcsse, e quinci c quindi ’l me»
Della terra ci v’aggiunse a prova scelto :
Sicché ’n sè non aveva o colpa o vizio,
Quella prima materia, in cui l'albergo
Fabbricar volle alla più nobil alma
Fornita di ragione, e quasi il tempio.
Fu la malizia poi difetto c colpa
Nella materia del corrotto seme.
Onde la fame e l’ importuna sete,
E di languide febbri esangue schiera,
E la pallida morte alfin deriva.
Ruoli era ’l Fabbro, c la materia e l’arte
Fu buona aneli’ ella; onde leggiadre cdal-
E ben formate fur le nove membra [te,
A maraviglia, e forti insieme e belle
SACRI.
Del padre Adamo : c da vermiglia terra
Prcser vago color le guance e ’l pelo.
E ’l nome egli medesiuo indi sortio,
Misterioso nome, in cui s'espresse,
Ch'egli’n terra nascea signore e donno
Dell* Oriente e del contrario Occaso;
E delle parti d’Aqullone e d'Austro.
Nell’alma ancora usò mirabil arte;
Nè ’n farla riguardò creato esempio.
Ma ’n sè medcstno,e nel suo proprioVerbo,
Di cui fece nell' uomo divina innnago.
E ’n faccia gli spirò spirto di vita :
Non di sè stesso già divina parte,
Com’ altri stima, ina creato spirto,
E somalo da lui, perch'egli avvivi,
E<1 animato faccia ’l nobil corpo.
Siccome Fi dia d’Alessandro invitto
Dappoi facendo ’l simulacro illustre,
La magnanima fronte al Ciel rivolse;
E ripiegando la cervice altera.
Gli alti di lui costumi in guisa espresse,
Ch’ci non contento dei terreno impero.
Par eli’ aspiri alte stelle, e ciiicda’l Ciclo,
Cosi ’l Fabbro primler la fronte c gli occhi
Alzò dell’ uomo alle stellanti sfere;
Perchè là guardi, onde celeste erigo
Ebbe l’alma inunortal, ch’eterno regno
Parche chieda per grazia al Padre eterno.
Ma tuli’ altri animali a terra ci volse
Pendenti e proni, a rimirar costretti
Pur sempre la comune ignobil madre;
Come slen nati ubbidienti al ventre;
Perchè ’l lor fine è pure ’i pasto e ’l cibo,
E terreno piacer gli alletta e moke.
Ma se talora olirà ragione in alto
Intende l’uomo, e senza grazia o merlo
Aspira al Cielo , c superbisce ed osa ;
Miri la terra, e ’n sè rivolga e pensi
Cli’cgli nato di polve, alfin in polve
Sarà converso; e ’n eor superbo appiani
Ogni pensier, che di sè stesso ’l gonfia.
E come quel , che serva, ignobil madre
Di nobil genitor produsse in vita ,
Spira ’l paterno orgoglio, ePIree’l faste
Della progenie antica; c’n alte imprese.
Generoso, talor s* arrischia c tenta: *
Poi ripensando alla materna stirpe ,
AI soverchio ardimcntoci stringe ‘1 freno:
Cosi l’uom dell’antica c bassa madre
L’umll principio suo contempli e guardi
Il seno, ond’egli usci, eli’ ei pruine e calca
Con piè superbo, irriverente, audace.
Come s’ egli dal Ciel recalo avesse
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LE SETTE GIORNATE
Di materia celeste aspetto, e membra.
Pensi fra sé ch’egli è animai terrestre;
Che per terra ci cammina ;c’n terra ci ccr-
11 nutrimento, e si riposa in terra; [ca
E per la terra ancor è in lite e guerra
Sovente, e corre forsennato all’arme;
K non fa grande mai , nè lieve impresa.
Se non sovra la terra : e l’ire estingua,
Egli ardenti desili ammorzi e queti.
Questo pensier, che all’ umiltà l’ inchina
Alcune volte, altre solleva al Cielo
Il suo spirto immortai, che ’l line affìsso
Non loca in terra, o pur nell’ auree stelle,
Ma nel Signore, al cui sublime seggio
Il ciel del cielo è quasi terra umile :
Tanto è lontano alla divina altezza!
Ma non sol nell'aspetto e nella fronte,
Mirabil arte fu del Mastro eterno ,
Chè’n ogni parte ella trapassa a dentro,
E la celeste ancor figura c forma.
Ma pur siccome in rocca, e in torre eccelsa
Son disposte le guardie intorno intorno,
Onde sccura da notturna insidia
Il nemico lontan discopre e vede;
Cosi a guardia i veloci e desti sensi
Collocò nella lesta il Fabbro eterno.
Fe’ quasi vallo le palpebre agli orchi,
E le ciglia pelose; e ’l varco aperse
Alle sonore voci, onde trapassa,
Dimcssaggieroinguisa addcntro’l suono,
E di fuor le novelle al core apporta.
Ma fece all' altre cose ’l passo angusto,
E quell' umide vie rivolse in giro
Qual la ber luto, e più spedito calle
l'or doppia strada a’ dolci odori aperse.
Umida c molle diè la lingua al gusto.
Clic distingue I sapori; e sparse ’1 tatto
Per ogni membro umano, e ’ntorno al capo
Fece delle sue proprie e vaghe chiome
Quasi natia corona, ond’ei s’ adorna
Questa mole, che Possa insieme avvinse
Co* nervi, che son quasi i lacci e i nodi
Tenaci e lenti , ond’ ei s’incurva e piega.
Fece quasi di sangue un vivo fonte
Il core, ed altre fonti interne appresso,
E, quasi rivi di corrente umore.
Le vene, che dal core all'altro membra
Portano’! sangue, onde s’ irriga ’l corpo.
E tutta in tutto lui diffuse e sparse
L’ alma , che ’n ogni parte è tutta ancora :
Benché tre sieno in una , e sien congiunte
Le due mortali all’ immortai sorella;
Perch'ella avvolta entr'a’ corporei chiostri
DEL MONDO CREATO. 177
| Non sdegni d’abitar terreno albergo.
Sin che ’l Signor la si richiami al Cielo
Da quella guardia, ch'ei la pose in terra.
Nell'alta dunque della nobil testa
Rocca fondolh, c quasi in propria reggia.
Ivi dell’uom.ch’è quasi un picelo! mondo,
A lei concesse l’onorato impero :
L’ altre, come soggette al giusto regno
Nelle più basse parli il Fabbro eterno
Dispose; c rimovendo i lochi e i seggi.
Dalle profane separò la sacra
Potenza. E l’ira, eh' è di fiamme ardente,
E di vendetta ingorda av vampa e ferve.
Precipitosa pose in mezz’ai petto.
Ed albergolla nel sanguigno core :
Nè rinchiusa starà ne’ segni angusti :
Ma spesso per timor s’agghiaccia e stringe.
E’1 ventoso polmone appresso ei giunse.
Che di mantice ’n guisa, accoglie e rende
L’aure di fuori, e quel calore interno
Col dolce respirar tempra e rinfresca.
La cupidigia le supreme parli
Altrui concesse, e quasi a forza spinta,
Si ritirò nell’ ime : ivi ricovra.
E quel cinto, che l’ uom traversa e cinge,
La divise dall’altra ; e quasi belva
Al suo presepio ivi rimase avvinta.
Avidamente ivi si nutre e pasce;
Anzi mille rabbiose, ardenti brame
Empier non può famelica e vorace.
Ch’ora avaro pensier la fiede ed an^j
Con dura sferza ; or della face avvampa
Di mille amori, e tutta è foco e fiamma, [lo
Qucstooravvicn, chèl’uuae l’altra appun-
Della Ragione ha scosso ’l giogo c ’l freno ;
E nemica si mostra c ribellante.
Ma quando pria creolle il Padre eterno.
Nè tumulto, nè guerra era nell’alma, [di
Ma somma pace, e ’n sommo amor concor-
Ubbidian della Mente al giusto impero.
E 'I suo volere era costante legge
All’alma di giustizia ancor amica.
In questa guisa la divina destra
Formò Tuoni primo non soggetto a morte;
Ma per grazia, iinmortal, non per natura,
Come l’Angelo pria di pura mente ;
E lui formò là sovra ’l polo aprico
Dell’antica Damasco ; c vecchia fama
^Sc degna è pur di fedeì ancor rafferma.
Poi trasporlollo entro l’ameno e lieto
Suo Paradiso, che d’ombrose piante,
E di feconde a meraviglia adorno
Fe’ l'arte e l’opra del Cultore eterno.
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178 POEMI
Loco è nell’Oriente, ove percossa
Dai Sol vicino più s’ accende e flagra
Quella maggior del cielo adusta parte
Posta ’n mezzo fra ’l cerchio, onde rivolge,
Quasi fermato, il Sole il corso errante
Dall’ albergo del Cancro, e l'altro giro,
In cui dal Capricorno indietro ei toma.
Quivi di piante coronato e d'ombre
Un altissimo sorge e sacro monte,
Làdove ne’vapor ristretto in nebbia, [già,
O’n nube ascende, o condensato in piog-
E non si spira ancor procella, o turbo
Obliquo e denso, o fulmine tonante.
Nè vi giunse del Sol ritorto '1 raggio
In guisa, ch'egli l’aria infiammi e scaldi.
Però benché nel pian la terra avvampi,
E Stiepidisca le frondose falde
Del vago monte , al mo